Quello che viene chiamato "rock" non è soltanto un genere musicale. È uno stato d'animo, un modo d'essere che incrocia la musica, il cinema, la letteratura, il teatro e la creatività in genere compresa quella destinata alla produzione industriale. Per chi è nato negli anni Cinquanta e Sessanta è un sottofondo, una colonna sonora di ogni momento della vita, di pensieri e ricordi. Esiste da sempre e aiuta a vivere meglio...
Il 30 giugno 1963 nasce a Stoccolma, in Svezia, il chitarrista Yngwie Malmsteen, uno dei più apprezzati chitarristi heavy metal degli anni Ottanta. Già a otto anni la sua principale passione è la chitarra. I genitori, lungi dall'ostacolarlo, lo mettono in contatto con i migliori maestri di quello strumento. La sua formazione musicale è intensa e decisamente classica. «Ascoltavo Bach e Mozart, ma non disprezzavo neanche i gruppi del rock progressivo che arrivavano in Svezia, come i Deep Purple e i Pink Floyd.» Quando a quattordici anni forma la band dei Rising ha già alle spalle una breve esperienza con i Powerhouse. Periodicamente registra le sue performance su nastri che invia poi in ogni parte del mondo ai talent scout delle case discografiche. Il primo ad accorgersi di lui è Mike Varney, che gli telefona e lo convince a raggiungerlo a Los Angeles città dove, gli dice, «c'è fame di buoni chitarristi». Il ventenne Yngwie se ne va così dall'altra parte dell'oceano e ottiene la sua prima scrittura come chitarrista degli Steeler di Ron Keel. Le sue virtù attirano l'attenzione di band di primo piano della scena heavy degli States, ma tra tutte le proposte lui accetta quella del cantante Graham Bonnet, che ha alle spalle un paio d'esperienze interessanti con i Rainbow e con il Michael Schenker Group. I due formano così gli Alcatrazz, con il bassista Gary Shea, il batterista Jan Uvena e il tastierista Jimmy Waldo. L'avventura non dura molto perché, nel 1984, dopo un paio di album Yngwie saluta e se ne va. Intenzionato a non farsi più imprigionare in schemi troppo rigidi forma una propria band d'accompagnamento, i Rising Force, e debutta come solista. L'album si intitola Rising force come il nome della sua band. Il pubblico e la critica mostrano di gradire le sue scelte a anche gli album successivi vengono accolti bene. Quando tutto sembra andare ormai per il verso giusto nel 1987 Yngwie resta fermo per un lungo periodo con un braccio bloccato dai postumi di un grave incidente stradale. Si riprende l'anno dopo e nel 1989 va in Unione Sovietica a registrare in due tornate successive lo splendido live Trial by fire - Live in Leningrad con Barry Dunaway al basso. Gli anni Novanta e la sostanziale ripetitività dell'heavy metal lo stimoleranno a cimentarsi su altre strade come la realizzazione dell'album No mercy, contenente una lunga serie di brani classici eseguiti con l'accompagnamento di un'orchestra di strumenti a corda. Nonostante tutto, però, non rinnegherà mai il furore del metallo che gli ha dato la notorietà.
Il 29 giugno 1910 nasce in West Virginia Tom Parker soprannominato "Il Colonnello", l'artefice principale del successo di Elvis Presley di cui resta confidente, consigliere e manager per tutta la carriera e del cui mito continuerà a occuparsi anche dopo la sua morte. Praticamente dalla nascita Parker cresce nell'ambiente del circo e quando si può reggere da solo sulle gambe si occupa di svariate incombenze in una sorta di spettacolo itinerante messo in piedi da suo zio e che gira l'America con il nome di "The Great Parker Pony Circus". Per lungo tempo la sua vita scorre nell'ambiente delle attrazioni viaggianti, dei saltimbanchi e dei circhi, prima come addetto stampa e, dagli anni Quaranta, come impresario e promotore di spettacoli in cui i numeri da circo si alternano a intermezzi country. Diventa così manager di vari esponenti di spicco del country di quel periodo come Hank Snow ed Eddy Arnold. La sua decisione, venata da malcelate inclinazioni autoritarie gli valgono nel 1953 titolo onorifico di "colonnello", che gli viene ufficialmente conferito nel corso di una spiritosa cerimonia svoltasi nel 1953 in Tennessee e che gli resterà appiccicato per tutta la vita. Una sera, dopo averlo ascoltato in concerto nell'Arkansas, offre i suoi servigi a Elvis Presley. Nel novembre del 1955 mette a segno il suo primo colpo vendendo il contratto già firmato da Presley con la Sun Records alla RCA Victor. La sua influenza determina anche l'atteggiamento da tenere in alcune scelte cruciali della sua vita di Elvis. È Parker che gli suggerisce di non sottrarsi al servizio di leva e di continuare a pagare le tasse anche quando risiederà alle Hawaii, perché questo è quello che deve fare ogni "buon americano". È sempre lui che quando il rock and roll inizia a declinare lo convince a dedicarsi maggiormente al cinema e alla sua intuizione si deve, passata la buriana del beat, il ritorno sensazionale di Elvis sulla scena musicale alla fine degli anni Sessanta. Il "Colonnello" Parker è tuttora considerato l'esempio del perfetto manager dello show-businnes statunitense. In realtà il suo lungo legame con Elvis Presley è la dimostrazione dell'intelligenza di entrambi che fa sì che lo spirito di collaborazione tra l'ex impresario circense e la star del rock and roll rimanga inalterato anche dopo il successo planetario del cantante. Alla morte di Presley sarà sempre il "Colonnello" Parker, per lungo tempo affiancato dal padre di Elvis, a occuparsi dell'immagine e degli interessi commerciali legati al suo mito. Muore a Las Vegas il 21 gennaio 1997.
Il 28 giugno 1950 muore a Tuskegee, in Alabama, il leggendario cantante, armonicista e chitarrista blues Jaybird Coleman. Ha soltanto cinquantaquattro anni, ma ne dimostra molti di più. La vita di strada ha, infatti, lasciato segni pesanti sul suo corpo, in particolare sul volto e sulle mani. Nato nel 1986 a Gainesville, viene registrato all'anagrafe con il nome di Burl C. Coleman e, salvo per il periodo del servizio militare, si può dire che raramente abbia varcato i confini dell'Alabama. Sulle polverose strade dello stato che l'ha visto crescere, infatti inizia a soffiare in una vecchia armonica raccattata chissà dove quando non ha ancora compiuto dodici anni. Lo fa così bene che il numero degli ascoltatori aumenta ogni volta. Con i primi soldi della questua si procura anche una vecchia chitarra che impara a suonare da solo. I suoi due strumenti lo seguono anche nel lungo periodo passato sotto le armi. Quando viene congedato, nel 1918 si trasferisce a Bessemer, una cittadina nei pressi di Birmingham. Le comunità nere della zona ne fanno un idolo locale e gli regalano il nome d'arte di Jaybird. Pur entrando nella formazione della Birmingham Jug Band non rinuncia al piacere di esibirsi da solo ogni volta che sia possibile. La strada è il suo regno, le feste un'occasione di lusso per esibirsi. Non ci sono ricorrenze famigliari o cerimonie varie che non lo vedano protagonista. La sua popolarità non conosce limiti e un giorno riesce a ottenere anche un modesto contratto discografico. Incapace di adattarsi alle regole ferree delle sale di registrazione Jaybird registra quando può e, soprattutto, quando non ha niente di meglio da fare. Nonostante tutto nel 1927 la Gennett pubblica i suoi primi dischi. Tre anni dopo, terminata una seduta per la Columbia con la Birmingham Jug Band decide di chiudere con i dischi. Ritorna a vagabondare e accompagna fino alla morte lungo le strade dell'Alabama la cognata Lizzie Coleman, cantante e intrattenitrice.
Il 27 giugno 1970, sull'onda del successo ottenuto alla manifestazione "Un disco per l'estate", arriva al primo posto della classifica dei singoli più venduti in Italia il brano Lady Barbara. La interpreta Renato Brioschi o, come recita la copertina del disco, Renato dei Profeti, dal nome della band di cui è leader. Resterà al vertice delle classifiche di vendita per oltre quattro mesi, ispirerà un film omonimo e diventerà una delle canzoni simbolo di quello che qualcuno, con un po' d'azzardo, chiamerà "pop sinfonico italiano". Il brano, in realtà, è una furba operazione d'aggancio con le sonorità del pop inglese di quel periodo: una melodia romantica supportata da un sontuoso arrangiamento in stile sinfonico, ricco d'archi. Lady Barbara segna la definitiva rottura tra il cantante e la sua band, che proseguirà in proprio. Il buon Renato, non più "dei Profeti", non riuscirà più a bissare lo straordinario successo del suo debutto come solista, anche se pian piano comincerà a farsi apprezzare come autore e produttore. Nel 1975 una sua canzone, Giochi senza età, passata quasi inosservata in Italia diventerà un grande successo in terra di Francia con il titolo La peure d'aimer nell'interpretazione di Jean Chevalier, il figlio del famoso Maurice. La vicenda si ripete qualche anno dopo quando un altro brano, Io voglio vivere viene snobbato dai discografici italiani ma diventa un successo internazionale nella versione francese di Gerard Lenorman. Come produttore è stato uno dei primi a credere in Eros Ramazzotti e, soprattutto, ha rischiato operazioni di qualità anche se non baciate dal successo, come la produzione di Gunfire, l'unico disco da solista del batterista Andy Surdi. La sua carriera di cantante sembra, invece, contraddire il coraggio dimostrato in altri campi. Costretto a ripetere all'infinito Lady Barbara per un pubblico in vena di ricordi, nel 1986 accetta persino di partecipare alla "reunion" nostalgica dei Profeti.
Il 26 giugno 1976 al Parco Lambro di Milano si apre la VI Festa del Proletariato Giovanile. Sesta e ultima. Organizzata dalla mitica e discussa testata dell’underground milanese Re Nudo con l’adesione di altre riviste come Falce e martello, A Rivista Anarchica, Umanità Nova e Rosso nonché di organizzazioni come il Partito Radicale, Lotta Continua e la IV Internazionale, promette «tre giorni di musica, cultura e dibattito politico». Come spesso accade le sigle non significano niente. Ogni ragazza e ogni ragazzo che confluisce in quell’immenso e spelacchiato spiazzo dove la terra e la polvere finiscono rapidamente per avere il sopravvento sulle sparute zolle d’erba rappresenta, innanzitutto se stessa o se stesso e la propria storia. Non è una festa asettica né viene percepita come tale, ma la vera molla della partecipazione è l’idea di passare cinque giornate in una sorta di paradiso possibile dove l’impegno politico e la gioia di vivere si mescolano con musica e divertimento. Se si fa l’analisi politica delle appartenenze ci sono gli anarchici, i radicali, i trotzkisti, quelli di Lotta Continua e dell’autonomia, tutti rappresentati nel cartello organizzatore, ma non mancano gruppi nutriti e visibili di militanti dell’MLS o di Avanguardia Operaia, giovani iscritti al PCI e al PSI, hippies un po’ fuori tempo e un gran numero di ragazzi e ragazze arrivati fin lì per esserci, vedere che cosa succede, ascoltare la musica e farsi sostanzialmente i fatti propri. I tempi sono frizzanti. Nelle elezioni politiche il PCI, che l’anno prima ha trionfato nelle consultazioni regionali cogliendo i frutti del clima nuovo che si respira nel paese, ha sfiorato il sorpasso della DC. La complicata e variegata galassia delle organizzazioni extraparlamentari di sinistra sta discutendo sulla possibilità di unificare gli sforzi per spostare in avanti teoria, prassi, comportamenti e vanità. Tra gli organizzatori (o in gran parte di essi) si dà quasi per scontato che il “dibattito” sull’argomento sia una passione che finirà per attraversare quasi per grazia divina tutto quel magma che viene definito “proletariato giovanile”. Molte sono le voci che vedono in questa definizione una sorta di nuovo soggetto politico da contrapporre a quello di “classe” e in ogni caso quasi tutti sono convinti che l’appuntamento al Parco Lambro debba essere per forza uno snodo fondamentale di questo dibattito. Chi osa soltanto pensare che il “proletariato giovanile” più che un concetto politico sia solo una semplificazione linguistica per definire una realtà frammentata e complessa di umori, speranze, bisogni, passioni e (perché no?) indifferenze, viene tacciato sostanzialmente di disfattismo. L’elemento centrale dell’evento dovrebbe essere, comunque, la musica. Tanta, buona e militante. Tutti gli artisti in programma, con l’eccezione parziale dell’unica “star” internazionale Don Cherry, sono accasati con etichette che oggi si chiamerebbero “indipendenti” (Ultima Spiaggia, Cramps, Intingo solo per citare le più note). Tra gli artisti annunciati ci sono, oltre al già citato Don Cherry, Sensations’ Fix, Ricky Gianco, Eugenio Finardi, Taberna Mylaensis, Canzoniere del Lazio, Area, Tony Esposito, Agorà, Carrozzone, Paolo Castaldi, Gianfranco Manfredi e un’infinità di improvvisate. Nessuno di loro percepisce il becco di un quattrino salvo un rimborso garantito soltanto a chi non è accasato con nessuna casa discografica. La scelta “indipendente” è rigorosa anche nella scelta di affidare la registrazione dei concerti all’etichetta “indipendente” Laboratorio che poi ne pubblicherà una parte nell’album Parco Lambro. Il cuore pulsante di quello che oggi chiameremmo con un po’ di disinvoltura “evento” è o dovrebbe essere la musica da vivere nella più completa libertà in un’area libera dalle suggestioni del capitale e, almeno in teoria, della società dei consumi. Gran parte dei ragazzi e delle ragazze che arrivano lì hanno in mente questo. Contrariamente a quanto scritto in postume esaltazioni, ma anche in postume denigrazioni, l’ingresso non è libero. C’è una tessera per tutte le giornate che costa 1.000 lire. Dà diritto all’ingresso e basta. Per la verità occorre riconoscere che con il procedere delle ore e delle giornate il numero di chi passa senza pagare nulla da varchi improvvisati tenderà a crescere. Il servizio d’ordine messo in piedi dagli organizzatori infatti, soprattutto negli ultimi giorni, è più occupato a sedare o a collaborare ai vari tumulti per occuparsi di portoghesi e autoriduttori o per presidiare militarmente il recinto che cinge il parco. Con o senza biglietto chi entra si trova in una sorta di grande e colorata fiera di stand politici e commerciali, iniziative, proposte e momenti di discussione, divertimento o anche soltanto di chiacchiera. Gli stand politici offrono materiale vario e anche vettovaglie e bevande a prezzi inizialmente modici e comunque inferiori a quelli dei chioschi affittati ai privati. I luoghi destinati alla musica sono fondamentalmente due: il palco centrale per i concerti degli artisti “da cartellone” e un prato laterale per le improvvisazioni e la musica acustica. Lo stesso prato ha il compito di ospitare anche dibattiti, spettacoli, teatrali, massaggi e momenti di meditazione collettiva. Nelle intenzioni e anche nella dislocazione la VI edizione della Festa del Proletariato Giovanile sembra davvero aver fatto tesoro delle esperienze precedenti visto che solo pochi anni prima sulle rive del Ticino a Zerbo in provincia di Pavia il “proletariato giovanile” si erano ritrovato, per dirla con Finardi, «a fare Woodstock sulla riva del fiume» attrezzati con acqua, sole e poco altro. Insomma, tutto dovrebbe andare per il verso giusto, ma non è così. Fin dalla sua costruzione la VI Festa del Proletariato Giovanile sembra nascere sotto nefasti auspici. Il Comune di Milano, che pure concede l’uso del Parco, nega l’allacciamento dell’acqua e decide di non svolgere il servizio di pulizia concordato. Per l’acqua in qualche modo si supplisce anche perché il cielo spesso fa le bizze, ma per la pulizia ben presto il fai da te lascia spazio al più prevedibile letamaio diffuso. I dispetti del Comune non finiscono qui visto che, inopinatamente, arriva anche a interrompere la fornitura di energia elettrica. Per metterci una pezza gli organizzatori sono costretti a noleggiare generatori e ad aggiustarsi con allacciamenti di fortuna. Tutto questo sotto una pioggia battente e di fronte a decine di migliaia di persone arrivate nel pomeriggio e costrette ad attendere per ore tra acqua e cavi sparsi l’inizio dei concerti. Nonostante tutto la Festa parte e la musica riesce a far dimenticare i piccoli inconvenienti. Le difficoltà, però, se da un lato rendono epiche le giornate e i concerti, dall’altro fanno da catalizzatore delle differenze e del nervosismo latente che attraversa i rapporti tra i vari gruppi che compongono quello che oggi definiremmo “movimento”. Le contraddizioni si mutano in conflitto e la dialettica muore di fronte al vibrare della violenza. A dispetto delle ricostruzioni un po’ forzate va subito detto che la maggioranza dei ragazzi arrivati al Parco Lambro non è direttamente protagonista degli episodi più inutili e odiosi. La parte musicale finisce per diventare un’oasi di ristoro e viaggia per conto suo mentre la maionese della politica impazzisce e invece di amalgamarsi finisce per separare irrimediabilmente i suoi componenti. L’idea di una Festa che si trasforma in una rissa generale è stata inventata dai media dell’epoca e anche dall’eccessiva enfasi data da ogni gruppo alle responsabilità degli “altri”. Il casino coinvolge una frangia corposa ma non la totalità dei partecipanti che osserva con curiosità e qualche volta con stizza quel che accade. Tutto accade nel secondo giorno. La situazione precaria delle strutture e l’afflusso di persone superiore a quello previsto fanno sì che gli stand (anche quelli politici) si adeguino rapidamente alle leggi di mercato applicando consistenti aumenti a panini e bevande (una lattina di birra vine portata a 350 lire da tutti). La stessa regola, con qualche aggiustamento verso l’alto, viene applicata anche dallo stand dei polli arrosto per recuperare le perdite subite con il cattivo funzionamento dell’impianto elettrico. Il disagio provocato da queste decisioni invece di essere risolto con una discussione che coinvolga tutti, compresi i gruppi politici che nei loro stand si sono adeguati all’andazzo generale, provoca la rottura del fragile equilibrio tra le componenti. Ciascuno cerca di egemonizzare la protesta per proprio conto. Il gioco a “chi ce l’ha più lungo” vede un’escalation di azioni “esemplari”. La più pericolosa è il tentativo di esproprio proletario al vicino Supermercato di Via Feltre, che rischia di dare il pretesto alla polizia per entrare nel parco affollato da migliaia di ragazzi e ragazze arrivati solo per la musica. Poi ci sono le “bravate” inutili come l’assalto alla “Capanna dello Zio Tom”, uno storico chiosco del parco, e il saccheggio del furgone che trasporta i polli surgelati destinato a diventare il simbolo negativo delle giornate. Infine ci sono le cazzate, vale a dire, regolamenti di conti interni ai servizi d’ordine e ai militanti delle varie organizzazioni con qualche pestaggio sparso e la distruzione totale dello stand del FUORI, il Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano, per la prima volta presente e non senza discussioni alla Festa. L’unica iniziativa utile appare l’occupazione del vicino Istituto “Molinari” che consente ai partecipanti di non passare la notte sotto la pioggia. L’esplosione violenta delle contraddizioni lascia tracce pesanti sulla Festa e non solo perché evidenzia come il grosso dei partecipanti non si sia lasciato coinvolgere dalle “paturnie” e dagli scazzi, ma perché il rischio è che salti tutto. Viene quindi indetta un’assemblea per decidere il da farsi. Inizia nel prato destinato ai dibattiti ma poi, vista la scarsa partecipazione, si trasferisce sul Palco Centrale per “coinvolgere tutti”. In realtà non riesce ad appassionare il grosso dei ragazzi e delle ragazze e quando poco più di un migliaio votano per alzata di mano la stragrande maggioranza decide che è tempo di smetterla con le cazzate e di andare avanti con la musica. I concerti continuano e restano nel cuore di chi ci è stato come una gemma preziosa da portare nel proprio scrigno dei ricordi. Non così per le valutazioni politiche di fatti che vedono la rottura in mille rivoli del movimento. Alcuni degli artisti presenti mettono in musica questi concetti. E se Gianfranco Manfredi canta lo sgomento di fronte al riemergere delle divisioni («E stiamo tutti insieme, ma ognuno sta per sé/la ricomposizione si sogna ma non c’è/ognuno nel suo sacco o nudo fra il letame/solo come un pulcino bagnato o come un cane») Eugenio Finardi va giù duro e diretto («All’alba del ‘76 il mito era crollato/perso nei calci a un pollo surgelato/tra fiumi di cazzate nella foga del momento/ci si prende a sprangate anche dentro al movimento»). Negli anni successivi in molti rifletteranno su quegli episodi a partire dallo stesso Andrea Valcarenghi, deus ex machina della Festa, fondatore e direttore di “Re Nudo” che in “Non contate su di noi” scrive «Nessuno ipotizzò quello che sarebbe successo, nessuno accennò alla possibilità che la proiezione collettiva dei fantasmi della disperazione avrebbe materializzato mostri da combattere. Nessuno previde che per tanti di noi ancora è necessario darsi un nemico esterno per potere sentirsi uniti contro qualcosa o qualcuno…». C’è il senso della delusione e dello sfacelo in quelle anche l’analisi non si può concludere lì. La VI Festa del Proletariato Giovanile ha messo a nudo le contraddizioni e i limiti delle organizzazioni extraparlamentari e l’incapacità di percepire le diversità come un valore. Ha messo in discussione l’idea della continua frantumazione organizzativa pian piano degenerata in una sorta di guerra per bande poco politica e molto adolescenziale (indipendentemente dall’età dei partecipanti). Scrive Marisa Rusconi nell’introduzione al libro fotografico “La Festa del Parco Lambro”: «…Proprio lì, dallo sfacelo del mito di un certo modo di stare insieme... c’era già l’embrione di un nuovo movimento, o meglio, della trasformazione del movimento e della sua separazione in diversi filoni, spesso contraddittori…». Ecco, forse la chiave è proprio lì. Nel giugno 1976 finiva un’epoca e ne iniziava un’altra. Il crocevia era nel Parco Lambro anche se, come spesso succede, chi c’era non poteva accorgersene.
Il 25 giugno 1949 vengono per la prima volta pubblicate negli Stati Uniti le classifiche dei dischi rhythm and blues più venduti. In un paese in cui all'epoca per gran parte degli uomini e delle donne dalla pelle nera i diritti umani sono ancora da conquistare il segnale è importante al punto che di lì a poco gli sviluppi della musica nera contribuiranno a cambiare i gusti del pubblico bianco, soprattutto giovane, che, sedotto dalla ritmica e dai vocalizzi della musica dei neri, finirà per rifiutare le orchestrazioni pop derivate dai musical. Le classifiche di vendita del rhythm and blues sono in realtà un modo per dare spazio, anche se in un contenitore separato, alla musica nera. Il termine “rhythm and blues” infatti viene utilizzato per indicare la musica leggera nera di quel periodo, cioè la musica esplosiva e ritmata destinata a quella parte della popolazione che era ancora esclusa dai club, dai teatri e dai cinema di prima visione.
Al festival poetico-musicale indetto a Roma in occasione della Festa di S. Giovanni del 1931 viene presentata per la prima volta al pubblico il brano Casa mia (Casetta de’ Trastevere). L’autore è Alfredo Del Pelo, considerato, insieme a Romolo Balzani, uno degli esponenti più rappresentativi della scuola degli stornellatori romani degli anni Venti. Del Pelo, che si esibisce alla famosa Taberna Ulpia, destinata a essere distrutta negli anni Trenta dagli sventramenti decisi dal Duce per realizzare la via dell’Impero, ha composto questa canzone l’anno prima insieme ad Alberto Simeoni e Ferrante Alvaro De Torres e ha voluto provare il suo effetto sul pubblico (oggi si direbbe “testarla”) in occasione dell’importante rassegna. Presentata fuori concorso diventa ben presto uno dei canti della tradizione della capitale.
Il 23 giugno 1950 a Chicago, nell’Illinois, nasce Bom-Bay Carter, uno dei protagonisti della generazione degli anni Settanta dei bluesmen chicagoani. All'anagrafe si chiama William Carter, ma nessuno più se lo ricorda, così come nessuno ricorda quando e come gli sia stato messo il nomignolo di Bom-Bay. A chi glielo chiede risponde che non c'è alcun significato particolare e che è sempre stato chiamato così. Suo padre è di Dan Richmond, uno che con l’armonica e la chitarra ci sa fare. Per la verità ci sa fare anche il piccolo Bom-Bay che invece di andare a scuola preferisce passare le ore in giro per le strade a soffiare nell'armonica. A sette anni la sua carriera scolastica si può già dire compromessa. Sembra che agli insegnanti non piaccia il suono dell'armonica, soprattutto quando stanno parlando, ma lui insiste a suonare anche nelle ore di lezione. Gli sembra che il mondo della scuola funzioni all'incontrario: in strada tutti insistono perché suoni, in aula non vedono l'ora che la pianti. Il mondo degli adulti non gli piace, ma ritiene che, in fondo, non sia un suo problema. Non ha ancora compiuto dieci anni e già si diverte a suonare anche la chitarra. Il padre lo incoraggia a continuare. È un osso duro il ragazzino, non molla mai e dopo l'armonica e la chitarra scopre il basso elettrico. Si esibisce per un po' con gli amici di suo padre, ma poi decide di tentare la fortuna da solo. Ha quindici anni quando inizia a suonare in alcuni locali della West Side e della South Side di Chicago ma non è proprio da solo. I primi contratti riguardano un duo composto, oltre lui, dal chitarrista Charles Griffin, detto anche "Little Nick". È l'inizio di una lunga carriera che si svolgerà prevalentemente a Chicago perché il ragazzo non ama viaggiare e, soprattutto, pensa che il blues sia davvero blues solo a Chicago. Negli anni Sessanta suona spesso con Lee Jackson e Johnny Young, ma non è indifferente al richiamo di nomi come Richard Gary, Howlin’ Wolf, Sunnyland Slim e Homesick James. Inafferrabile e volubile non si fa legare da nessuno, anche se nel 1972 entra per un po' nella formazione di J. B. Hutto e accetta addirittura di andare in tournée. Non abbandona però la sua band personale, che lui stesso ha chiamato Blues Unlimited, con cui registra nel 1974 i primi dischi. Il suo sogno, non tanto segreto, è però quello di aprire un proprio locale a Chicago. Ci riuscirà alla fine del 1975 quando inaugurerà il “Black Spider” con un concerto che durerà fino alla mattina.
Il 22 giugno 1936 a Brownsville, nel Texas nasce il cantante, autore e attore di successo Kris Kristofferson. Negli anni del College la sua prima passione è la letteratura: compone poesie e scrive un paio di romanzi trovando anche qualcuno disposto a pubblicarli e leggerli. Durante il servizio militare resta, però, affascinato dalla possibilità di aggiungere la musica alle parole. L'emozione per la scoperta è tanta che quando, nel 1965, viene congedato, rifiuta la cattedra di Letteratura a West Point e decide di dedicarsi anima e corpo alla musica. A sostenerlo nella scelta c'è il cantante country Johnny Cash, suo grande estimatore, che da tempo insiste perché il ragazzo si applichi con più continuità alla composizione di testi per le canzoni. Si lascia alle spalle West Point e si trasferisce a Nashville. Qui sbarca il lunario scrivendo canzoni per i vari personaggi del country e qualche ballata d'impegno sociale. È proprio in questo periodo che vede la luce Me and Bobby McGee, un brano che conosce un discreto successo nel 1969 nell'interpretazione del cantante Roger Miller e che un paio d'anni dopo diventa uno dei cavalli di battaglia di Janis Joplin. La sua produzione alimenta il repertorio di personaggi di primo piano della scena country come Gordon Lighfoot, Johnny Cash e Willie Nelson. Meno bene vanno le cose quando decide di interpretare da solo i propri brani. Pubblica, infatti, una lunga serie di album senza infamia né lode, tre dei quali in coppia con Rita Coolidge che per qualche anno diventa anche sua moglie. Una nuova svolta nella sua carriera arriva nel 1971 quando Dennis Hopper lo vuole nel suo film "The last movie" (Fuga da Hollywood), uno dei manifesti più confusi della generazione hippie. La piccola e, tutto sommato, marginale partecipazione alla pellicola di Hopper gli apre le porte del cinema. In breve diventa uno dei personaggi più interessanti del cinema degli anni Settanta. Gran parte del merito va al regista Sam Peckinpah che gli affida due parti significative in "Pat Garrett & Billy The Kid" e "Voglio la testa di Garcia" e il ruolo del protagonista in "Convoy, trincea d'asfalto". Tra i suoi successi di quel periodo c'è anche il remake di "È nata una stella" al fianco di Barbra Streisand. Nel 1980 è tra gli attori scelti da Michael Cimino per lo sfortunato film-denuncia "I cancelli del cielo". L'attività cinematografica lo porterà a trascurare quella musicale, anche se non mollerà mai del tutto né la sala di registrazione né le esibizioni dal vivo.
Il 21 giugno 1968 la Parlophone, un'etichetta minore di proprietà della EMI, pubblica Hush, il primo singolo di una nuova band britannica che risponde al nome di Deep Purple. Il brano non sembra niente di speciale, ma in breve tempo arriva ai primi posti delle classifiche statunitensi. L'avvenimento spinge la critica e i media a dedicare un po' più d'attenzione a quello che, fino a qualche tempo prima, era considerato uno dei tanti gruppi che popolavano la scena musicale britannica di quel periodo. Scoprono così che questi cinque "ragazzi della selvaggia campagna dell'Hertfordshire", non sono proprio dei novellini. Il carismatico tastierista John Lord, l'anima del gruppo, ha precedenti importanti nel jazz e una lunga militanza negli Artwoods, mentre il bassista Nicky Simper è reduce dall'esperienza di Johnny Kidd & The Pirates. Il chitarrista risponde al nome di Ritchie Blackmore, un vagabondo che negli anni precedenti è stato anche in Italia con i Trip e ha accompagnato per qualche mese Riki Maiocchi, l'ex cantante dei Camaleonti. Il batterista Ian Paice e il cantante Rod Evans sono stati, infine, recuperati con annunci sulla stampa specializzata. Questo è dunque il gruppo che ha conquistato l'America fin dal primo disco. Un colpo di fortuna? Sono in molti a crederlo e qualcuno si azzarda anche a scriverlo con il rischio di fare l'ennesima figuraccia. I "cinque ragazzi di campagna", infatti, alla faccia degli scettici, dopo un annetto passato a mettere a punto le idee entusiasmeranno il mondo e diventeranno uno dei più grandi gruppi hard rock di tutti i tempi. L'assestamento definitivo della band coinciderà con il primo cambiamento di formazione. Nicky Simper e Rod Evans verranno sostituiti dal bassista e dal cantante degli Episode Six: Roger Glover e Ian Gillan. La scelta sarà determinante per la continuità, ma soprattutto per la personalità della band. Nel 1970 l'album Deep Purple in rock segnerà l'inizio della loro folgorante ascesa vendendo più di un milione di copie mentre le tranquille classifiche dei singoli, caratterizzate in quel periodo da tanti brani gradevoli e rassicuranti, verranno sconvolte dall'arrivo di un ciclone sonoro come Black night, considerato ancora oggi uno dei primi esempi di heavy metal commerciale. Il mondo intero imparerà così ad amare la voce selvaggia di Ian Gillan, la nitida sonorità della chitarra di Ritchie Blackmore, il talento creativo di Lord e le atmosfere sonore delle sue tastiere.
Il 19 giugno 1971 al vertice della classifica britannica arriva il brano Chirpy chirpy cheep cheep interpretato dai Middle Of The Road, una band fino a quel momento sconosciuta dal grande pubblico e formata dalla cantante Sarah Carr, dal bassista Eric Campbell Lewis, dal chitarrista Ian Campbell Lewis e dal batterista Ken “Ballantyne” Andrew. La loro storia inizia alla fine degli anni Sessanta quando si formano a Glasgow con il nome di Part Four. Successivamente decidono di cambiare nome in Los Caracos dopo aver modificato il loro repertorio dedicandosi alla musica latina. Non sono artisti professionisti. Come molti giovani appassionati di quel periodo di giorno lavorano di giorno e alla sera suonano. Nel 1970 cambiano ancora nome. Diventano Middle Of The Road e decidono di provare a dedicarsi alla musica a tempo pieno. Dopo essere arrivati in Italia per un tour, vengono scritturati dal produttore Giacomo Tosti e restano qui da noi. Da quel momento grazie anche alle canzoni scritte dal britannico Lally Stott, iniziano a conquistare le classifiche europee con un sound estremamente commerciale e affine alla "bubble gum music” d’oltreoceano. Tra i loro principali successi ci sono Chirpy chirpy cheep cheep, Tweedle dee tweedle dum, Soley soley, Sacramento e Samson & Delilah. In due anni la band passa dall'anonimato al successo per tornare poi nell'anonimato più assoluto dopo aver venduto cinque milioni di dischi.
Il 9 giugno 1943 nasce a Philadelphia, in Pennsylvania, il pianista e compositore Kenneth "Kenny" Barron fratello del sassofonista Bill Barron. Dotato di uno stile vigoroso è considerato dalla critica uno degli artefici della rivitalizzazione delle tecniche pianiste afro-americane nel jazz degli anni Settanta. Fin da piccolo è immerso nell'ambiente musicale e per qualche periodo studia con la sorella di Ray Bryant. A quattordici anni ottiene la prima vera scrittura della sua carriera ed entra a far parte della band diretta da Mel Melvin, nella quale suona anche suo fratello, che probabilmente ha svolto un ruolo attivo nella vicenda del suo ingaggio. Due anni più tardi è con Philly Joe Jones e nel 1960 si sposta a Detroit per accompagnare la band di Yusef Lateef, disposto a tenerlo con sé per lungo tempo. Non dura. Ben presto, infatti, cede alle lusinghe della "grande mela" e se ne va a New York in cerca di fortuna. Qui per qualche tempo sbarca il lunario con varie scritture recuperategli dal fratello, ma poi trova finalmente una collocazione più stabile nella band di Ted Curson. Gli bastano pochi mesi per farsi notare e attirare l'attenzione dei protagonisti della scena jazz newyorkese di quel periodo. Alla fine del 1961 fa parte del sestetto di James Moody che lascia per entrare nel gruppo di Roy Haynes. Il suo vagabondare sembra finalmente giunto al termine nel 1962 quando prende il posto di Lalo Schifrin nel quintetto capeggiato da Dizzy Gillespie. Ci resterà quattro anni, poi riprenderà a girovagare alternando esperienze solistiche a collaborazioni importanti suonato con jazzisti del calibro di Freddie Hubbard, Jimmy Owens, Stanley Turrentine, il suo amico Yusef Lateef, Milt Jackson, Jimmy Heath, Stan Getz, Ron Carter e Buddy Rich, solo per citarne alcuni. A partire dal 1973 inizierà a insegnare teoria musicale, armonia e pianoforte presso la Rutgers University dove incontrerà un nuovo compagno d'avventure nel chitarrista Ted Dumbar.
L'8 giugno 1978, dopo qualche rinvio e non poche preoccupazioni, la Phonogram immette sul mercato il primo album di una nuova band: i Dire Straits. Il titolo del disco è lo stesso nome del gruppo. Inizia così la scalata al successo di una delle band più importanti del passaggio tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, composta dai chitarristi Mark e David Knopfler, dal bassista John Illsley e dal batterista Pick Whiters. L'album è stato realizzato negli Island Studios di Basing Street a Londra sotto le attente cure di Muff Winwood, fratello del famoso chitarrista Steve Winwood, e di Rhett Davies, un tecnico del suono con la fama di poter trasformare in oro tutto ciò che tocca. «Cerchiamo di fare presto e bene, perché abbiamo un budget molto limitato…» Queste sono le prime parole che ascoltano quando entrano in sala di registrazione. Il limite di spesa da non superare è di dodicimilacinquecento sterline: pochi per fare follie, ma sufficienti a produrre un buon disco. Tempo da perdere non ne hanno neanche i Dire Straits che da mesi hanno messo a punto undici brani tra i quali scegliere gli otto da inserire nell'album. Con un po' di rammarico accettano di scartare uno dei loro cavalli di battaglia negli spettacoli dal vivo: Nadine di Chuck Berry. Alla fine saranno quattro le canzoni sacrificate, perché proprio in una delle pause tra una seduta di registrazione e l'altra nasce Lions una canzone che entusiasma lo staff della produzione. Oltre al brano di Berry vengono così scartate Sacred loving, Eastbound train e Real girl. È interessante notare come successivamente tutti e tre gli "scarti" verranno recuperati, primo fra tutti Eastbound train che fa da retro al primo singolo della band Sultans of swing, pubblicato qualche settimana prima dell'album con funzioni di trailer. Nonostante le preoccupazioni e il budget limitato l'album Dire Straits risulta più che gradevole e curato in ogni dettaglio. Non è un disco destinato a vendere milioni di copie, ma fa da trampolino allo straordinario successo che attende il gruppo negli anni successivi. Nei brani si respirano già le atmosfere sonore che saranno la caratteristica più importante dei Dire Straits e anche la critica, inizialmente tiepidina, finirà per rivalutarne l'importanza fino a considerarlo come una delle migliori produzioni del gruppo.
Il 1° giugno 1940 nasce a Ceylon, in quell'isola che oggi si chiama Sri Lanka, la cantante Yolande Bavan e il nome con cui viene registrata all'anagrafe dell'isola è quello di Yolande Mari Wolffe. Suo padre è un pianista professionista che fin dal primo giorno di vita della piccola immagina per lei un grande futuro da concertista. Non ha ancora compiuto tre anni quando inizia a studiare il pianoforte. Più che una bambina prodigio è una sorta di "forzata della tastiera", tanto che, verso i dieci anni, stanca di passare le ore davanti alla lunga serie di tasti bianchi e neri non abbandona gli studi musicali, ma passa al violoncello. La musica strumentale, soprattutto quella classica e sinfonica, e la ripetitività dei concerti l'annoiano. In più vorrebbe coltivare meglio la sua voce perché, dopo anni passati a suonare si accorge che le piacerebbe fare la cantante. All'inizio degli anni Cinquanta è ancora una bambinetta quando scopre il jazz e se ne innamora. Con l'aiuto determinante del direttore d'orchestra australiano Graeme Bell e, soprattutto, della pianista giapponese Toshiko Akiyoshi diventa una piccola celebrità, non solo nel suo paese, ma anche in Australia. Quando, nel 1955, compie quindici anni ha già all'attivo un paio di tournée australiane e può contare su un programma settimanale interamente dedicato a lei dalla radio cingalese. L'anno dopo decide di trasferirsi nella vecchia Europa. Anche a Londra la sua voce "stregata", ricca di sonorità estranee alla tradizione jazzistica occidentale, affascina l'ambiente del jazz. Per qualche anno passa da un gruppo all'altro, senza soluzione di continuità. Tra gli artisti che, in momenti diversi, la vogliono al loro fianco, ci sono Joe Harriott, Vic Ash e Humphrey Lyttelton. Nel 1962 quando Annie Ross è costretta per motivi di salute a lasciare il trio vocale Lambert, Hendricks & Ross, famoso in tutto il mondo per le sue vocalizzazioni di temi famosi, Dave Lambert e John Hendricks chiedono proprio alla ventiduenne Yolande Bavan di prendere il suo posto. L'avventura è consacrata da un notevole successo discografico ma quando, nel 1964, il trio si scioglie definitivamente, Yolande ha già nuovi progetti. Come accaduto con il pianoforte e il violoncello, si lascia alle spalle anche i concerti canori. Si dedicherà al teatro attraversando l'oceano per entrare a far parte della New York Shakespeare Company.