30 aprile, 2020

30 aprile 1983 – Muddy Waters, una leggenda del Delta

Il 30 aprile 1983 muore Muddy Waters uno dei leggendari musicisti del delta del Mississippi. McKinley Morganfield, questo è il suo vero nome, nasce il 4 aprile 1915 a Rolling Fork, in Mississippi. Nel 1941 il ricercatore Alan Lomax lo convince a registrare due brani, Country blues e I be's troubled che lo fanno conoscere al di fuori del ristretto ambiente del delta. Trasferitosi poi a Chicago firma un contratto discografico con la Chess e formò la sua prima band con Little Walter all’armonica, Jimmy Rogers alla chitarra, Otis Spann al pianoforte e una serie interminabile di bassisti e batteristi. Per quasi tutti gli anni Cinquanta Muddy rappresenta l'avanguardia del blues e dalla sua creatività nascono brani entrati a far parte della storia della musica come Hoochie coochie man, Got my mojo working, Rollin' stone, You shook me, Mannish boy, Just make love to me, Louisiana blues e tanti altri. Nella sua interpretazione non li canta, qualche volta li urla, ma in genere li borbotta con una dizione smozzicata che rende le parole incomprensibili. Con lui il blues attinge alla civiltà dei bar degli operai. Melodia e armonia sono elementi trascurabili di fronte alla carica emozionale. Waters cambia anche l'immagine del bluesman che da menestrello solitario diventa showman e leader. I Rolling Stones, ispiratisi per il nome alla sua canzone Rollin' stone, lo considerano uno dei loro principali punti di riferimento, insieme a Bo Diddley e Howlin' Wolf. Tra i suoi moltissimi album i più importanti restano Folk singer, Hard again, At Newport, At Woodstock, Live, Sail on, London Sessions, Call me Muddy Waters, Unk in funk, McKinley Morganfield e Can't get no grindin'.

29 aprile, 2020

29 aprile 1865 – Max Fabiani, il goriziano che licenziò Hitler

Il 29 aprile 1865 nasce a Kobdil presso San Daniele del Carso, l'architetto goriziano Max Fabiani, un geniale progettista che dal 1894 al 1896 è allievo di Otto Wagner e suo collaboratore per il progetto della metropolitana di Vienna. Quando lascia lo studio di Wagner resta a Vienna dove nel 1900 progetta il magnifico palazzo della ditta "Portois & Fix" nella Ungargasse, nel 1901 la casa Artaria al Kohlmarkt e nel 1910 il planetario Urania. Negli anni Dieci assume come apprendista nel suo studio l'allora ventenne Adolf Hitler, un giovanotto che lui ricorda "non privo di qualche talento". L'aspirante architetto di Braunau, però, non è molto disciplinato e al lavoro preferisce le discussioni sul pangermanesimo che disturbano l'ufficio. Fabiani che antepone il lavoro alle chiacchiere decide di licenziarlo per scarso rendimento. In un'intervista rilasciata alla fine degli anni Cinquanta dichiarerà: «Non l'avessi mai fatto! Avremmo avuto un mediocre ma pur sempre passabile disegnatore tecnico in più e un programmatore di guerre mondiali e di campi di sterminio in meno!». Muore a Gorizia il 14 agosto 1962 alla veneranda età di novantasette anni.

28 aprile, 2020

28 aprile 1937 - La città del cinema nata dalle fiamme

Il 28 aprile 1937 Benito Mussolini in persona inaugura Cinecittà, il complesso di studi cinematografici più importante d’Europa. Particolarmente attento al rapporto tra propaganda e nuovi mezzi di comunicazione, il regime fascista da tempo pensa di impegnare notevoli risorse per realizzare l’idea di una “città del cinema”, da costruirsi alle porte di Roma. L’occasione per trasformare in realtà il progetto arriva il 26 settembre 1935 quando un misterioso incendio, le cui cause resteranno per sempre oscure, brucia gli studi della casa di produzione Cines. La stessa notte Luigi Freddi, capo della appena istituita Direzione Generale per la Cinematografia propone a Carlo Roncoroni, proprietario della Cines, di ‘prevedere e prevenire i tempi nuovi, creando, dalle rovine ancora fumenti dei vecchi stabilimenti’ nuove strutture di produzione più adatte ‘agli sviluppi futuri’ del cinema italiano. Attorno al progetto si mobilitano anche le energie di molti operatori privati che vedono la possibilità di promuovere un rapido sviluppo qualitativo e quantitativo della produzione italiana, sulla falsariga di quanto già avvenuto negli Stati Uniti. La costruzione è imponente e si articola in dieci teatri di posa, un teatro per miniature, effetti speciali e animazione. A questi vanno poi aggiunti vari edifici per laboratori, montaggio e sonorizzazione, un centro per le registrazioni audio e tre piscine predisposte per le riprese superficiali e subacquee, la più grande delle quali è larga sessantadue metri e lunga centosessantacinque. In totale sono sedicimila metri quadrati di studi e trentaduemila di altri edifici su un’area complessiva di centoquarantamila metri quadri. Lo scoppio della guerra rallenta e poi blocca per un lungo periodo l’attività. Cinecittà sembra destinata a non risorgere più dopo l’8 settembre 1943, quando le truppe tedesche requisiscono gran parte delle attrezzature, mentre gli stabilimenti subiscono numerosi bombardamenti. Da ultimo diventa rifugio per centinaia di senzatetto romani. Il mondo della cinematografia, però, lancia accorati appelli per la sua rinascita fin dai primi giorni della ricostruzione e, inaspettatamente, la città del cinema riapre i battenti nel 1947 come ente autonomo sotto la presidenza di Tito Marconi. Ben presto Cinecittà torna a essere il centro della produzione cinematografica italiana, riguadagnando e allargando dentro e fuori dai confini nazionali la sua fama. Gli studi di via Tuscolana offrono buone attrezzature e personale altamente qualificato a costi assolutamente competitivi per il mercato internazionale. Alla fine degli anni Quaranta e negli anni Cinquanta la congiuntura economica e una serie di provvedimenti particolarmente azzeccati favoriscono lo sviluppo di collaborazioni e coproduzioni internazionali di grande rilievo. In particolare Cinecittà diventa un punto di riferimento obbligato per le produzioni statunitensi. Nasce così il mito della ‘Hollywood sul Tevere’, che trova il suo momento di maggior successo nella realizzazione di grandi kolossal come “Quo Vadis” di Leroy nel 1949, “Ben-Hur” di Wyler nel 1959 e “Cleopatra” di Mankiewicz nel 1963.

27 aprile, 2020

27 aprile 1953 – Harry Belafonte registra "Matilda"

Il 27 aprile 1953 Harry Belafonte si chiude negli studi della casa discografica RCA-Victor per registrare Matilda, uno dei brani più significativi della sua produzione. Fin dalle prime note questa solare e orecchiabile canzone a ritmo di calypso sembra scorrere via liscia e priva di segreti lasciando immaginare una registrazione senza particolari problemi. È soltanto apparenza. Harry Belafonte, che ha già alle spalle una lunga gavetta nei locali del Greenwich Village non si lascia fuorviare dalla tranquillità un po’ superficiale degli strumentisti di turno in quel giorno. Non è un novellino. Nonostante la giovane età da tempo scruta i segreti delle musiche e dei ritmi della tradizione popolare e dal 1951 i concerti che tiene con i fedeli chitarristi Millard Thomas e Craig Work al "Village Vanguard" di New York sono diventati un appuntamento di culto per gli intellettuali e i giovani della città. Per questa ragione sa molto bene che Matilda è una brutta bestia da domare e che la trappola si nasconde proprio nella sua ripetitività. Se non si riesce a dare la giusta carica all’esecuzione la conseguenza inevitabile per chi ascolta non è quella di essere catturato dalla suggestione un po’ ipnotica del ritmo costante, ma è la noia. Harry spiega agli strumentisti che i ritmi delle tradizioni popolari, soprattutto di quella caraibica alla quale attinge, nascono per essere cantati, suonati, vissuti, ballati e non per essere ascoltati dai solchi di un oggetto impersonale come un disco. Se non li si interpreta nel modo giusto perdono in grinta e in significato. Accade così che quella che sembrava destinata a essere una seduta di registrazione tranquilla e senza scosse diventi una lunga giornata di lavoro, preda della quasi maniacale vocazione perfezionista di Belafonte. Il risultato è un brano in cui le variazioni sono infinite, a partire dai passaggi in cui viene ripetuto tre volte il nome “Matilda”. Ogni ripetizione non è mai uguale alla precedente. Tre sono le variazioni fondamentali. Nella prima Belafonte canta tranquillamente in battere, nella seconda scivola sulla prima vocale come se la parola avesse due “a” (Ma-atilda) e sulla successiva fa una pausa, quasi cantasse mentalmente una sillaba prima di pronunciare la parola Matilda. A queste varianti aggiunge o sostituisce altre personalissime correzioni sul tema. Il risultato è sorprendente e il brano segna l’inizio del successo di quel ragazzone figlio di giamaicani nato ad Harlem negli anni della Grande Depressione. La vita fino a quel momento non gli ha regalato nulla. Cresciuto ai margini dell’opulenta società statunitense a otto anni ha seguito i genitori nel ritorno disperato in Giamaica, la terra dei suoi antenati, per sfuggire alla morsa della crisi e della miseria. Ci resta per cinque anni prima di tornare nuovamente negli States. La musica, i colori, ma anche le condizioni di arretratezza della sua gente, gli resteranno dentro per sempre. I ritmi della terra dei suoi avi e, più in generale, dei Caraibi grazie a lui fanno il giro del mondo e brani come Matilda, Jamaica farewell o Banana boat song (Day-o) lo portano al vertice delle classifiche dei dischi più venduti ed entrano nel repertorio delle grandi orchestre. Gli storici della musica pop sostengono che proprio il boom di Harry Belafonte e della sua musica, insieme a quello del folk americano propiziato dal Kingston Trio, abbia posto le basi per la diffusione di massa del folk revival che negli anni Sessanta ha fatto da culla ad artisti come Bob Dylan e Joan Baez. L’uomo non si dimenticherà le sue origini e utilizzerà il suo successo per sostenere la causa dei diritti civili, della giustizia sociale e della lotta al razzismo. Proprio negli anni Cinquanta, all'apice della popolarità dopo aver venduto più di un milione di copie dell'album Calypso, annuncia la sua intenzione di non esibirsi più negli stati e nelle città del "profondo Sud" degli Stati Uniti colpevoli di mantenere in vigore disposizioni, regolamenti, norme punitive o segregazioniste nei confronti della comunità afroamericana. Organizza marce, sit-in, firma documenti, si impegna in prima persona e a chi tenta di convincerlo a moderare un po' i toni racconta la sua vita di giovane di colore nato nel ghetto nero di Harlem da genitori giamaicani. «Le parole, amico mio, lasciano il tempo che trovano. Quando hai vissuto a contatto diretto con le frustrazioni e la miseria della gente che ha il tuo stesso colore di pelle, non puoi pensare che la tua carriera venga prima di tutto». Anche durante i concerti va giù duro. «Tutti i richiami alla democrazia rischiano di restare chiacchiere vuote perché un paese in cui esistono palesi casi di segregazione razziale non è un paese libero e neppure democratico». Il suo impegno artistico è in linea con quello sociale e civile. Vola alto, al di sopra delle nuvole della produzione di tendenza e delle regole consolidate, facendo conoscere al mondo intero i ritmi, i suoni e i colori nati dalla contaminazione tra il folklore caraibico e la tradizione nera dei canti di lavoro degli schiavi.


26 aprile, 2020

26 aprile 2002 – Gianna Nannini nell'aria

Il 26 aprile 2002 arriva nei negozi italiani Aria, il nuovo album di una Gianna Nannini incazzata. La cantautrice toscana non si fa prestare parole difficili per spiegare il suo stato d’animo «Sono tempi di guerra, questi. La guerra non è mai finita fino a quando non si consoliderà un’opposizione vera, quella dell’amore. Tutti noi dobbiamo coltivare con amore l’opposizione all’idea stessa della guerra». Non fatevi incantare, però, dalla dolcezza. È una Nannini grintosa, decisa e combattiva quella che emerge dalle tracce di Aria. Sono lontani anni luce le interiorità e i suoni morbidi del precedente Cuore. La linea è diversa, come si può intuire ascoltando Uomini a metà, il singolo-trailer pubblicato a fine marzo, in cui si parla «bombe contro il cielo per incoronare religiosi inferni romantici». C’è il grido di rabbia contro un umanità dimezzata dall’odio, prigioniera di una sorta di egoismo cosmico, in cui l’assenza dell’amore finisce per essere la vera minaccia al destino del mondo. Le altre canzoni sono sulla stessa corsa. Nella volta celeste della Nannini splendono nuovi astri dalla luce intensa e vivida. Hanno la consistenza solida delle idee che si fanno melodia. I suoni, agli antipodi rispetto all’ultima produzione, sono nuovi, decisamente diversi da qualunque altra performance della cantautrice senese. Il suo rock pucciniano si è fatto adulto. Ha acquistato gli echi e i colori dell’elettronica, e lo ha fatto senza mai apparire artificiale. Sembra musica per gli occhi… «Già, è proprio musica per gli occhi. Grazie al lavoro di Armand Volker e Christian Lohr, due alchimisti dell’elettronica applicata alla musica, sono riuscita ad aggiungere ai brani un’infinità di colori…». Anche la sua voce, quando serve, viene filtrata dal vocoder, ma non è solo la musica a disegnare la nuova ispirazione. Nella stesura dei testi c’è la mano di Isabella Santacroce, la scrittrice pulp di “Destroy”, “Luminal”, “Fluo” e “Lovers”. Non si capisce chi delle due abbia influenzato l’altra, forse nessuna perché le parole sembrano frutto di un lavoro collettivo, composte direttamente sulla musica, senza un prima e un dopo. Sono piccole perle di un lungo grido di rivolta, ora rabbioso («non voglio perdermi, neanche crederti, nemmeno arrendermi tra le braccia di notti sterili»), ora malinconico («non è facile restare senza più fate da rapire»), ma mai rassegnato all’illusione («non morirò, per te rinascerò, fra le tue mani, invulnerabile, e vincerò per te l’eternità»). È un susseguirsi d’emozioni che trova il suo culmine in Un dio che cade, un brano nel quale di fronte a un dio vittima della violenza dell’umanità prende corpo una preghiera nuova a una divinità meno fragile perché femmina («madre nostra, regina dell’amore, guerriera della luce»). Nell’album non c’è la tentazione di chiamarsi fuori da ciò che accade, ma la voglia di guardare. È lei a confessare che l’idea di Aria è quella di «distaccarsi dalla terra per poter vederla un po’ dall’alto, scoprire che il mondo è diviso in due parti e stare da quella che si oppone». Oppone a cosa? «Alla guerra, alle ingiustizie, alla voglia di dominio e che cancella la solidarietà e l’amore». Non sono soltanto parole, le sue. Gianna Nannini non è una che confonde la realtà con le speranze e in lei l’attenzione per il movimento dei movimenti non nasce oggi. «Sei anni fa a Toronto, quando ancora il movimento No Global era agli inizi, io c’ero». Pochi mesi prima dell’uscita dell’album ha partecipato, in incognito, anche alla Marcia della Pace Perugia-Assisi. E oggi? «Sto sempre dalla stessa parte. Con determinazione, ma ben attenta a non cadere nella trappola» Quale trappola? «Quella della violenza, che rifiuto perché appartiene a una concezione del mondo che non è la mia. Quando accetti il terreno della violenza hai perso, perché hai portato dentro di te l’elemento su cui si basa il potere di chi stai contrastando, ti sei fatto catturare dalla sua logica. Sei stato sconfitto». Eppure in Aria, il brano che dà il titolo all’album sembra quasi che tu voglia fuggire dalla realtà per rifugiarti nelle favole. «No, non è una fuga, ma il recupero del valore della fantasia. Oggi il mondo ha bisogno come l’aria, appunto, di fantasia. Mi sono ispirata alla mia nipotina,. Guarda lei ho capito che crescendo perdi la fantasia che hai nei primi anni di vita. Non ti accorgi che i grandi non riescono più a parlare con i bambini? Io credo che tutti dobbiamo recuperare la nostra fantasia perduta perché è un valore…». Stanca di guerra Gianna Nannini riscopre l’amore come una forza di pace, viva e vitale. Ne fa una componente della sua battaglia contro l’omologazione che appiattisce e in Volo canta l’elogio delle diversità («ho scelto d’esibire le mie diversità come Pippi Calzelunghe»). Come Pippi Calzelunghe? «Già, proprio come lei, una bambina che non ama farsi rinchiudere in canoni decisi da altri».

25 aprile, 2020

25 aprile 1944 – O Badoglio, Pietro Badoglio...

Il brano La badogliede, costruito sulla musica di un canto popolare toscano e su un ritornello che appartiene alla tradizione piemontese, è un esempio prezioso di satira. La leggenda vuole che sia stato composto il 25 aprile 1944, un anno esatto prima del giorno della liberazione, ma probabilmente è nato allo stesso modo in cui nascono tutte le canzoni popolare, cioè, come si direbbe oggi, "in progress". Porta due firme illustri, quelle di Livio Bianco e Nuto Revelli, ma anche questa, a detta degli stessi autori, è una semplificazione. Materialmente i due sono stati i trascrittori. Hanno, cioè, aggiustato una sorta di elaborazione collettiva di un gruppo di partigiani che operavano alle Grange di Narbona che utilizzava la melodia di un canto popolare toscano. La critica politica nei confronti di Pietro Badoglio, protagonista della disonorevole fuga a Brindisi dopo aver firmato l'armistizio con gli alleati e la dichiarazione di guerra alla Germania, si fa caustica attraverso la narrazione delle sue vicende. Ne emerge un personaggio pavido, opportunista e del tutto indifferente al destino della popolazione. È singolare come il brano sia attraversato dallo stesso concetto che Nuto Revelli elaborerà in modo compiuto nei suoi libri, in particolare ne "La guerra dei poveri": la Resistenza come guerra di popolo contro il nazifascismo ma anche come «guerra alla guerra» nata dalla necessità di non lasciare il proprio destino nelle mani di classi dirigenti ciniche e pronte a giocare qualunque carta sulla pelle delle popolazioni. L'uso della satira finisce per rendere ancora più aggressiva una canzone che ha la sua chiave nelle ultime tre strofe e non si limita alla critica sarcastica, ma indica una precisa volontà di cambiamento («Noi crepiamo sui monti d’Italia/mentre voi ve ne state tranquilli,/ma non crederci tanto imbecilli/da lasciarci di nuovo fregar») che coinvolge l'intera classe dirigente e l'essenza stessa della monarchia («No, per quante moine facciate/state certi, più non vi vogliamo,/dillo pure a quel gran ciarlatano/che sul trono vorrebbe restar» fino al finale liberatorio (Se Benito ci ha rotto le tasche/tu, Badoglio, ci hai rotto i coglioni/pei fascisti e pei vecchi cialtroni/in Italia più posto non c’è»). Il ritornello in piemontese, poi, finisce per essere una sorta di scioglilingua, quasi un nonsense in cui l'incalzare delle domande (l'hai mai detto? L'hai mai fatto? Si si, no no) alimenta l'impressione di incertezza, di tentennamento e di sostanziale pavidità del personaggio. Nel 1972 gli Stormy Six riprenderanno la melodia delle strofe e il giochino della descrizione satirica delle tappe della "carriera militare" per comporre la loro Birindelleide, dedicata all'ammiraglio Gino Birindelli, candidatosi alle elezioni politiche nelle liste neofasciste

24 aprile, 2020

24 aprile 1971 - Lennie Hayton, il direttore musicale della Metro Goldwin Mayer

Il 24 aprile 1971 muore a Palm Springs, in California, il pianista, arrangiatore, compositore e capo orchestra Lennie Hayton, all’anagrafe Leonard George Hayton. Nato a New York il 13 febbraio 1908 inizia a studiare pianoforte in tenera età. A diciotto anni entra a far parte dei Little Ramblers di Ed Kirkeby nel periodo in cui sassofonista basso Spencer Clark ha sostituito Adrian Rollini alla direzione del gruppo. Nel 1927 è a New York con Cass Hagan. L’anno dopo si unisce all'orchestra di Paul Whiteman con la quale resta fino al 1930 in veste di pianista-arrangiatore suonando al fianco di strumentisti prestigiosi come Bix Beiderbecke, Joe Venuti, Frankie Trumbauer ed Eddie Lang. Successivamente tira i remi in barca e, da indipendente, registra e orchestre per molte importanti orchestre. A partire dal 1935 forma e dirige propri gruppi per varie stazioni radiofoniche e dal 1937 è a capo di una big band. È anche direttore musicale dei popolari programmi radiofonici di Bing Crosby e per oltre dieci anni ha l’incarico di direttore musicale della Metro Goldwin Mayer, per la quale orchestra e dirige le orchestrazioni di vari musical. Sposato alla cantante Lena Horne è un pianista sensibile e un capace band leader.

23 aprile, 2020

23 aprile 1945 – Inizia la Liberazione di Milano

Preceduta da grandi scioperi delle principali fabbriche e dei lavoratori dei trasporti il 23 aprile 1945 inizia la Liberazione di Milano che non è destinata a concludersi in poche ore. Proprio il 23 aprile, infatti, i lavoratori in sciopero della Borletti, delle Rubinetterie e della CGE si scontrano con le milizie fasciste della “Muti” e della “Resega”. Nel pomeriggio del 24 aprile a Niguarda i partigiani della Prima Brigata Garibaldi impegnano in un furioso conflitto a fuoco un gruppo di mezzi corazzati tedeschi che stanno fuggendo a nord, mentre gli operai dell’Alfa Romeo, dell’Innocenti e della Pirelli si attrezzano, armi in pugno, a difendere le fabbriche. Presidi partigiani armati circondano anche le stazioni ferroviarie di Lambrate, Rogoredo, Porta Vittoria e Porta Romana. I tedeschi riescono a penetrare all’Innocenti di Lambrate. Ne nasce una sparatoria cruenta e violentissima. Nello stesso giorno gli operai in armi della Pirelli catturano l’intero presidio tedesco della Bicocca. Le operazioni militari continuano fino al 27 aprile, quando le poche milizie nazi-fasciste rimaste nella città cessano ogni attività bellica aggressiva e si asserragliano nelle caserme decise a resistere fino all’arrivo delle truppe alleate cui vorrebbero consegnarsi. Sulla città, ormai libera, convergono i partigiani delle zone limitrofe. Il 27 aprile arrivano le colonne partigiane dell’Oltrepò e il 28 è la volta di quelle della Valsesia, il cui arrivo precede di qualche ora l’ingresso in Milano delle truppe alleate.

22 aprile, 2020

22 aprile 1921 – Candido, il percussionista che ha affascinato Dizzy

Il 22 aprile 1921 a Regal, L’Avana, in Cuba, nasce Candido Camero, destinato a diventare uno dei più apprezzati percussionisti jazz con il nome d’arte di Candido. La musica lo affascina fin da quando è bambino e i suoi primi strumenti sono il contrabbasso e la chitarra. Conquistato dalle possibilità della ritmica lascia gli strumenti a corda per dedicarsi a bongos e congas. Nel mese d’ottobre 1952 lascia per la prima volta Cuba e se ne va negli Stati Uniti dove lavora per sei settimane a Miami, al Clover Club, in uno spettacolo intitolato “Night in Havana”. L’esibizione gli procura altre scritture. Va a New York. Qui lo nota Dizzy Gillespie, che lo aiuta a entrare al Downbeat Club, dove si esibisce per un anno intero con il gruppo di Billy Taylor. Nel 1954 lavora e incide con Stan Kenton, mentre dal 1956 al 1957 è attivo come free-lance, incidendo e lavorando con Kenny Burrell, Tito Puente, Gene Ammons, Machito, Bennie Green e Art Blakey. Nel 1958 torna a lavorare con Gillespie. Nel 1960 partecipa al Jazz At The Philharmonic con Dizzy Gillespie e Stan Getz. Nel 1962 è a fianco di Tony Bennet, con cui partecipa a un concerto alla Carnegie Hall. In quel periodo prosegue una intensa attività discografica, incidendo a fianco di Stan Getz, Wes Montgomery, Lalo Schifrin, Joe Williams e Sonny Rollins. Durante tutti gli anni Sessanta e Settanta prosegue la propria attività concertistica, lavorando a fianco di artisti come Rollins ed Elvin Jones e nell'orchestra di Lionel Hampton. Negli anni seguenti conferma la sua ecletticità contribuendo allo sviluppo delle musiche da ballo latinoamericane prima negli Stati Uniti e poi nel mondo.


21 aprile, 2020

21 aprile 1956 – Nasce “Il Giorno”, un quotidiano moderno

Il 21 aprile 1956 arriva per la prima volta nelle edicole “Il Giorno”, un quotidiano milanese nato per iniziativa dell’ENI di Enrico Mattei che ottiene un rapido e inaspettato successo per la sua originalità. Il nuovo giornale, pur essendo dipendente dagli interessi dell’industria di Stato, riesce a farsi interprete del grande desiderio di modernità che percorre l’Italia. Aperto alla circolazione dei fatti e delle idee e diretto da Gaetano Baldacci ha un aspetto grafico ispirato a quello del “Daily Express”, uno dei più diffusi quotidiani britannici. A differenza delle testate tradizionali, che vedono nel capofamiglia il loro principale destinatario, “Il Giorno” per la prima volta nella storia della stampa quotidiana cerca di rivolgersi all’intera famiglia, compresi i più piccini, ai quali è dedicato un inserto settimanale a fumetti.

20 aprile, 2020

20 aprile 2002 – Francis Lemarque, poeta, musicista e partigiano combattente

Il 20 aprile 2002 muore Francis Lemarque. Poeta, musicista, amico di Jacques Prévert, Lemarque è uno dei più politicizzati animatori musicali delle notti dell’intellettualità parigina oltre che uno dei simboli musicali della Parigi degli chansonniers. Ha scritto storie di vita, brani di protesta e feroci satire contro la società che lo circonda eppure la sua popolarità nel mondo si regge ancora oggi quasi esclusivamente su À Paris, un suo brano divenuto uno standard internazionale nell’interpretazione di decine di artisti. Lui non se n’è mai lamentato anche se quella canzone più di una volta ha rischiato di non rendere giustizia a un percorso artistico come il suo, stretto tra un romanticismo poetico di stampo antico e la concretezza di un impegno politico che si evolve nella quotidianità. Nel ricchissimo repertorio ha canzoni d’amore, quadri poetici di angoli di Parigi, invettive contro la guerra e composizioni di grande impegno sociale. La sua penna, così dolce quando racconta i sentimenti, sa farsi avvelenata quando scrive brani che si oppongono all’assurdità della guerra e delle sue regole come Quand un soldat o Le general. Considerato un po’ l’erede del leggendario cantastorie Aristide Bruant con le sue canzoni ha saputo dare voce e raccontare la Parigi che vive fuori dal cono di luce delle grandi vetrine, delle insegne dei locali e delle strade troppo illuminate della “ville lumière”. Francis Lemarque nasce il 25 novembre 1917 a Parigi. All’anagrafe è registrato come Nathan Korb, figlio di una delle migliaia di coppie di giovani ebrei arrivati in Francia dopo essere fuggiti dall’incubo dei ricorrenti “pogrom”, i massacri antisemiti che periodicamente infiammano i paesi dell’Europa dell’Est. Rose, sua madre è nata in Lituania mentre il padre Joseph arriva dalla Polonia. Oltre a Nathan la coppia ha altri due figli: Maurice e Rachel. L’infanzia trascorre senza troppi scossoni nel quartiere della Bastille (la Bastiglia), dove il padre ha un apprezzato laboratorio di sartoria e dove la famiglia vive in un appartamento situato al primo piano di un palazzo in Rue de Lappe, proprio sopra il Bal de Trois Colonnes, uno dei più frequentati locali da ballo della zona. Il piccolo Nathan è affascinato dalla musica del “bal musette” che ogni sera gli entra nelle orecchie e lo culla fino a quando il sonno se lo porta via. La vera scuola dei piccoli Korb è la strada nella quale trascorrono gran parte del tempo lasciato libero dall’altra scuola, quella dove si impara a scrivere e a far di conto. Nathan non impara molto di più perchè nel 1928 a soli undici anni è costretto a lasciare libri, matite, banchi e compagni per andare a lavorare in un’officina Finisce presto l’infanzia per i ragazzi e le ragazze della Bastille e la vita vera bussa alla loro porta quando i figli dei quartieri più ricchi non hanno ancora imparato a farsi da soli il nodo alle stringhe delle scarpe. Nel 1933 la tubercolosi si porta via suo padre. Lasciati soli i due giovani maschi della famiglia Korb decidono di provare a cambiare la loro vita. Cresciuti nell’ambiente del bal musette e affascinati dal mondo della musica e dello spettacolo entrano a far parte di Mars, un ensemble di sperimentazione musical teatrale collegato ai Gruppi Ottobre e alla Federation des Théâtres Ouvriers de France (Federazione dei Teatri Operai di Francia). Proprio nell’ambito di quell’esperienza i fratelli Korb danno vita a un duo musicale che, su suggerimento del poeta Louis Aragon, chiamano Les Frères Marc. Nel 1936 sull’onda del nuovo ed eccitante clima creatosi in Francia quando le sinistre arrivano al potere con la breve esperienza del Fronte Popolare, il duo composto da Nathan e da suo fratello si esibisce nei luoghi delle lotte operaie, nelle fabbriche e nelle piazze. In quel periodo la cerchia dei loro estimatori si allarga progressivamente fino a comprendere anche Jacques Prévert divenuto grande amico soprattutto di Nathan. È proprio il poeta a far conoscere ai due fratelli il musicista Joseph Kosma che per alcuni mesi diventa il loro pianista negli spettacoli dal vivo. Lo scoppio della seconda guerra mondiale cambia tutto, soprattutto per una famiglia ebrea che abita nella Parigi occupata dai nazisti. Nel 1940 Nathan riesce a sfuggire alla rete degli occupanti e dei loro collaboratori e si rifugia a Marsiglia, in quel periodo zona libera. Qui incontra Jacques Canetti, uno dei più geniali impresari dell’epoca che gli dà una mano e qualche consiglio. Sembra sia stato proprio lui a suggerirgli il nome d’arte di Francis Lemarque e a trovargli qualche scrittura nelle colonie francesi del Nord Africa dove si esibisce accompagnato dalla chitarra di Django Reinhardt. I tempi non consentono però distrazioni o, peggio, diserzioni. Quando gli arriva la notizia che sua madre è stata deportata con altri milioni di ebrei, capisce che non si può più stare a guardare nell’attesa che tutto passi. Lascia musica ed entra nella Resistenza con il falso nome di Mathieu Horbet. Catturato viene rinchiuso in prigione. Non ci resta per molto. Liberato con un po’ di fortuna e tanta inventiva torna in azione guidando un gruppo di combattenti con il nome di Lieutenant Marc. Dopo la Liberazione di Parigi Francis Lemarque torna nella capitale giusto in tempo per vivere la febbrile ed eccitante esperienza della Comune artistica di St. Germain-des-Prés dove musica, poesia, letteratura, pittura, cinema e teatro cercano e trovano ogni giorno nuove suggestioni. Per sbarcare il lunario raggranella qualche scrittura e si esibisce come cantante in cabaret come la Rose Rouge o l’Echelle de Jacob e come attore in teatri d’avanguardia come il Théâtre de l’Humour o il Théâtre de Poche. Nel 1946 assiste quasi per caso a un concerto di Yves Montand, un talentuoso interprete d’origine italiana che gode della protezione e del sostegno di Edith Piaf. Colpito dalla straordinaria verve comunicativa di quel cantante prova a scrivere alcuni brani disegnandoli sulle sue caratteristiche vocali e interpretative. Nelle sue intenzioni dovrebbero restare poco più di un semplice esercizio quasi scolastico visto che non conosce di persona Montand e, soprattutto, non si sente assolutamente all’altezza del compito. Tutto finirebbe lì se quel diavolaccio di Jacques Prévert non ci mettesse lo zampino. Proprio il poeta, infatti, fa incontrare il compositore con Montand spingendolo, nonostante la timidezza, a fargli ascoltare i suoi brani. Nasce così una collaborazione che, nella seconda metà degli anni Quaranta, sarà benedetta dal successo straordinario di brani come Ma douce vallée, Bal petit bal e, soprattutto, À Paris. Nel 1949 Francis Lemarque, ormai considerato uno dei grandi autori di successo della canzone francese, pubblica anche i primi dischi come interprete. Timido e refrattario alle regole ferree delle sale di registrazione si fa convincere dopo lunghe insistenza dal suo vecchio amico e protettore Jacques Canetti verso il quale ha un debito di riconoscenza. Canetti è convinto che le canzoni di Lemarque, se interpretate dall’autore, possano conquistare un pubblico diverso e più raffinato di quello che segue Yves Montand. Ha ragione lui. Francis Lemarque entusiasma la critica e nel 1951 vince per prima volta il prestigioso Prix Charles-Cross. Il successo non ne cambia l’impostazione artistica sempre tesa a sposare la poesia dei sentimenti con l’impegno politico e sociale. È un impegno il suo che non si limita alla scrittura o all’adesione ideale. Spesso e volentieri partecipa alle iniziative pubbliche del Partito Comunista al quale resta a lungo legato pur senza mai iscriversi. Instancabile e appassionato lavoratore non si lascia incantare dalle lusinghe del successo e non sente il peso del tempo che passa. Nel dicembre del 1996 i principali interpreti della canzone francese di quel periodo lo invitano a salire sul palcoscenico dell’Auditorium des Halles di Parigi per una serata dedicata alle sue composizioni. Il tempo però non gli è amico. Uno dopo l’altro gli uomini e le donne che l’hanno accompagnato nella sua lunga carriera se ne vanno e il 20 aprile 2002 anche lui chiude per sempre gli occhi a Varenne-Saint-Hilare, in quella casa ai bordi della Marna che dagli anni Cinquanta era diventata il suo rifugio.

19 aprile, 2020

19 aprile 1889 - Nina De Charny, scomparsa per amore?

Il 19 aprile 1889 nasce a Napoli Giovanna Cardini, una cantante e fantasista destinata a lasciare un segno nella storia dello spettacolo italiano con il nome d’arte di Nina De Charny. Nel 1906, a diciassette anni debutta nella sua città natale cantando al Teatro Mercadante alcune canzoni scritte per lei da Rodolfo Falvo. Tre anni dopo parte per la sua prima tournée in tutto il territorio italiano suscitando grandi entusiasmi con un repertorio che mescola romanze, brani classici e canzoni napoletane tra cui Core ‘e mamma di Capolongo e Murolo che in breve diventa il suo “cavallo di battaglia”. Nel 1910 è l'unica cantante italiana a esibirsi a Londra in uno spettacolo con artisti inglesi, americani e francesi. Poco tempo dopo parte per gli Stati Uniti dove ottiene un grande successo con canzoni come Marechiare e 'A marina 'e Tripoli. La sua carriera termina bruscamente in una sera di luglio del 1913. Dopo aver cantato al teatro Luciano di Salerno, infatti, la cantante scompare senza lasciare traccia. Qualche anno dopo si parlerà di una fuga d'amore in Brasile, ma di lei nessuno saprà più nulla

18 aprile, 2020

18 aprile 1948 - "Vi ricordate quel diciotto aprile?" La delusione diventa canzone

«Il 18 aprile 1948 è stato principalmente cattolico e sanfedista, con radici che affondavano nelle vecchie posizioni del reazionarismo italiano risalente alle rivolte dei contadini contro le idee rivoluzionane della Francia giacobina». Così Enzo Santarelli definisce la data di una storica sconfitta del movimento operaio italiano, quella delle prime elezioni politiche dopo la fine dell'unità antifascista. Quel 18 aprile, che consegnerà il potere per oltre quarant'anni nelle mani della Democrazia cristiana, è il punto finale di un'aspra battaglia iniziata due anni prima quando Pio XII, in occasione del referendum fra monarchia e repubblica, aveva sottolineato che la vera scelta cui erano chiamati gli italiani era tra il materialismo ateo e la cristianità. Nei primi quindici giorni del 1947 accadono, poi, altri due fatti politici significativi: il viaggio di De Gasperi negli Usa finalizzato a ottenere credito economico e politico e la scissione socialdemocratica operata da Saragat che accusa il partito socialista di essere troppo subalterno ai comunisti. A maggio si chiude anche l'ultima esperienza di governo di unità nazionale, con l'esclusione del PCI, mentre Padre Lombardi "il microfono di Dio" sulla rivista dei gesuiti "Civiltà cattolica" proclama la necessità di una mobilitazione generale dei cattolici contro il comunismo. È l'inizio della lotta frontale del clero contro le sinistre, in qualche modo anticipata dall'andirivieni per le strade d'Italia delle "Madonne pellegrine", una specie di tour simbolico e teatrale che faceva appello alla parte più superstiziosa della religiosità popolare. Non è solo la Chiesa a muoversi. L'apparato statale fa la sua parte. Dalle prefetture e dagli organi dello Stato vengono rimossi gli ex partigiani e le persone più legate alla resistenza antifascista. L'avvio della campagna elettorale alza ancora, se possibile, i toni della crociata. In tutto il paese si diffondono migliaia di Comitati civici che appoggiano la campagna elettorale della DC, mentre gli USA minacciano la sospensione degli aiuti economici all'Italia in caso di vittoria delle sinistre. Il 18 aprile la DC conquista il 48,5% dei voti. Il mese successivo De Gasperi vara il primo governo centrista. Nei giorni della "grande delusione", cioè quelli che seguono la sconfitta e il varo del nuovo governo, a Tornaco, un comune agricolo della provincia di Novara, Luigi Bellotti compone Vi ricordate quel diciotto aprile? un canto basato su una linea melodica tradizionalmente utilizzata dai cantastorie. Adottato dalle mondine in lotta diventa popolarissimo in tutta Italia. Interessante e curiosa per la mescola tra antiche e nuove sonorità è la versione di questo brano realizzata nel 1994 dai Disciplinatha.

16 aprile, 2020

16 aprile 1972 – La prima volta dell’Electric Light Orchestra


Il 16 aprile 1972 l’Electric Light Orchestra suona per la prima volta in concerto al Fox & Greyhound Pub di Croydon. Il pubblico può finalmente vedere dal vivo la band nata l’anno prima da una costola dei Move. La storia dell’Electric Light Orchestra, infatti, inizia nel 1971 quando Roy Wood, leader dei Move, idoli del pop inglese, mette in pratica l'idea di un gruppo che mescoli componenti classiche in una struttura sonora d'atmosfera sinfonico-progressiva filtrando il tutto con il rock. Con lui ci sono il batterista Bev Bevan e il chitarrista Jeff Lynne. Dopo la buona accoglienza riservata dal pubblico a Electric Light Orchestra, il primo album molto sperimentale da cui viene anche estratto il singolo 10538 Ouverture, il 16 aprile si mostrano in pubblico. È l’inizio di una storia lunga e tormentata. Pochi mesi dopo Roy Wood e Jeff Lynne litigano sulle prospettive e Wood se ne va dando vita ai Wizzard. Lynne e Bevan, invece, continuano e trasformano la ELO in una sorta di orchestra rock con elementi classici, aggregando al gruppo il violinista Wilf Gibson, il bassista Michael d'Albuquerque, il tastierista Richard Tandy e i violoncellisti Mike Edwards e Colin Walker. È solo la prima scossa di un gruppo che alternerà momenti di grande successo a profonde liti e successive ricomposizioni nell’organico.

17 aprile 1921 – Sergio Sollima, grande regista di genere

Il 17 Aprile 1921 nasce a Roma Sergio Sollima. Il suo ingresso nel mondo del cinema avviene per gradi. Negli anni della guerra frequenta il Centro Sperimentale di Cinematografia, ingegnandosi poi a raggranellare qualche soldo necessario per vivere come critico cinematografico. Gli sono compagni di corso compagni corso Michelangelo Antonioni e Giuseppe De Santis. In quel periodo scrive anche saggi su John Ford e il cinema americano. Nel dopoguerra scrive per il teatro e lavora icon personaggi come, tra gli altri, Arnoldo Foà, Tino Buazzelli, Rossella Falk e un giovane Nino Manfredi che fa il protagonista di una sua opera teatrale dedicata alla resistenza antifascista e intitolata “L’uomo e il fucile”. Passa poi a lavorare alla sceneggiatura in molti film mitologici all’italiana, i cosiddetti “peplum”. In questi anni conosce Sergio Leone, Duccio Tessari e molti dei futuri protagonisti della stagione dei western all’italiana. Il suo debutto alla regia avviene con un paio di film di spionaggio, girati sull’onda del successo della trasposizione cinematografica delle avventure dell’agente segreto James Bond-007 di Ian Fleming. Non lo fa con il proprio nome ma, come accade per i pionieri del western all’italiana, con lo pseudonimo “americano” di Simon Sterling. I film Passaporto per l’inferno del 1965 e Massacro al sole del 1966, incentrati sulle avventure dell’agente segreto 3S3, nonostante la sigla del protagonista sia difficile da ricordare, ottengono un buon successo di pubblico. Sergio Sollima incontra il western all’italiana grazie al suo amico Sergio Leone. È proprio il regista di Per un pugno di dollari, infatti, a presentarlo al produttore Alberto Grimaldi che accetta di rischiare un po’ di soldi ne La resa dei conti. Il successo del film gli dà la possibilità di realizzare un altro paio di pellicole: Faccia a faccia del 1967 e Corri uomo corri, il seguito de La resa dei conti. Nei suoi western “terzomondisti” affronta con il gusto del regista d’avventura e con il garbo della narrazione popolare temi importanti come quello della rivolta delle classi subalterne e dei paesi poveri. I tre film esauriscono la sua esperienza western. Negli anni Settanta si dedica al poliziesco all’italiana, quello stesso genere che decenni più tardi verrà chiamato “poliziottesco”, realizzando film come Città violenta del 1970 o Revolver del 1973. Nel 1976 realizza la trasposizione televisiva a puntate di Sandokan, il personaggio nato dalla geniale creatività di Emilio Salgari. La serie diventa uno dei maggiori successi della storia della televisione italiana. Muore a Roma il 1° luglio 2015.

15 aprile, 2020

15 aprile 1962 – Nick Kamen, dalla pubblicità alla canzone

Il 15 aprile 1962 a Epping, in Inghilterra, nasce Nick Kamen. Cresciuto in una famiglia numerosa, all'inizio degli anni Ottanta diventa improvvisamente famoso in tutto il mondo grazie a un malizioso spogliarello in uno spot pubblicitario per una nota marca di jeans. Nello stesso periodo uno dei tanti nastrini registrati con alcuni amici musicisti e spediti a varie case discografiche finisce nelle mani di Madonna che, complice l’improvvisa popolarità del ragazzo, decide di produrre il suo primo disco Each time you break my earth cantando anche nei cori. Il singolo diventa un grande successo mondiale e segna l’inizio di un periodo di intensa attività per Nick Kamen che nel breve volgere di quattro anni pubblica tre album (Nick Kamen nel 1987, Us nel 1988 e Move until we fly nel 1990) e un gran numero di singoli estratti. Il declino comincia nel 1992 quando il pubblico accoglie tiepidamente l’album Whatever, whenever con i singoli You're not the only one e We can't lose what we've found. Vista l’aria, Nick Kamen abbandona il mondo della musica e si ritira a vita privata dedicandosi soprattutto alla pittura. Si tornerà a parlare di lui nel 2003 quando la boyband svedese A*teens pubblicherà una cover di I promised myself.


14 aprile, 2020

14 aprile 1933 – Buddy Knox, un profeta del Tex Mex

Il 14 aprile 1933 nasce ad Happy, in Texas, Buddy Knox, uno dei profeti dell'hillbilly considerato insieme a Buddy Holly tra i principali esponenti di quel genere meticcio che i critici musicali definiranno poi Tex-Mex. La musica lo appassiona fin da bambino ma sembra destinata a restare un hobby visto che dopo la laurea sembra destinato a occuparsi di affari in una compagnia petrolifera. Ben presto, però, le giornate passate dietro alla scrivania finiscono per annoiarlo e Buddy decide invece di uscire dalla tranquilla routine iniziando a suonare nei rodei e nelle feste dei paesi del Sud degli Stati Uniti. Con Jimmy Bowen e Don Lanier forma i Rhythm Orchids, con i quali registra nel 1957, nello studio di Norman Petty, a Clovis, il suo primo, grande, successo Party doll. Le sue morbide musiche d'atmosfera, prive della grinta selvaggia del rockabilly "duro" ne fanno un personaggio gradito anche alla parte più tradizionalista del pubblico americano. Quasi in contemporanea con Party doll viene pubblicato anche I'm sticking with you che vende più di un milione di copie. È l’inizio di una lunga serie di successi come Rock your little baby to sleep e Hula love mentre il suo personaggio viene sfruttato anche dal cinema in film come "Jamboree". Negli anni Sessanta, di fronte all’affermarsi di nuovi personaggi e nuovi stili la sua popolarità inizia a declinare nonostante il buon successo di brani come Lovey dovey e Somebody touched me. Ormai lontano dal suo miglior periodo continuerà a esibirsi nei circuiti country.

13 aprile, 2020

13 aprile 1922 - Roy Dunn, voce, chitarra, carcere e blues

Il 13 aprile 1922 nasce a Eatonton, in Georgia, il cantante, chitarrista e armonicista blues Roy Dunn. Registrato all’anagrafe con il nome di Roy Sidney Dunn. Artista eclettico, buon chitarrista ma soprattutto eccellente autore di testi, Roy Dunn viene da una famiglia di musicisti. A nove anni comincia a suonare la chitarra sotto la guida di Jim Smith, un musicista della sua zona. Trasferitosi a Covington, continua a suonare grazie all’appoggio e alla spinta di Curley Weaver e Jonas Brown. In quel periodo comincia a esibirsi con i Dunn Brothers, un gruppo di gospel formato da elementi della sua famiglia. Alla fine degli anni Trenta sceglie la strada e inizia a girovagare per gli stati del sud al seguito di gruppi che eseguono musica religiosa come i Victory Bond Spiritual Singers, i Rainbow Gospel Four, i Golden Gospel Singers e molti altri. Nel corso degli anni Quaranta si esibisce prevalentemente ad Atlanta con Blind Willie McTell, Curley Weaver, Buddy Moss e altri. Nel 1951 si stabilisce a Porterdale, in Georgia, dove continua a cantare e suonare fino a quando nel 1956 viene condannato e incarcerato per omicidio colposo. Liberato nel 1960 fatica a trovare spazio per la sua musica. Nel 1971, riscoperto da Pete Lowry e Bruce Bastin, registra per la Trix e conosce una nuova stagione di intensa creatività.

12 aprile, 2020

12 aprile 1988 – Bernardo Bertolucci, un imperatore da Oscar

Il 12 aprile 1988 nella hollywoodiana “Notte degli Oscar” un regista italiano fa la parte del leone. È Bernardo Bertolucci il cui film “L’ultimo imperatore” conquista ben nove statuette: miglior film, miglior regista, miglior sceneggiatura adattata a Mark Peploe ed Enzo Ungari, miglior fotografia a Vittorio Storaro, miglior montaggio a Gabriella Cristiani, migliore colonna sonora a Ryuichi Sakamoto, David Byrne e Cong Su, migliori scenografie a Ferdinando Scarfiotti, Osvaldo Desideri e Bruno Cesari, migliori costumi a James Acheson, miglior sonoro a Bill Rowe e Ivan Sharrock. Per il regista-poeta (nel 1962 ha vinto il Premio Viareggio con la raccolta di poesie “In cerca di mistero”) il riconoscimento rappresenta la definitiva consacrazione sulla scena internazionale, dopo una serie di capolavori come il discusso “Ultimo tango a Parigi” o il grande affresco storico-politico di “Novecento”. “L’ultimo imperatore” verrà premiato anche in Francia con il César per il miglior film straniero e a New York con il Golden Globe per il miglior film dell'anno.

11 aprile, 2020

11 aprile 1977 – Se ne va Jacques Prévert

L’11 aprile 1977 muore Jacques Prévert, poeta, sceneggiatore, scrittore, ma soprattutto punto di riferimento del mondo culturale francese per decenni. «Allora, il loro dio, il loro oracolo, il loro maître à penser, era Jacques Prévert, di cui veneravano le pellicole e le poesie, di cui provavano a copiare il linguaggio e le atmosfere spirituali. Anche noi gustavamo le poesie e le canzoni di Prévert. Il suo anarchismo sognante e un po' stralunato ci catturava completamente» Così Simone de Beauvoir nel suo romanzo “L’età forte” parla di quel miscuglio di artisti, vagabondi, perdigiorno, poeti e cantanti che si incontra, si innamora, si lascia e vive nei caffè di Saint-Germain des Prés. Non è un omaggio, ma una testimonianza della capacità di Prévert di liberarsi dalla rigidità delle divisioni dell’arte per essere insieme poeta, paroliere, sceneggiatore, dialoghista e, soprattutto, curioso esploratore di tutte le forme possibili di comunicazione poetica. Vive l’esperienza artistica con la stessa intensità di un amore appena nato e non si fa mai irreggimentare da una moda, da una linea editoriale o anche soltanto dalla necessità di dare continuità a un impianto artistico salutato dal successo. La sua avventura artistica è una lunga corsa su una strada non asfaltata, con i piedi che mordono il terreno, evitano i sassi, si bagnano nelle pozzanghere e s’impolverano nei tratti asciutti. E quando la strada gli appare troppo diritta tende a scartare, come fanno i cavalli di razza o i lupi inseguiti dai cacciatori. La sua creatività non ha padroni e diffida delle gabbie, soprattutto di quelle ideologiche e se ha l’impressione di essere intruppato fugge veloce come il vento. «Reclutato a forza nella fabbrica delle idee/ho resistito /mobilitato allo stesso modo nell'esercito delle idee/ho disertato». In questi pochi versi, rubati a Choses et autres, la sua ultima raccolta pubblicata nel 1972, c’è il senso di una vita assaporata fino all’ultimo sorso evitando l’omologazione e il conformismo, ma spargendo a piene mani perle preziose che luccicano vivide e inattaccabili dalla patina del tempo. Tra esse ci sono anche le canzoni, oltre mille, destinate a entrare nel repertorio di interpreti come Juliette Gréco, i Frère Jacques, Serge Reggiani, Mouloudji, Catherine Sauvage, Yves Montand ed Edith Piaf, per citare soltanto i primi che la memoria riporta a galla. Brani come Les feuilles mortes e Barbara hanno fatto poi il giro del mondo nelle esecuzioni di artisti come Frank Sinatra, Bing Crosby o Miles Davis. «Egli viene dalla vita e non dalla letteratura». La definizione di Jacques Prévert data dallo scrittore Georges Ribemont-Dessaignes cerca di chiarire perfettamente il senso della creatività artistica di un uomo che ha sempre detto di voler essere poeta senza diventare letterato. La vita è un avventura misteriosa e la sua inizia il 4 febbraio 1900 a Neuilly-sur-Seine, cittadina del dipartimento della Senna dove nasce da in un ambiente piccolo borghese e un po’ bigotto. Sua madre è originaria dell'Alvernia mentre suo padre è bretone e proprio in Bretagna il piccolo Jacques trascorre diversi anni della sua infanzia. Sono anni apparentemente spensierati anche se un po’ soffocanti viste le rigide regole imposte dalla famiglia molto attenta alle convenzioni. È comunque in questo periodo che Prévert respira a pieni polmoni l’aria della cultura e delle tradizioni popolari bretoni destinate a influenzare molto la sua opera negli anni della maturità. Curioso frequentatore di quegli spazi di confine che stanno tra letteratura e spettacolo, dopo aver terminato gli studi per guadagnarsi da vivere si adatta a vari lavori. Nel 1922 dopo il servizio militare si stabilisce a Parigi in una casa al 54 di Rue del Château a Montparnasse destinata a diventare un po’ il punto di ritrovo di un pezzo importante del movimento surrealista. Tra i più assidui ci sono Michel Leiris, Robert Desnos, Antoine-Marie-Joseph Artaud, Louis Argon, Georges Malkine, Raymond Queneau e quell’André Breton che si diletta a giocare a fare il leader del movimento. Nella seconda metà degli anni Venti gli amici cominciano a far circolare i suoi primi testi poetici, anche se per la prima pubblicazione occorre attendere il 1930 quando Prévert pubblica sulla rivista "Bifur" la sua composizione Souvenirs de famille on l'ange gardechiourme (Ricordi di famiglia ovvero l'angelo aguzzino), considerata un po’ il suo battesimo artistico. Gli anni Trenta sono pervasi da grande passione, con curiosità sempre nuove e sperimentazioni anche azzardate in quelli che sono destinati a diventare i campi privilegiati del suo interesse artistico: poesia, canzone, teatro e cinema. Tra il 1932 e il 1936 si dedica intensamente al teatro lavorando a tempo pieno con il Gruppo Ottobre, una compagnia appartenente alla Federazione Teatro Operaio, un’organizzazione che ha lo scopo di promuovere opere teatrali di impegno sociale. Proprio per il Gruppo Ottobre Prévert scrive Marche ou crève (Marcia o crepa), un brano che negli anni successivi diventerà quasi un inno dell’antifascismo militante. Nonostante gli impegni teatrali non trascura né la poesia, né il cinema né la canzone. Proprio in questi anni, infatti, vedono la luce soggetti e sceneggiature di film come “Lo strano dramma del dr. Molineaux” e “Il porto delle nebbie” diretti dal suo carissimo amico ed estimatore Marcel Carné. Sono l’inizio di un’attività di soggettista e sceneggiatore destinata a regalare al mondo lungometraggi come “Les disparus de Saint-Agil” di Christian-Jacques e Pierre Laroche, o “Alba tragica”, “Le porte della notte” e “Mentre Parigi dorme” di Marcel Carné. Sempre con Carné nella Francia occupata dai nazisti girano “L’amore e il diavolo” e, soprattutto “Amanti perduti”, ancora oggi considerato uno dei capolavori del cinema mondiale. Sempre in quegli anni vedono la luce anche le canzoni nate da poesie musicate da Joseph Kosma che caratterizzeranno l’epoca degli chansonniers. Nei primi mesi del 1946 Jacques Prévert pubblica “Paroles”, uscita in Italia con il titolo “Parole”, la sua prima raccolta compiuta di poesie ed è come se un turbine di vento si abbattesse sulla letteratura e sulla cultura francese. I giovani che dopo quattro anni di occupazione feroce e di clandestinità trovano in quelle composizioni una risposta alle loro aspirazioni, alla sete di libertà e al desiderio rilasciare un segno nella vita. Niente resta più come prima, neppure Jacques Prévert che capisce di essere diventato un punto di riferimento per un pezzo della cultura del suo paese e ci gioca un po’ anche se non mancano detrattori come Albert Camus che lo definiscono un “guignol del marciapiede che si prende per Goya”. Il pubblico, però, è tutto con lui. Accade così che quel quarantacinquenne autore cinematografico le cui poesie erano apprezzate e diffuse quasi esclusivamente tra i frequentatori di quella piccola porzione di Parigi compresa il Café de Flor, il Lipp, il Deux Magots e le librerie più intellettuali del Quartiere, diventa una sorta di “vate” di Saint-Germain-des-Prés, una stella ammirata e riverita. Jacques Prévert ha il pregio di non prendersi mai, in nessun momento così tanto sul serio da credere davvero a queste storie. Gioca con il suo personaggio, qualche volta se ne serve, ma non ne resta prigioniero. Fino all’ultimo continua a frequentare quei territori diversi che ha ormai imparato a conoscere e nei quali si sente a casa sua: il cinema, il teatro, la poesia e la canzone. Non si innamorerà mai della televisione e alla fine degli anni Sessanta, quando si è ormai trasferito nella sua dimora di Omonville-la-Petite, nel dipartimento della Manche capisce di avere allevato un nemico mortale: un cancro al polmone. Accetta la sfida e cerca di resistere nel suo eremo isolato in cui di tanto in tanto lascia entrare alcuni degli amici più cari come Serge Reggiani, Yves Montand, Juliette Greco, Raymond Queneau e pochi altri. Lunga e dolorosa la battaglia di Jacques Prévert contro l’osceno aggressore termina l'11 aprile 1977 con la sua morte.


10 aprile, 2020

10 aprile 2003 - Al-Mukawama: Bassora chiama e Roma risponde

È un robusto ponte di solidarietà quello che il 10 aprile 2003, per iniziativa de "Un ponte per…" e del quotidiano “il manifesto”, lega il Villaggio Globale di Roma con Bassora, una città del sud dell'Iraq sottoposta a un'incessante e massiccio bombardamento fin dall'inizio della guerra voluta da Bush e dal suo amico Tony Blair. Alle ore 21 del 10 aprile, infatti, ha inizio una serata destinata a raccogliere fondi per aiutare il dispensario di Bassora per la diagnostica e la cura delle malattie gastrointestinali infantili, messo in piedi negli anni precedenti dall’associazione “Un Ponte per …..”. Il programma ha al centro un concerto degli Al Mukawama, la band nata dall’incontro fra Luca “Zulù” e Papa J dei 99 Posse con Neil “Perch”, dubmaster e anima ritmica dei britannici Zion Train che, nelle settimane immediatamente precedenti l'inizio dell'offensiva angloastatunitense, era in Iraq. Nel corso della serata viene presentata anche una testimonianza su questa iniziativa con il video "Al Mukawama in Iraq" realizzato dall’associazione Libera Informazione di Napoli. La serata prevede anche vari momenti di riflessione e approfondimento sulla realtà del conflitto in corso attraverso le testimonianze dirette per telefono di Giuliana Sgrena, inviata del manifesto a Baghdad, e di Simona Torretta del coordinamento aiuti umanitari di un "Ponte per..". Infine tocca a Fabio Alberti raccontare i vari progetti che "Un ponte per…" ha attivato in Iraq sia nel campo sanitario, della depurazione delle acque e nel campo educativo, in collaborazione con la Mezza Luna Rossa Irachena (IRCS) e varie agenzie dell'ONU. È singolare e, per usare un eufemismo, curioso notare come due delle protagoniste della serata, Giuliana Sgrena e Simona Torretta, saranno poi oggetto di due rapimenti i cui contorni non sono mai stati completamente chiariti...

09 aprile, 2020

9 aprile 1976 – Phil Ochs si uccide

Il 9 aprile 1976 il trentacinquenne folksinger Phil Ochs, in preda a una crisi depressiva, si impicca nell’appartamento di sua sorella. Esponente dell’ala più radicale e militante della canzone di protesta degli anni Sessanta è autore e interprete di brani graffianti come I Ain't Marching Anymore che a partire dal 1965 diventa l'inno più cantato nelle manifestazioni dei giovani statunitensi contro la guerra nel Vietnam che viene messo al bando dalla programmazione radiofonica e televisiva in tutta la nazione. Dello stesso anno sono anche Draft Dodger Drag e There But For Fortune. Quest’ultimo, insieme a Changes del 1966 è considerato il suo più grande successo discografico. Dopo I Ain't Marching Anymore il brano più politico della sua produzione è The Ringing For Revolution. Tra i suoi album sono da ricordare anche Pleasures Of The Harbour del 1967 e lo splendido Tape From California dell’anno dopo, che contiene anche When In Rome, un amaro e desolato brano sulla storia del suo paese.

08 aprile, 2020

8 aprile 1922 - Christian Bellest, dalla banda al jazz

L’8 aprile 1922 nasce a Parigi il trombettista e arrangiatore Christian Bellest. La sua carriera musicale inizia quando da ragazzo soffia nella cornetta di una banda musicale in uno dei sobborghi di Parigi. A quindici anni scopre il jazz e passa definitivamente alla tromba. Due anni dopo, nel 1939, ottiene il suo primo ingaggio da professionista e nel 1940 fa già parte dell'orchestra di Fred Adison da cui se ne va per suonare nella prestigiosa orchestra Jazz de Paris al fianco di Allix Combelle, Hubert Rostaing, Aimé Barelli. Nel corso degli anni suona con Django Reinhardt, Don Byas, Don Redman e tanti altri prestando la sua tromba a diverse grandi formazioni come quella di Jacques Hélian e del già citato Aimé Barelli con il quale vive un rapporto professionale contraddittorio costellato da abbandoni e repentini ritorni. Intenzionato a non lasciarsi catturare soltanto dall’attività come strumentista studia contrappunto e composizione con André Hodeir, di cui diventa uno dei più fedeli collaboratori all'interno del Jazz Groupe de Paris. Alla sua genialità si devono gli arrangiamenti di molti brani di interpreti popolarissimi come Edith Piaf, Charles Aznavour o Paul Anka e un nutrito gruppo di musiche da film. Muore il 6 dicembre 2001.

07 aprile, 2020

7 aprile 1976 – Jimmy Garrison, il bassista di Coltrane

Il 7 aprile 1976 muore a New York il contrabbassista Jimmy Garrison. Nato a Miami, in Florida, il 3 marzo 1934 viene registrato all’anagrafe con il nome di James Emory Garrison. Quando ha nove anni si trasferisce con la famiglia a Philadelphia, in Pennsylvania dove studia con profitto il clarinetto, strumento che lascia nel 1952 per passare al contrabbasso. Il suo primo ingaggio professionale arriva da un gruppo di rhythm and blues, anche se la sua vera passione resta il jazz. Nel tempo libero collabora con vari jazzisti come il pianista Bobby Timmons e il batterista Albert Heath e soprattutto con Louis Judge. Nel 1955 resta senza contratto e per guadagnarsi da vivere lavora come autista di camion pur non abbandonando mai la musica. Nel 1958 torna a dedicarsi al contrabbasso a tempo pieno. Si trasferisce a New York dove collabora sia in concerto che in sala di registrazione con vari esponenti del jazz di quella città come il batterista Philly Joe Jones, i sassofonisti Jackie McLean, J. R. Monterose, Lee Konitz e Warne Marsh e il clarinettista Tony Scott. In quel periodo lavora inoltre con Lennie Tristano, Benny Golson, Curtis Fuller Kenny Dorham e Bill Evans. Quando entra a far parte del gruppo di Ornette Coleman viene ascoltato e notato al Five Spot Café di New York da John Coltrane che lo vuole con sé. Nel mese di novembre 1961 Jimmy Garrison entra così a far parte del quartetto di John Coltrane, sostituendo Reggie Workman. Inizia un sodalizio artistico destinato a durare senza ininterruzioni fino alla morte del sassofonista, nel 1967 quando Garrison è rimasto l’unico superstite dell'originario, leggendario quartetto. Legato a Coltrane da un profondo rapporto d’amicizia suona anche al suo funerale insieme a Elvin Jones e a Joe Farrell. Proprio con Elvin Jones, dopo una breve parentesi di sei mesi con il pianista Hampton Hawes, inizia la fase post-coltraniana della sua carriera. A partire dal mese di marzo del 1969 riprende la sua autonomia suonando con Walter Bishop, McCoy Tyner, Alice Coltrane, Bill Dixon, Nathan Cavis, Ted Curson, Bill Barron, Rolf e Joachim Kühn oltre che con Archie Shepp e Dave Burrell. Quando sta per entrare nel pieno della maturità artistica muore per un cancro polmonare.

06 aprile, 2020

6 aprile 1937 - Gene Bertoncini, l’architetto chitarrista

Il 6 aprile 1937 nasce a New York il chitarrista Gene Bertoncini. Talento precoce, inizia a suonare all'età di nove anni e a sedici ottiene già i primi ingaggi da varie orchestre. Nel primo dopoguerra diventa un personaggio popolarissimo suonando in un programma per ragazzi in coppia con suo fratello fisarmonicista. L’attività musicale lo appassiona ma non al punto da distrarlo dagli studi in architettura. Solo dopo la laurea, all'inizio degli anni Sessanta, riprende a suonare con continuità mettendo in mostra qualità non comuni. Dopo aver militato in varie grandi formazioni, tra cui quella di Buddy Rich, suona in vari spettacoli televisivi e nella Metropolitan Opera Orchestra. In campo jazzistico si trova a suo agio sia negli stili tradizionali (nel 1968 Benny Goodman l'o vuole al suo fianco in un importante concerto alla Philharmonic Hall di New York) che in quelli più aperti alle correnti del pop e del rock, come nel caso delle collaborazioni con Wayne Shorter, Hubert Laws e Ron Carter. Non disdegna, di tanto in tanto, di accompagnare soprattutto negli studi di registrazione cantanti vicini alla popular music americana come Tony Bennett, Nancy Wilson o Earl Coleman.

05 aprile, 2020

5 aprile 1971 - Earl "Jock" Carruthers se ne va

Il 5 aprile 1971 a Kansas City, nel Kansas, muore il saxoclarinettista Earl "Jock" Carruthers. Non ha ancora compiuto sessant’anni. È nato infatti il 27 maggio 1910 a West Point, nel Missouri, e all’anagrafe è registrato con il nome di Earl Malcolm Carruthers. Dopo aver frequentato le scuole di Kansas City, a diciott’anni suona già con il gruppo di Benny Moten. Nel 1929 se ne va a St. Louis dove lavora con Dewey Jackson e Fate Marable. Tre anni dopo si unisce alla band di Jimmie Lunceford con la quale resta a lungo anche dopo la morte di quest'ultimo. Nel dopoguerra è tra gli strumentisti fondamentali della la Joe Thomas & Ed Wilcox Band che più tardi diventa la Ed Wilcox Band. Quando il gruppo si scioglie Carruthers ritorna a Kansas City dove continua a lavorare come musicista per tutti gli anni Sessanta. Tra i suoi migliori assoli registrati con Jimmie Lunceford sono da citare quelli contenuti in I love you, Harlem Shout e Organ Grinder's Swing.


04 aprile, 2020

4 aprile 2001 – Vasco: toh, come vengo bene in fotografia!

Il 4 aprile 2001 viene inaugurata a Milano una mostra fotografica di Sergio Efrem Raimondi intitolata “Intorno a Vasco”. Inevitabile la presenza di Vasco Rossi in persona che, dopo essersi fatto attendere un po', arriva e, fresco come una rosa, invece di rispondere alle domande dei giornalisti si limita a dire «Ma guarda come vengo bene in fotografia!». L’iniziativa è destinata anche a sostenere il lancio di Stupido Hotel, il suo nuovo album che arriva nei negozi cinque giorni dopo, preceduto da un singolo un po' ruffiano come Siamo soli che lasciava intuire una sorta di ritorno a sonorità decisamente rock dopo il precedente e un po' troppo cantautorale Canzoni per me. Il disco è all'altezza delle attese. Registrato in giro per il mondo è un affresco a colori vivaci che esalta la capacità metamorfica del rocker di Zocca, con le luci e le ombre che ciascuno può aspettarsi. Non sempre la voce ce la fa, ma il Blasco è uno che sa cavarsi d'impiccio da solo. Ci sono citazioni colte come Ti prendo e ti porto via, un titolo, un'idea e un testo presi in prestito da un romanzo di Niccolò Ammanniti, ma c'è anche la voglia di tornare a fare del buon solido rock come accade nella rollingstoniana Stendimi. Non correndo più il rischio di diventare un profeta, il Blasco torna al suo popolo con una decina di nuove canzoni in cui si diverte a dare sfogo alla sua irrequietezza, alle sue contraddizioni, a quell'approccio semplice ai problemi complessi che per qualche tempo aveva rischiato di trasformarlo in un simbolo generazionale. Pur consapevole che il rischio non c'è più il cantautore (parola che aborrisce) preferisce mettere le mani avanti. Non è un caso, infatti, che sia stato scelto Siamo soli come trailer in singolo perché l'intero album è una sorta di orgogliosa rivendicazione della propria solitudine creativa ed esistenziale. Il taglio con il quale affronta gli argomenti nelle canzoni è quello che caratterizzava le sue prime uscite discografiche: parole che graffiano i concetti, li comprimono, li riducono quasi a espressioni gergali. Banalizzazione? Macché. Alla base c'è una capacità innata di sintesi che spesso è stata scambiata per superficialità. Alla soglia dei cinquant'anni (ne ha quarantanove) il signor Rossi non finge di essere un ragazzino e non perde tempo a tentare di arruffianarsi i suoi coetanei. Come ha sempre fatto si limita a scrivere le cose che gli vengono in mente. Questa volta fa di più. Si permette di regolare qualche conto in sospeso e di ironizzare su quella sorta di aura di sacralità che circonda l'opera dei cantautori "storici" italiani. Non è la prima volta che se la prende con qualche suo collega, ma questa volta si è superato con Canzone generale, un brano in cui osa l'inosabile, parodiando l'inno del popolo ulivista Canzone popolare di Ivano Fossati: «E dopo la canzone popolare/e dopo la canzone commerciale/e dopo la canzone di quel tale/alzati che si sta alzando la canzone generale…». Non è l'unica traccia in cui l'ironia disincantata lascia il segno. Nel rap Io ti accontento delega i due rapper Black Diamond e Monyka "Mo" Johnigan a vivere un rapporto di coppia un po' troppo conflittuale e lo fa lasciandoli liberi di scambiarsi insulti sanguinosi, compreso un «negro di merda» che farà sobbalzare sulla sedia chi non sa che i due hanno entrambi la pelle nera. Alla realizzazione del disco hanno collaborato uno stuolo di musicisti di lusso a partire dai chitarristi Paolo Gianolio, Dean Parks, Michael Landau e Stef Burns, alla solida batteria losangelina di Vinnie Colaiuta, a una vecchia conoscenza della musica italiana come il bassista Randy Jackson. C'è poi la mano dei "soliti" e fidati Guido Elmi, Tullio Ferro, Celso Valli e Gaetano Curreri degli Stadio. Su tutto il lavoro, però, vola un angelo dai contorni conosciuti: è Massimino Riva, scomparso per una stupida overdose ma presente nelle atmosfere e nelle sonorità.

03 aprile, 2020

3 aprile 1954 - Nicoletta Bauce, la cantautora

Il 3 aprile 1954 nasce a Valdagno, in provincia di Vicenza, Nicoletta Bauce, uno dei personaggi più interessanti della scena musicale degli anni Settanta. Dopo aver studiato canto, pianoforte e solfeggio al conservatorio la ragazza viene notata da Edoardo De Angelis che l’aiuta a muovere i primi passi nel mondo della canzone italiana. Scritturata dalla RCA, nel 1975 partecipa allo spettacolo "Domenica musica", che va in scena al teatro Trianon di Roma e viene ripreso anche dalle telecamere della RAI. La sua interpretazione di Tre bocche nel cuore, un brano di sua composizione attira l’interesse di pubblico e critica. Sull’onda dei consensi nasce anche l’album Musica dal pianeta donna: le cantautori, un lavoro collettivo cui partecipano anche Roberta D'Angelo, Silvia Draghi e Carmelita Gadaleta. Nell’album Nicoletta Bauce propone due canzoni: Tre bocche nel cuore e Quando tornerai, che vengono pubblicate anche in singolo. Successivamente inizi a lavorare al suo primo album, un disco ricco di spunti interessanti che contiene anche una personalissima versione di Sittin on top of the world dei Cream. Nel 1979, lasciata la RCA per la Philips, partecipa al Festival di Sanremo con Grande mago, un brano realizzato in collaborazione con Roberto Colombo e la PFM che viene bocciato dalle giurie sanremesi. Varie partecipazioni televisive precedono l’inizio della lavorazione del suo secondo album destinato a non vedere mai la luce. Poco disposta ad accettare compromessi di fronte all’ennesima intromissione nel suo lavoro se ne va sbattendo la porta. Lascia la musica e si stabilisce a Vicenza per fare l’insegnante.

02 aprile, 2020

2 aprile 1932 - L’auto di Bonnie & Clyde

Il 2 aprile 1932 Edsel Ford, presidente del gruppo Ford, presenta ufficialmente la Ford V8 Roadster, un’auto destinata a entrare nell’immaginario di generazioni di cinefili come la vettura di Clyde Barrow e Bonnie Parker, più conosciuti con il nome di Bonnie & Clyde, la coppia di amanti specializzati nelle rapine a mano armata immortalata alla fine degli anni Sessanta dal film “Gangster Story” di Arthur Penn, con Warren Beatty e Faye Runaway nella parte dei due protagonisti. Pochi sanno che la sua realizzazione ha rischiato di essere messe in forse dalla grande crisi dei primi anni Trenta e che solo la cocciutaggine del vecchio Henry Ford ha evitato che entrasse nel lungo elenco delle vetture progettate e mai realizzate. Fin da quando l’aveva visto disegnato sui fogli di progetto, il vecchio Henry Ford era stato catturato dall’idea che un motore con 8 cilindri a V spingesse una delle auto di sua produzione. Quello che lo catturava e sollecitava la sua fantasia non era tanto la potenza sprigionata, quanto la duttilità che un motore simile sembrava promettere. Per questa ragione dopo il successo della Model T, con ben quindici milioni d’esemplari venduti, e della Model A che aveva toccato la cifra di cinque milioni di vetture prodotte e commercializzate, in casa Ford si fa sempre più urgente la necessità di trovare un modello che sostituisca la Model A. Senza tanto dare nell’occhio riprende quota l’idea fissa del vecchio Henry di produrre un’automobile con il motore a 8 cilindri. I progettisti incaricati in gran segreto di lavorare su questa ipotesi si trovano a poter lavorare con molta libertà. I problemi più impegnativi da superare arrivano dai pistoni e dalle necessità di garantire un raffreddamento adeguato al calore sviluppato. Uno dopo l’altro i problemi vengono superati alla fine viene presa la decisione definitiva di mettere in produzione la Ford V8. Durante l’inverno del 1930-1931 vengono realizzati in gran segreto una ventina di modelli sperimentali con quella motorizzazione. L’intenzione è di sceglierne almeno un paio da destinare alla produzione in catena, ma le nubi della crisi economica con una caduta drastica dei consumi suggeriscono di soprassedere per un po’ al progetto. Senza troppa convinzione si sospende temporaneamente il programma della V8 e si lavora all’aggiornamento della consolidata e robusta Model A che nel 1931 evolve nella Model AB dotata di un motore a quattro cilindri. I risultati di vendita non sono eclatanti, anche se consentono alla Ford di non cessare la produzione. Proprio ragionando su questi fatti e spinta dall’insistenza di Henry Ford la casa automobilistica decide quindi di tornare per la seconda sul progetto della V8. Questa volta i progettisti non si fanno cogliere impreparati. Nei due anni trascorsi dal primo studio hanno verificato pregi e difetti di tutti i motori V8 presenti sul mercato statunitense. L’obiettivo che è stato loro dato è semplice: in linea con l’impostazione Ford occorre produrre un auto con il motore V8 a un prezzo che sia il più basso mai visto finora per vetture di quel segmento. Fin dall’inizio si accorgono che non è semplice conciliare la complessità di un simile propulsore con le esigenze tipiche di una automobile destinata a essere prodotta in grande serie. Alla fine ce la fanno e nel 1932 la vettura è pronta per il mercato. Figlia della fretta ha però una serie di difetti e molti componenti meccanici devono essere modificati già nel corso dei primi mesi di vendita. I difetti principali sono, però nel telaio, che così com’è non regge le sollecitazioni del potente propulsore, e nell’impianto frenante che appare inadeguato a contrastare la forza sviluppata dal motore. L’innesto del motore V8 su una struttura derivata dalla produzione Ford tradizionale rischia di essere un boomerang. Per questa ragione nel 1933 la Ford V8 viene interamente ridisegnata sia nella carrozzeria sia nel telaio. È il successo. Il motore a otto cilindri a V progettato in quegli anni continuerà a vivere anche quando i modelli su cui è stato montato per la prima volta saranno ormai ospitati dai musei. L’ultima vettura a uso privato sulla quale verrà montato sarà la Ford Pilot, prodotta dalla succursale britannica della casa statunitense dal 1947 al 1952

01 aprile, 2020

1° aprile 1895 - Alberta Hunter, l'irrequieta ragazza del blues

Il 1° aprile 1895 a Shelby County, nei pressi di Memphis in Tennessee nasce Alberta Hunter. Irrequieta e vivace a dodici anni scappa di casa a 12 anni per andare a Chicago dove trova rapidamente modi di esibirsi come cantante e attrice di varietà in club come lo Hugh Hoskins, il Panama e il Dreamland. Intorno al 1920 si trasferisce a New York dove, oltre a cantare nei locali notturni, cominci a registrare i primi dischi usando talvolta anche il nome della sorella Josephine Beatty come pseudonimo. In sala viene accompagnata da grandi musicisti come Louis Armstrong e Sidney Bechet, e da grandi band di studio come quelle di Fletcher Henderson, Fats Waller e il gruppo bianco degli Original Memphis Five. In questo periodo scrive anche il brano Brownhearted blues. Parallelamente all’attività in studio e nei concerti si dedica anche al teatro portando in scena negli anni Venti la rivista “How Come”. Nel 1934 si trasferisce a Londra per la produzione di “Show Boat” in cui è protagonista a fianco di Paul Robeson. L’anno dopo se ne va anche a Parigi. Rientrata definitivamente a New York nel 1937 inizia a dedicarsi all’attività radiofonica e dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale prende parte a vari tour destinati a intrattenere le forze armate stanziate sia nell'area del Pacifico che in Europa. Nel dopoguerra ritorna in Gran Bretagna come cantante dell'orchestra di Snub Mosley e compie parecchie tournée in Canada intervallate da lunghi ingaggi a Chicago. Dopo la partecipazione alla rivista “Mrs. Patterson” messa in scena a Broadway decide di lasciare la musica per fare l'infermiera al Goldwater Memorial Hospital. Non è un addio definitivo. Negli anni Sessanta riprende a registrare, prima in modo saltuario e poi sempre più intensamente. Nell'ottobre del 1977 ottiene un lungo ingaggio al club The Cookery del Greenwich Village di New York. Nel novembre 1980 le viene stato assegnato a Memphis il premio Handy destinato alla “più grande cantante di blues vivente”. Non smette più. Continua a cantare fino al 1984 quando muore prima di compiere novant’anni.