31 agosto, 2019

31 agosto 1984 – Un film da Oscar per Prince


Il 31 agosto 1984, preceduto da una massiccia campagna pubblicitaria viene distribuito nelle sale di tutto il mondo il film “Purple rain”. Prodotto e interpretato da Prince, uno dei grandi miti neri del pop degli anni Ottanta è diretto dall'esordiente Albert Magnoli. Vista la popolarità dell'interprete c'è molta attesa per la performance cinematografica e i media sfoderano paragoni con Elvis Presley e con i Beatles. La pellicola è una sorta di lungo videoclip racconta la storia di Kid, il leader della band dei Revolution, un giovane musicista ambizioso ed egocentrico figlio di un jazzista fallito e violento. Il protagonista, interpretato da Prince, e i suoi compagni del gruppo sono in lotta perenne con un'altra band, i Time, il cui leader cerca di soffiargli anche la donna dei suoi sogni, l'amata Apollonia, interpretata da Patti Kotero, in quel periodo compagna del cantante anche nella vita. La storia, che la massiccia campagna promozionale sostiene contenga riferimenti autobiografici del cantante, si dipana tra musica, qualche colpo di scena, l'inevitabile lite nel gruppo dei Revolution e l'altrettanto inevitabile suicidio del padre di Kid. Non manca il lieto fine con il protagonista che dopo un bagno di umiltà riesce a ricostituire la band e a riconquistare l'amore della sua bella. La storia restituisce una inaspettata dignità ai "musicarelli" italiani degli anni Sessanta, con storie da fotoromanzo ispirate alle canzoni del momento. La storia di "Purple rain" è, però, davvero tutta qui, ma la risposta del pubblico è incredibile. Il film balza in testa alle classifiche dei botteghini negli Stati Uniti e in Gran Bretagna fa addirittura meglio. Qui Prince diventa il primo artista dopo i Beatles a piazzare al primo posto della relativa classifica il film, l'album della colonna sonora e il singolo della canzone d'apertura When doves cry. Non è finita qui perché proprio When doves cry vincerà anche l'Oscar per la miglior canzone da film.



30 agosto, 2019

30 agosto 1924 - Nasce Kenny Dorham


Il 30 agosto 1924 nasce a Fairfield in Texas Howard McKinsey, un trombettista destinato a lasciare un segno importante nell'età di mezzo del jazz con il nome d’arte di Kenny Dorham. Tra gli strumentisti più geniali e più richiesti dalle piccole formazioni che hanno vissuto l'avventura del be bop e quella immediatamente successiva del cool e dell'hard bop, si avvicina alla musica suonando e studiando il pianoforte anche se passa molto presto allo studio della tromba. La sua prima esibizione avviene nella band del Wiley College insieme a Russell Jacquet, fratello del più celebre Illinois. Nel 1945 è con Dizzy Gillespie, l’anno dopo con Billy Eckstine e nel 1947 con Lionel Hampton. Nel 1948 suona con Mercer Ellington poi si aggrega a Charlie Parker con il quale resta per due anni. Nei primi anni Cinquanta vagabonda come free lance alternando come sempre i piccoli gruppi alle band più corpose fino al 1955, anno in cui entra a far parte dei Jazz Messengers di Art Blakey e poi del gruppo di Max Roach, in sostituzione di Clifford Brown. A partire dagli anni Sessanta non disdegna puntate in ambienti più aperti al rock esprimendosi con successo su sonorità e linee melodiche vicine al Miles Davis dei tempi migliori. La sua tecnica gli consente di svariare a piacimento lungo l'intera scala melodica giocando con la scansione del fraseggio rapido e spezzato, tipico del boppers.


29 agosto, 2019

29 agosto 1914 – Clely Fiamma, la più giovane star dell’Olympia


Il 29 agosto 1914 nasce a Milano Clelia, la figlia dell'attore e cantante Bruno Cantalamessa destinata a diventare famosa con il nome d’arte di Clely Fiamma. Attrice, soubrette e cantante diventerà uno dei personaggi più eclettici del teatro di rivista italiano. Cresciuta nell’ambiente artistico a sette anni debutta col suo vero nome per la prima volta in palcoscenico a La Spezia al fianco del famoso chansonnier Gino Franzi. Nel 1923, quando ha soltanto nove anni, entra nella storia del teatro parigino dell’Olympia per essere la più giovane vedette mai proposta dal cartellone di quello che in Francia è considerato un vero e proprio tempio dello spettacolo. Nel 1932 debutta come soubrette accanto al celebre Totò, con il quale resta ben sette anni e poi lavora con Riccardo Billi e Tino Scotti. Nel dopoguerra entra a far parte della Compagnia del Teatro Comico Musicale di Radio Roma e non disdegna di cimentarsi anche con la prosa con Gino Cervi e Lilla Brignone. Non mancano esperienze interessanti e con buon successo nella canzone. Tra le sue interpretazioni più famose ci sono Qui fu Napoli, E tu chi si? e Quando ammore vo' filà.


28 agosto, 2019

28 agosto 1985 – Gli INX: non siamo ambasciatori di nessuno


Il 28 agosto 1985 la band australiana degli INXS parte per il primo tour mondiale della sua carriera. Il gruppo formato dal cantante Michael Hutchence, dal bassista Gary Beers, dal chitarrista Kirk Pengilli oltre che dai tre fratelli Farriss (il tastierista e chitarrista Andrew, il chitarrista Tim e il batterista Jon) si è progressivamente allontanato dal punk delle origini, quando ancora si chiamava Vegetables, per approdare a un rock più metallico non privo di qualche svolazzo di marca new wave. Soltanto un anno prima, con la pubblicazione del loro album The swing, erano ancora considerati una buona band "di nicchia". Determinante per la crescita della loro popolarità è stata la partecipazione al Live Aid, il megaconcerto benefico organizzato da Bob Geldof e trasmesso in mondovisione, che li ha portati nelle case dei telespettatori di tutto il globo. Non meno decisiva è stata, però, la scelta di MTV che ha inserito i loro video-clip nella martellante programmazione quotidiana. Il tour mondiale è dunque la consacrazione di un successo planetario per gli INXS. Tutto a posto? No, perché una parte della stampa australiana li accusa di essere troppo attenti alla loro immagine e del tutto indifferenti al ruolo di alfieri della musica del loro paese. All'attacco risponde, proprio nella conferenza stampa che precede il tour, Michael Hutchence a nome di tutti: «Cosa dovremmo fare? Vestirci con i colori della bandiera o cantare in coro che non siamo gli unici a suonare in questo continente? Il pubblico sa intuire da solo che noi siamo soltanto una delle tante band di questa parte del mondo. Possiamo raccontare che qui da noi esiste una scena musicale sottovalutata, anche se molto attiva e variegata, ma poi ci fermiamo lì. Siamo disposti a dare una mano ad altri gruppi, anzi lo stiamo già facendo, ma non chiedeteci di interpretare una parte che non ci si addice. Non siamo ambasciatori di nessuno, facciamo già fatica a rappresentare noi stessi…».



27 agosto, 2019

27 Agosto 1950 - La fatica di vivere uccide Cesare Pavese


Il 27 Agosto 1950 lo scrittore Cesare Pavese, uno degli autori più amati del dopoguerra, muore suicida ingoiando una forte dose di barbiturici in una camera al secondo piano dell'Hotel Roma a Torino, a due passi dalla stazione di Porta Nuova. Non lascia scritti, a parte un'annotazione, sulla prima pagina di una copia dei “Dialoghi con Leucò”, sul comodino al fianco del letto: «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi.». Nato a Santo Stefano Belbo, un borgo delle Langhe in provincia di Cuneo, il 9 settembre 1908, dove il padre, che di mestiere fa il cancelliere del tribunale di Torino, ha un podere, resta orfano a sei anni. Dopo la morte del padre lui vive con la famiglia a Torino, ma le colline del suo paese natale restano per sempre impresse nella mente e nel cuore dello scrittore tanto da fondersi, come accaduto a Giovanni Pascoli, con la nostalgia dell’infanzia e della fanciullezza. Nel capoluogo piemontese compie l’intero ciclo di studi e al liceo ha come insegnante Augusto Monti, allievo di Gobetti e una delle figure più prestigiose della Torino antifascista. La sua figura rappresenta il primo contatto di Pavese con il mondo degli intellettuali torinese, dove spiccano personaggi come Leone Ginzburg, Vittorio Foa, Tullio Pinelli, Massimo Mila e Norberto Bobbio. La sua morte arriva proprio all’apice del successo, nell’anno in cui ha ottenuto il Premio Strega uno dei più ambìti riconoscimenti letterari italiani, per il romanzo “La bella estate”. I giornali popolari guardano con stupore alla scomparsa, per molti versi inspiegabile di questo fragile e introverso autore, tra i più amati del dopoguerra, che diviene rapidamente un simbolo dell’eterna contraddizione tra impegno politico e disagio esistenziale. Al mondo della cultura, invece, il suicidio di Pavese, pur improvviso e doloroso, non appare così inaspettato. L’autore da tempo aveva manifestato il tormento esistenziale di chi sente sempre più come l’esistenza come una fatica. Un anno dopo la sua scomparsa l’editore Einaudi pubblicherà la raccolta di liriche “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”.



26 agosto, 2019

26 agosto 1981 - Quel folk singer è un pericoloso comunista!


Il 26 agosto 1981 un arresto cardiaco pone fine alla vita di Lee Hays nella sua casa di New York. Ammalato da anni di diabete è stato uno dei personaggi più significativi del folk politico statunitense. La sua vicenda artistica è strettamente legata con le battaglie politiche, antifasciste e sindacali degli Stati Uniti alla fine degli anni Trenta. Nel 1941 con Woody Guthrie, Pete Seeger e Millard Campbell fonda gli Almanac Singers, un gruppo di folk urbano che si esibisce nelle fabbriche occupate, nei picchettaggi e nei raduni sindacali. Il gruppo è anche l’inventore degli “Hootenannies”, concerti inframmezzati da storielle divertenti, discussioni politiche e slogan destinati a raccogliere fondi per le battaglie sindacali. Sotto l’incalzare della seconda guerra mondiale la band si scioglie e Hays fa dell’impegno antifascista lo scopo principale della sua attività. Nel primo dopoguerra il clima degli Stati Uniti è cambiato. I partiti della sinistra e i comunisti in particolare vengono guardati con crescente sospetto in una società che prepara la Guerra Fredda. Lee Hays non cambia bandiera e nel 1948 con Pete Seeger, Ronnie Gilbert e Fred Hellerman dà vita agli Weavers. La band ottiene un clamoroso successo commerciale con il brano Goodnight Irene che resta al primo posto della classifica dei dischi più venduti per ben tredici settimane vendendo oltre due milioni di copie. La storia degli Weavers viene, però, drammaticamente interrotta nel 1952 dalla caccia alle streghe scatenata dal senatore McCarthy contro i comunisti e gli oppositori di sinistra. Hays, dopo essere stato sottoposto a umilianti interrogatori dal Comitato contro le Attività Antiamericane e a vessazioni di ogni genere si vede messo al bando dalla vita civile. Inizia così a vivere ai margini del mondo musicale esibendosi in qualche campus universitario o nei circoli sindacali e riuscendo a vivere solo grazie alla silenziosa quanto efficace catena di solidarietà messa in piedi dalla sinistra statunitense. Quando muore i tempi duri sono ormai alle spalle, ma hanno lasciato un segno indelebile sulla sua salute, già minata dal diabete.




25 agosto, 2019

25 agosto 1979 - Stan Kenton l'uomo che trattava l'orchestra come se fosse uno strumento


Il 25 agosto 1979 muore al Midway Hospital di Hollywood all’età di sessantasette anni Stan Kenton o, come risulta dai dati anagrafici, Stanley Newcombe Kenton, uno dei protagonisti di primo piano della storia del jazz orchestrale. Nato a Wichita, nel Kansas, si trasferisce poi con i genitori in un sobborgo di Los Angeles. Non sa ancora scrivere compiutamente il suo nome quando la madre inizia ad avviarlo ai segreti della tastiera di un pianoforte. La musica diventa ben presto il suo mondo. Non si accontenta del piano. Studia armonia e composizione e nel 1928 ha da poco compiuto i sedici anni quando scrive le partiture del suo primo arrangiamento. Una lunga gavetta in gruppi dell'hinterland losangelino precede il primo regolare contratto. Glielo propone Everett Hoagland che, nel 1934, lo scrittura come pianista e arrangiatore. Suona poi per un anno circa con Gus Arnheim e, in seguito, con Vido Musso e Johnny Davis, ma la sua idea fissa, il sogno della sua vita, è la costituzione di una grande orchestra. È talmente sicuro di farcela che dedica gran parte del suo tempo a preparare arrangiamenti destinati alla sua big band. Nel 1940 il sogno inizia ad avverarsi. La sua formazione non va oltre nove musicisti, ma è un primo passo. Ci riesce l'anno dopo quando chiama accanto a sé un nutrito gruppo di musicisti che, pur non potendo contare su grandi nomi, riesce a conquistare larghe schiere di appassionati. È l'inizio di una straordinaria carriera scandita dalle collaborazioni con quasi tutti i grandi jazzisti del dopoguerra e di cui resta una traccia consistente in oltre cinquanta album. Abilissimo negli arrangiamenti e nella direzione Stan Kenton tratta l'orchestra come fosse uno strumento, quasi annullando le individualità dei singoli strumentisti in una sorta di sintesi superiore. Sono pochi, nel jazz, i casi di un leader capace di sostituire qualsiasi musicista senza cambiare il volto della formazione. Proprio questa sua pretesa di sottomettere a un progetto corale le individualità, che qualcuno battezza "jazz sinfonico", gli vale anche le maggiori critiche. Se da un lato gli si riconosce il merito di aver saputo superare la crisi delle big band, dall'altra lo si ritiene marginale nell'evoluzione del movimento jazzistico, basata innanzitutto sulla grande creatività dei singoli. Mentre la critica si accapiglia lui tira dritto per la sua strada fatta di arrangiamenti calibrati, di esecuzioni perfette e di particolarissime e riconoscibili sonorità orchestrali. Non si fermerà più fino alla morte.



24 agosto, 2019

24 agosto 1963 – Ciro Formisano il primo interprete di "Varca napulitana"

Il 24 agosto 1963 in una modesta casa di Fuorigrotta a Napoli muore il cantante e attore Ciro Formisano. Ha settantacinque anni e, se si eccettua un breve commento nella cronaca locale, i giornali non danno neppure la notizia della sua morte. In quel periodo, infatti, sono pochi quelli che ancora si ricordano di lui, ma il suo nome è entrato di diritto nella storia della canzone per essere stato il primo interprete del famoso brano "Varca napulitana", un classico della canzone napoletana scritto da Frustaci e Sala. Nato nel capoluogo campano nel luglio del 1888 studia canto con il tenore Fernando De Lucia. Il suo sogno è quello di diventare una stella della lirica e proprio nell'opera all'inizio degli anni Venti fa il suo debutto in palcoscenico. Il destino, però, ha in serbo altre sorprese per lui. Nel 1924, mentre sta preparando un recital di romanze e canzoni da eseguire al Trianon di Napoli, gli viene proposto un brano mai eseguito. È Varca napulitana, una canzone che fino a quel momento è rimasta nel cassetto degli autori perché nessun cantante se l'è sentita di inserirla in repertorio. Formisano all'inizio è scettico, ma poi, cedendo alle insistenze dei due autori accetta di farla sua nel concerto del Trianon. Il brano diventerà un classico e lui resterà nella storia della canzone italiana per esserne stato il primo interprete. Sull'onda del successo decide di lasciare la lirica per dedicarsi alla canzone. A partire dal 1926 passa a tempo pieno al varietà, dove ottiene uno straordinario successo con un repertorio di classici napoletani. Negli anni Trenta e Quaranta è popolarissimo. La sua fama non si ferma a Napoli e neppure nei confini italiani. Numerosissime tournée in Europa e in Nordamerica costellano la sua intensa attività. Come molti protagonisti di quel periodo, però, all’inizio degli anni Cinquanta quando la fatica degli anni comincia a farsi sentire, lascia il palcoscenico e si ritira a vita privata nella sua Napoli.

23 agosto, 2019

23 agosto 1975 – Un Reynolds di troppo


Il 23 agosto 1975 in vetta alla classifica statunitense dei singoli c'è il brano Fallin' in love e l'indicazione degli interpreti sull'etichetta riporta un marchio abbastanza noto in quel periodo: Hamilton, Joe Frank & Reynolds. Il nome è quello del gruppo formato alla fine degli anni Sessanta da Dan Hamilton, Joe Frank Carollo e Tommy Reynolds, tre ex componenti dei T-Bones, la band di No matter what shape (Your stomach's in). Il trio, dato per scomparso nel 1972 dopo un paio d'album di buon successo sembra così tornare alla ribalta. Sembra, perché gli esperti di cose musicali sono perplessi. Si sa, infatti, che Tommy Reynolds da tempo preferisce le regole di un ordine religioso del Texas allo scintillante mondo dello show-business. La comparsa della sigla appare quindi sospetta. C'è chi sostiene che Fallin' in love sia un brano inedito registrato tre anni prima quando Reynolds faceva ancora parte della band, ma c'è anche chi parla esplicitamente di "gruppo fantasma". La pubblicazione di un album con lo stesso titolo complica ancora di più le cose. Quanti sono gli inediti del gruppo? La verità sta nel mezzo. Il disco è nuovo ed è stato registrato da due terzi del vecchio trio, cioè da Dan Hamilton e Joe Frank Carollo, con l'aggiunta di un nuovo componente: Alan Dennison. Il trucco è stato quello di non cambiare nome al gruppo. Il clamore suscitato dalle polemiche fa arrabbiare il buon Tommy Reynolds che chiede di togliere il suo nome dal marchio. I due ex compagni non gli rispondono neppure e a lui non resta che citarli in tribunale. La causa durerà un anno e nel frattempo il gruppo pubblicherà, ancora come Hamilton, Joe Frank & Reynolds, l'album Winners and losers. Nell'estate del 1976 Tommy Reynolds riuscirà a impedire al gruppo di continuare a usare il suo nome e la band diverrà Hamilton, Joe Frank & Dennison. Paradossalmente con il cambio del nome finirà il successo. I tre pubblicheranno ancora qualche disco, con scarsi risultati.



22 agosto, 2019

22 agosto 1988 - Aretha, la regina del soul


Fresca vincitrice di due Grammy Awards, Aretha Franklin assiste il 22 agosto 1988 alla presentazione di un film-documentario su di lei: “Aretha Franklin: The queen of soul” (Aretha Franklin, la regina del soul). Oltre a raccontarne la vita e le vicende artistiche, raccoglie le testimonianze di colleghi come Ray Charles, Eric Clapton, Whitney Houston e Smokey Robinson. Nata a Memphis il 25 marzo 1942 la Franklin inizia a cantare da giovanissima, insieme al fratello Cecil e alle sorelle Erna e Carolyn, sotto la guida del padre, il reverendo C.L. Franklin, cantante di gospel che la porta con sé nei suoi spettacoli itineranti. In questa mescola di musica, ritmo, fede e teatralità si forma la sua personalità artistica. Conosce grandi artisti come Mahalia Jackson e James Cleveland e pubblica il suo primo disco nel 1956 quando, appena quattordicenne, è la solista del coro della New Bethal Baptist Church di Detroit. Ben presto la sua fama travalica i confini dei concerti religiosi e di lei si accorge John Hammond, lo scopritore di Billie Holiday, che le procura il primo contratto discografico con la Columbia Records. Sotto la sua guida incide vari dischi gospel, ma i limiti di questo genere le stanno stretti. Nella seconda metà degli anni Sessanta passa alla Atlantic dove entra in contatto con i nuovi fermenti della musica nera. È il produttore John Wexler l’artefice del suo cambiamento. La lascia libera di spaziare come vuole, limitandosi a curare gli arrangiamenti e il tessuto orchestrale. Nel 1967 con I never loved a man (the way I love you) Aretha vola alta nelle classifiche e nel cuore del pubblico. La conferma arriva, qualche mese dopo da una drammatica versione di Respect, un brano di Otis Redding. Sono anni di forti tensioni razziali e di lotte per i diritti civili. La sua voce, potente e dolcissima, si leva sulla scena artistica statunitense di quel periodo e ne interpreta, come poche altre, la colonna sonora. Negli anni Settanta la formula ideata da Wexler sembra non funzionare più. Aretha ripiega allora sulle atmosfere eleganti e rilassate del pop orchestrale, imprigionando in parte la sua personalità e affidandosi a produttori abili come Quincy Jones. Sembra l’inizio del declino artistico, il progressivo adattamento a una tranquilla normalità, ma le apparenze ingannano. All’inizio degli anni Ottanta si rivede la vecchia e non sopita grinta in un’indimenticabile apparizione nel film “The blues brothers” che la rilancia come una delle più grandi interpreti del soul moderno.


20 agosto, 2019

20 agosto 1977 – La prima volta dei Fischer-Z di John Watts

Il 20 agosto 1977 dopo vari tentativi debuttano finalmente i Fischer-Z, la band britannica nata da un progetto John Watts, un tipo sveglio che, oltre ad aver studiato sax, clarinetto e batteria ha anche fatto parte del coro della Reale Accademia Militare di Sandhurst. Da tempo lui e il suo inseparabile amico Steve Skolnik lavorano all’idea di questo gruppo. Conosciutisi all’università alcuni anni prima hanno dato vita a un duo chiamato The Onknow Band. Perennemente insoddisfatti e desiderosi di trovare nuove sollecitazioni si trasferiscono prima ad Amsterdam e poi in California, salvo decidere alla fine di ritornare in Gran Bretagna. Nel gennaio 1977 danno vita agli Sheep, una formazione che ancora non riesce a soddisfare appieno le loro aspettative. Con l'aiuto di alcuni annunci pubblicati su "Melody Maker", riescono finalmente a completare l'organico a dar vita ai Fischer-Z. La formazione che il 20 agosto si esibisce per la prima volta in pubblico oltre alla chitarra di John Watts e alle tastiere di Steve Skolnik, schiera il batterista Steve Liddle e il bassista David Graham. L’anno pubblicano i primi due singoli Wax dolls e Remember Russia, anche se il successo tarda fino al 1979 quando il singolo The worker e l'album Word salad conquistano pubblico e critica. Nel 1980, dopo il buon successo di So long e del secondo album Going deal for a living, Skolnik lascia la band e viene sostituito da Bernard Newman. La sua sostituzione riguarda soltanto le esibizioni dal vivo, perchè nella registrazione del terzo album Red skies over paradise del 1981 è lo stesso Watts a occuparsi delle tastiere. La storia della band è però arrivata al capolinea. Nell'estate del 1981, infatti, John Watts, scioglie i Fischer-Z e decide di continuare pubblicando l'album One more twist e il singolo Speaking a different language. La breve avventura dei Fischer-Z non finisce qui. Sull’onda della nostalgia rivedranno, infatti, la luce una decina d’anni dopo, nel 1992, quando, riformatisi, pubblicheranno Destination paradise.


19 agosto, 2019

19 agosto 1906 - Manzie Johnson, elegante ed essenziale


Il 19 agosto 1906 nasce a Putnam, nel Connecticut, Manzie Johnson, uno dei più eleganti ed essenziali batteristi del jazz di New Orleans. Pressoché sconosciuto al grande pubblico, anche per il suo carattere asciutto, incapace di autopromozione e di poche parole, gode invece di una notevole popolarità e stima nella ristretta cerchia degli appassionati di tutto il mondo. Per lui il jazz è un sogno coltivato da piccolo, così come il desiderio di lasciarsi alle spalle la vita difficile nella cittadina dove è nato. Nei suoi occhi ci sono i locali e i teatri di Harlem, scenari che la sua fantasia carica di colori e significati particolari. Ha da poco smesso di portare i calzoni corti quando lascia la città natale per cercare fortuna a New York. A differenza di altri trova davvero quello che cerca. Nella "grande mela", infatti, si fa conoscere suonando per molto tempo allo Small's Paradise con l'orchestra di quel Willie Gant che, in quell'epoca, è considerato uno dei giganti della scena di Harlem. Successivamente suona e registra con quasi tutti i più importanti gruppi degli anni Trenta, da Freddie Johnson a June Clark, da Frankie Newton a Don Redman, da Willie Bryant a Joe Sullivan, a Bobby Burnett. Ancora oggi le sue registrazioni del 1938 con la band di Tommy Ladnier e Mezz Mezzrow sono merce pregiata per i collezionisti. Il suo carattere lo porta a non mettersi in evidenza, spesso con il rischio di non valorizzare abbastanza il suo apporto solido ed essenziale, perfettamente inquadrato nello schema della scuola tradizionale. Non si pensi, però, che la sua esperienza musicale finisca con la fine del periodo d'oro dello stile New Orleans. L'incontro con le aperture dello swing e del grande jazz orchestrale ma anche con le forme più evolute del dopoguerra fornisce alla sua tecnica nuovi stimoli. Resta per tutta la carriera un batterista dalla formazione classica, ma non rinuncia ad aperture e variazioni che denotano una acuta sensibilità e la capacità di adattarsi con intelligenza alle evoluzioni del suo genere musicale. Se può non si sposta da New York. Fino alla morte, che lo sorprende nel 1971, trascorrerà, infatti, gran parte della sua vita in quella città che era nei suoi sogni di ragazzo e che gli ha dato la possibilità di vivere di musica. Del suo lavoro restano testimonianza preziosa alcune registrazioni al fianco dei grandi del jazz come una straordinaria Doin' what I please con Don Retman del 1932, Sixty street con Lil Armstrong del 1939 e The mooche con Sidney Bechet del 1941.


18 agosto, 2019

18 agosto 1966 - Il giorno in cui Paul Jones lasciò i Manfred Mann


Il 18 agosto 1966 la notizia che da qualche giorno circola negli ambienti musicali britannici diventa ufficiale: il cantante Paul Jones lascia i Manfred Mann per continuare come solista e, pare, dedicarsi alla carriera cinematografica. Per sostituirlo verranno contattati prima Rod Stewart e Wayne Fontana, ma poi il posto verrà affidato a Mike D’Abo. A detta dei media la fuga del cantante rischia di essere però un duro colpo d'immagine per la band fondata dal sudafricano Mike Lubowitz, in arte Manfred Mann. Paul Jones appartiene, infatti, al nucleo storico del gruppo e la sua figura carismatica ha avuto un ruolo determinante nel suo successo. I tentativi di trattenerlo non ottengono risultati anche perché, stando alle dichiarazioni, non c'è nulla di personale nella scelta di abbandonare il suo vecchio amico Lubowitz. Paul Jones se ne va perché è stanco delle continue mediazioni imposte dalla vita di un gruppo. Ha in mente un progetto solistico che si concretizza nella pubblicazione di dischi di scarso rilievo con brani come High time e I've been a bad bad boy. Dal punto di vista musicale la sua scelta solistica non lascerà tracce consistenti almeno fino agli anni Ottanta, quando darà vita alla Blues Band con Tom McGuinness. Paul Jones trova, comunque un modo per caratterizzare con la sua personalità quegli anni anche al di fuori dell'esperienza dei Manfred Mann. Viene infatti scelto da regista Peter Watkins per interpretare la parte del protagonista in "Privilege", uno dei film simbolo degli anni Sessanta. Nell'interpretazione del personaggio di Steve Shorter, il cantante pop strumentalizzato dal music business e poi abbandonato a se stesso quando prende coscienza della sua condizione perde un po' del carisma scenico, ma si guadagna quel pezzetto d'immortalità che le sue esperienze solistiche probabilmente non gli avrebbero dato. Nonostante le previsioni fosche sul loro destino i Manfred Mann, sopravviveranno anche senza il loro storico cantante. Prima di inserire in organico una nuova voce solista tentano, per la verità, di lasciare le cose come stanno pubblicando due EP strumentali Instrumental asylum e Instrumental assassination che, però, lasciano indifferente il pubblico. Abbandonata rapidamente ogni velleità di rinnovamento e inserito in organico il già citato Mike D'Abo, ritroveranno la strada del successo con brani di facile consumo, pur se non privi di originalità come Ha! Said the clown, My name is Jack, Fox on the run e Ragamuffin man, oltre alle dylaniane Just like a woman e The Mighty Quinn.



16 agosto, 2019

16 agosto 1968 – L’inaspettata morte di Cutty Cutshall

Il 16 agosto 1968 a Toronto, in Canada, dove si trova in tournée con gli All Stars di Eddie Condon, muore improvvisamente il trombonista Cutty Cutshall. Ha cinquantasette anni. Nato a Huntington County, in Pennsylvania, 29 dicembre 1911 è registrato all’anagrafe con il nome di Robert Dewee Cutshall. Giovanissimo comincia l'attività professionale a Pittsburg suonando nell'orchestra sinfonica comunale e in vari gruppi da ballo. Nel 1934 viene ingaggiato da Charley Dornberg e dal 1938 al 1940 suona con il gruppo della cantante Jan Savitt Successivamente entra nell’organico dell'orchestra di Benny Goodman e ci resta fino alla fine del 1946 sviluppando un rapporto di amicizia e rivalità professionale con Lou McGarity. Nella band di Goodman Cutshall si fa conoscere e apprezzare sia dai critici sia dal grosso pubblico. Nel 1948 ottiene un importante ingaggio al Nick's, il tempio dei dixielanders di New York, dove suona prima con Billy Butterfield. A partire dal 1949 entra a far parte degli All Stars di Eddie Condon diventandone un componente fedele e quasi inamovibile. Verso la fine degli anni Cinquanta, Cutshall suona anche con le orchestre di Bob Crosby, ancora una volta a fianco di McGarity, e di Wild Bill Davison pur senza abbandonare l’impegno primario con il "clan” di Condon. Nel 1965 entra partecipa a una serie di registrazioni della band di Yank Lawson e Bob Haggart che dal punto di vista stilistico anticipano la nascita della World Greatest Jazz Band nella quale ha ancora una volta al suo fianco McGarity. Non riuscirà però a prender parte alle prime incisioni di quest’orchestra perchè la morte lo sorprende a Toronto dove avrebbe dovuto esibirsi per l’ultima volta con gli All Stars di Condon.


15 agosto, 2019

15 agosto 1969 - Il primo giorno di Woodstock


Alle cinque del pomeriggio del 15 agosto 1969 sono duecentomila le persone che affollano a Bethel i prati della fattoria di Max Yasgur. Il Woodstock Music and Art Fair sembra destinato a non avere mai inizio, ma i giovani arrivati fin lì non danno l’impressione di preoccuparsene. Non c’è il nervosismo che precede eventi di questo genere. Nella confusione indescrivibile ciascuno aspetta con pazienza che qualcosa succeda. Improvvisamente qualcuno arriva sul palco. È un emozionatissimo Richie Havens che, afferrato il microfono intona con voce tremante la sua Freedom. Inizia così, con un ritardo di molte ore e con la scaletta rivoluzionata, il festival di Woodstock, destinato a entrare nella leggenda come “Tre giorni di pace, amore e musica”. Secondo quanto annunciato dal programma non avrebbe dovuto essere Havens il primo a esibirsi e neppure si sarebbe dovuto attendere il pomeriggio per poter ascoltare le prime note. La manifestazione doveva aprirsi nella mattinata con Joan Baez, seguita da Arlo Guthrie e da Tim Hardin, quindi Havens, poi la Incredible String Band, Ravi Shankar, Bert Sommer e gli Sweetwater, cui era affidato il compito di chiudere la prima delle tre giornate. Già all’alba del 15 agosto, però, si capisce che tutte le previsioni sono saltate. Fin dal giorno prima tutte le linee viarie di comunicazione sono saltate. Una folla immensa sta intasando le strade con ogni mezzo nel tentativo di raggiungere i prati della fattoria di Max Yasgur, incurante degli elicotteri della polizia che con gli altoparlanti invitano a tornare indietro annunciando che l’area del festival è già al limite della capienza. Le autorità preposte all’ordine pubblico fanno diffondere via radio la notizia che la zona viene considerata “area disastrata”, ma non serve a molto. Ogni passaggio degli elicotteri viene accompagnato da gesti di scherno e il fiume umano continua ad avanzare. L’intasamento diventa definitivo quando, vista la situazione, molti ragazzi decidono di abbandonare i propri mezzi di locomozione in mezzo alle strade per continuare a piedi. La situazione che si crea rende, però, difficile, se non impossibile per gli artisti raggiungere l’area del festival. Qualcuno arriverà a piedi, altri riusciranno a garantire la loro presenza solo grazie all’intervento degli elicotteri della polizia. Mentre la fiumana di gente continua ad affluire, l’area destinata al Festival, controllata dai ragazzi della Hog Farm, una comunità hippy che si è assunta l’impegno del servizio d’ordine, ospita già duecentomila giovani, ai quali vengono consegnate razioni gratuite di riso integrale per sopperire alla mancanza di cibo. Alle cinque del pomeriggio il clima non è teso, ma la musica deve iniziare. L’unico cantante presente è Richie Havens, non ci sono dubbi che gli tocchi l’apertura. «Continua fin che ce la fai», gli dicono gli organizzatori e lui va avanti per tre ore, fino allo sfinimento, in attesa che arrivi qualcuno a dargli il cambio. Fortunatamente, quando già il povero Richie comincia a temere di dover cantare per tre giorni da solo, arriva quel folle di Country Joe McDonald che, senza la band, ancora dispersa nel traffico, sale sul palco e intona una lunghissima versione di I feel like I’m fixin’ to die rag, il suo brano contro la guerra del Vietnam, concluso da un coro di centinaia di migliaia di persone che all’unisono con lui urlano un sonoro «Fuck». Anche Country Joe, però, non è di ferro e prima o poi bisognerà pur dargli il cambio, ma non si hanno notizie degli altri artisti previsti dal programma. Gli organizzatori non sanno che pesci pigliare, ma la fortuna è decisamente dalla loro parte. Non si sa bene come, ma scovano tra il pubblico John Sebastian, il leader dei Lovin’ Spoonful, arrivato lì in veste di spettatore. Lo convincono a salire sul palco e guadagnano un’altra preziosa mezz’ora. Nel frattempo comincia ad arrivare qualcuno, sia pure alla spicciolata e senza rispettare l’ordine originario. Dopo Sebastian tocca a Bert Sommer, quindi a Ravi Shankar, la cui esibizione si svolge quasi interamente sotto una pioggia battente e improvvisa. Seguono Arlo Guthrie e gli Sweetwater. Manca sempre Joan Baez. Non c’è problema. Come già per John Sebastian, viene recuperata tra il pubblico Melanie, anche lei arrivata come spettatrice e spedita velocemente sul palco mentre calano le prime ombre della sera. Finalmente arriva anche Joan Baez. Quando la folksinger inizia a cantare è ormai notte fonda e, teoricamente, la prima giornata di Woodstock dovrebbe già essersi chiusa da qualche ora, ma chi ha tempo o voglia di guardare l’orologio?


14 agosto, 2019

14 agosto 1971 – King Curtis accoltellato


Il 14 agosto 1971 il sassofonista King Curtis viene accoltellato a morte da un ladro sorpreso davanti alla porta del suo appartamento a New York. Ha trentasei anni e negli ultimi tempi è divenuto, nei fatti, il direttore musicale di Aretha Franklin, di cui accompagna le esibizioni con la sua band, The King Pins. È sua la tromba che si può ascoltare nell'album Live at the Fillmore West, uno dei migliori della Franklin. Talento precoce, a quindici anni è già un musicista professionista in vari gruppi commerciali della zona di Fort Worth, in Texas, dove è nato. Si trasferisce a New York nel 1952 quando Lionel Hampton lo invita a far parte della sua band. Negli anni successivi lavora con jazzisti di grande valore come Wynton Kelly, Nat Adderley, Sam Jones e molti altri. Parallelamente non disdegna il fronte del rhythm and blues, collaborando con quasi tutti i maggiori esponenti del genere. Eclettico e geniale non vive di sole collaborazioni. Alla testa del suo gruppo si esibisce anche in modo autonomo entusiasmando pubblico e critica con la sua sonorità asciutta e ricca di grinta, con evidenti richiami alla grande scuola del folk blues. Alla fine degli anni Sessanta la sua popolarità si allarga grazie alle musiche scritte per la serie televisiva "Soul", in particolare per il brano Soulful 13 che fa da sigla al programma. Tra le sue composizioni maggiormente conosciute ci sono Soul serenade, Instant groove e Memphis soul stew. La sua morte violenta suscita grande emozione nella scena musicale newyorkese. Tre giorni dopo, il 17, a New York si svolgono i suoi funerali di fronte a una grande folla di musicisti, appassionati e semplici cittadini. Nel corso della cerimonia funebre celebrata dal reverendo Jesse Jackson, sono moltissimi gli artisti che vogliono cantare e suonare per lui. Ci riescono, tra gli altri, Aretha Franklin, Stevie Wonder, Cissy Houston, Brook Benton e Arthur Prysock, Delaney & Bonnie Bramlett, Duane Allman ed Herbie Mann.


13 agosto, 2019

13 agosto 1953 – Rosalino Cellamare, anzi Ron


Il 13 agosto 1953 a Dorno, in provincia di Pavia, nasce Rosalino Cellamare, destinato a diventare uno dei protagonisti della scena musicale italiana degli anni Ottanta e Novanta. Fin da piccolo vince vari festival per voci nuove e nel 1970 con il nome di Rosalino, partecipa al Festival di Sanremo in coppia con Nada con Pà diglielo a mà, e nel 1971 porta a "Un disco per l'estate" il brano Il gigante e la bambina scritto da Lucio Dalla su un testo della poetessa Paola Pallottino. Nello stesso anno debutta anche come autore, scrivendo, con lo stesso Dalla, la canzone Piazza grande. Nel 1972 pubblica Il bosco degli amanti, il primo album della sua carriera. Nonostante la sua giovane età, anche per difetti di una promozione legata al personaggio di “adolescente prodigio”, i suoi dischi non riescono a ottenere riscontri significativi. Nel 1973 porta in scena “Dal nostro livello”, uno spettacolo musicale e teatrale basato sui temi degli alunni delle scuole elementari di Cinisello Balsamo. Dopo alcuni lavori teatrali e cinematografici, cambia nome in Ron, pubblica un paio di singoli come I ragazzi italiani e, nel 1979 partecipa al tour di Lucio Dalla e Francesco De Gregori. L'anno dopo, con l'album Una città per cantare, conquista definitivamente pubblico e critica. Da quel momento l'appuntamento con il successo è diventato una costante della sua carriera tanto da farlo diventare, negli anni Novanta, un punto di riferimento per molti giovani autori.

12 agosto, 2019

12 agosto 1982 - Il cantante che parlava sulle note alte


Il sorriso ironico e la carica vitale di Joe Tex, uno dei personaggi più emblematici della black music degli anni Sessanta e Settanta, si spengono il 12 agosto 1982. Colpito da un attacco cardiaco il quarantanovenne soulman muore a Navasota, in Texas, pochi giorni dopo la conclusione della "Soul Clan Revue", un lungo tour che l’ha visto esibirsi in compagnia di Wilson Pickett, Solomon Burke, Don Convay e altri veterani del soul. Cresciuto in un sobborgo di Houston, Joe Tex, all’anagrafe Joseph Arrington jr, per sopravvivere si adatta a fare di tutto: lustrascarpe, venditore di giornali, ballerino e cantante. Non dà molto credito alla possibilità che quella di cantante possa essere la sua professione futura. Si fa conoscere come autore e scrive successi per Jerry Butler ed Etta James, ma la svolta nella sua carriera inizia nel 1964 quando un impresario di country, Buddy Killen, gli propone di registrare una versione di Baby you're right di James Brown. Dotato di una voce rauca e inadatta alle note alte Joe è costretto a eliminare le parti difficili delle canzoni introducendo brani di parlato sulla musica. Il risultato non gli piace. Se ne va, ma prima si fa promettere che l’incisione non verrà mai utilizzata. Bugiardo matricolato, Killen, convinto delle qualità del ragazzo, gli dice di sì ma poi autorizza la pubblicazione del brano in un singolo che in pochi giorni scala la classifica dei dischi più venduti. È il successo. Con i primi quarantamila dollari Joe regala una casa alla sua vecchia nonna. Sono gli anni del grande successo del soul e lui ne diviene uno degli interpreti più originali con brani come Hold what you've got, A sweet woman like you, You're right Ray Charles e, soprattutto I gotcha. All'apice del successo, però, abbandona la scena musicale per diventare predicatore della Chiesa dei Musulmani Neri, con il nome di Joseph Hazziez. Tornerà sulle scene nel 1975 dopo la morte di Elijah Muhammad, il capo dei Musulmani Neri. I tempi, però, sono ormai cambiati. Ottiene un buon successo con Ain’t gonna bump no more, ma non riuscirà più a ripetersi sui livelli precedenti.


11 agosto, 2019

11 agosto 1966 - Vade retro Lennon!


L’11 agosto 1966 all’Astor Towers Hotel di Chicago si svolge una burrascosa conferenza stampa dei Beatles, sbarcati negli Stati Uniti per esibirsi in quello che è destinato a essere il loro ultimo tour oltreoceano. Per una volta, però non sono i giornalisti a creare grattacapi ai quattro ragazzi di Liverpool. Anzi, c’è chi rileva come le domande siano “più o meno le stesse del tour precedente”. Quello che disturba è la presenza vociante e aggressiva fuori dall’albergo di varie organizzazioni cristiane integraliste che alzano cartelli in cui si chiede a John Lennon di pentirsi e alle autorità americane di espellere i “blasfemi inglesi”. Allieta l’ambiente un grande falò di dischi e manifesti della band in puro stile Ku Klux Klan. La ragione di tanto trambusto è da ricercare in una non recentissima intervista rilasciata da John Lennon a Maureen Cleave, una giornalista dell’”Evening Standard”, nella quale il musicista rileva, tra l’altro, che “i Beatles sono oggi più conosciuti nel mondo di quanto non sia Gesù Cristo.” In quello stesso 11 agosto, mentre si sta svolgendo la conferenza stampa, un’associazione conservatrice di Memphis chiede che venga annullato il concerto che i quattro di Liverpool dovrebbero tenere nella città. In caso contrario si promettono disordini e contestazioni, oltre che la dannazione eterna per i responsabili del sacrilegio. E mentre il Sudafrica, che non ha mai sopportato John Lennon per il suo impegno antiapartheid, coglie l’occasione per mettere al bando i dischi dei Beatles, i vertici della Chiesa Cattolica tentano di riportare un po’ tutti alla realtà. Su “L’Osservatore Romano” e il “Catholic Herald” compaiono due editoriali molto simili che rilevano come, pur se sbagliate nel tono, le dichiarazioni Lennon siano sostanzialmente vere. Forse perché non leggono, ma più probabilmente perché non capiscono, varie organizzazioni di estrema destra, non tutte a sfondo confessionale, si daranno appuntamento a Memphis il 20 agosto, data del concerto dei Beatles in quella città, per limitarsi a bersagliare con frutta marcia e immondizia la band. I disordini promessi finiranno lì.




10 agosto, 2019

10 agosto 1985 - Le canzoni non hanno autori, solo padroni


Il 10 agosto 1985 una società di cui è proprietario Michael Jackson acquista per la bella cifra di quarantasette milioni e cinquecento mila dollari l’intero catalogo delle canzoni dei Beatles scritte dalla coppia Lennon-McCartney. Per una serie di complicate vicende economico-finanziarie conseguenti allo scioglimento del quartetto di Liverpool, tutti brani, oltre duecentocinquanta, nati dalla geniale vena creativa dei due musicisti erano finiti all’asta e il cantante li ha acquistati. Non è stata però un’operazione tranquilla e indolore. Gli esperti incaricati da Michael Jackson di portare a termine l’affare hanno dovuto sudare le proverbiali sette camicie perché contro di loro si era scatenata l’opposizione di Paul McCartney e di Yoko Ono, vedova di John Lennon e, come tale, titolare dei suoi diritti d’autore. Alla fine, però, il denaro ha avuto la meglio sul desiderio di uno degli autori e dell’erede dell’altro di rientrare in possesso del frutto di anni di lavoro. Di fronte al peso della potenza economica di Jackson nulla hanno potuto gli appelli sentimentali e i tentativi di contestare la legittimità degli atti. La vicenda è certamente emblematica del clima culturale degli anni Ottanta, nei quali garrisce al vento sul pennone più alto la bandiera dell’individualismo e della competizione selvaggia. La lezione che se ne trae è che i soldi diventano un Valore superiore alla creatività e ai diritti degli autori. Anzi, si può dire che le canzoni non hanno più autori, ma solo padroni, che possono disporne come e quanto meglio credono. Nello specifico significa che ogni volta che qualcuno canterà o suonerà uno dei brani dei Beatles scritti da Lennon e McCartney farà un po’ più ricco Michael Jackson. Sembra ridicolo ma è così. L’altra lezione da imparare è che i rapporti personali e le amicizie non contano quando si tratta di fare un affare. Per arrivare a questo risultato, infatti, Jackson non ha esitato a mettere in crisi il suo fecondo rapporto di collaborazione con Paul McCartney che aveva dato negli anni precedenti apprezzabili risultati sul piano artistico ed era culminato in una serie di brani interpretati in duetto. Ma si sa: un affare è un affare.



09 agosto, 2019

9 agosto 1957 - Nina, la cantante della Sala Imperio


Il 9 agosto 1957 muore la sessantunenne Anna Benedetti. L'avvenimento non fa notizia e nel mondo dello spettacolo a nessuno quel nome dice niente. In realtà la signora Benedetti è stata Nina Imperio, dal 1915 al 1920 una delle cantanti napoletane del varietà più popolari in Italia e in Europa. Figlia del maestro Michele Benedetti, direttore d'orchestra "dei balli" presso il San Carlo di Napoli, canta per la prima volta in uno spettacolo di varietà nel capoluogo partenopeo nel 1911, a soli quindici anni. Il luogo del debutto, la Sala Imperio, resta nel suo nome d'arte. Nina Imperio si fa presto apprezzare per la sua sobrietà altera sul palco e l'eleganza della presenza scenica. La sua voce fa il resto. Irrobustita dagli studi di canto iniziati nella più tenera età, ricca di sfumature e capace di far vibrare le corde dei sentimenti negli ascoltatori, si adatta perfettamente al repertorio classico napoletano. In breve tempo diventa una delle beniamine del pubblico napoletano. La sua popolarità, però, non si ferma alle falde del Vesuvio. Insieme ad alcune tra le migliori compagnie di varietà dell'epoca inizia a girare l'Italia. A diciott'anni, nel 1913, entusiasma il pubblico romano che saluta la sua prima esibizione in assoluto all'Eden tributandole una lunghissima ovazione. Il suo peregrinare in Italia e in vari paesi europei non le fa dimenticare Napoli cui resta legata da un affetto profondo. Nelle sue tournée, infatti, è prevista sempre la possibilità di un suo ritorno a Napoli in occasione dell'annuale rassegna canora di Piedigrotta. Innumerevoli sono le edizioni della manifestazione che la vedono protagonista e molte delle canzoni lanciate per l'occasione entrano stabilmente nel suo repertorio. La parabola ascendente di Nina Imperio sembra destinata a non fermarsi mai quando, improvvisamente, nel 1920 annuncia la sua intenzione di ritirarsi dalle scene. La donna che ha davanti al suo camerino lunghe file di ammiratori e spasimanti, per la quale gli impresari sono ormai disposti a fare follie è intenzionata a lasciare tutto per… amore. S'è, infatti, innamorata di un uomo che non fa parte del mondo dello spettacolo e intende stare con lui. Dal momento dell'annuncio si esibisce soltanto negli spettacoli previsti dai contratti già firmati, poi se ne va per sempre. Nina Imperio muore con la sua scelta. Non calcherà più il palcoscenico e quando, nel 1957, anche Anna Benedetti scompare più nessuno ricorda la cantante che fece impazzire con il suo talento il pubblico di mezza Europa.


08 agosto, 2019

8 agosto 1970 - Grazie, piccola Bessie. Firmato Janis


L’aveva promesso a se stessa e lei è una che mantiene le promesse. Janis Joplin nell’estate del 1970 è ormai una cantante di successo, sia pur tormentata da una serie lunghissima di angosciosi problemi esistenziali. Da poco ha debuttato con la Full Tilt Boogie Band e tra pochi giorni deve iniziare le sedute di registrazione del suo nuovo album. Da tempo, però, continua a dire agli amici di voler saldare un misterioso debito. Approfittando di un momento di pausa nei suoi impegni, l’8 agosto 1970 fa collocare a sue spese una lapide di ringraziamento e di saluto sulla tomba della grande cantante Bessie Smith, l’Imperatrice del blues che riposa dal 1937 nel cimitero di Mount Lawn presso Derby, in Pennsylvania. Lo fa senza grande clamore, ma la notizia trapela ugualmente. A chi gliene chiede la ragione Janis spiega “L’ho sentita molte volte vicino a me. Devo tutto a lei: il mio modo di cantare, la mia passione per la musica, i suoni e i colori della mie interpretazioni. È stata Bessie Smith l’esempio che ho scelto quando ho cominciato a cantare e lei mi ha insegnato la strada.” Stimolata sull’argomento si lascia poi andare a una serie di considerazioni violente contro la vergogna della discriminazione razziale. Sono parole di fuoco che bollano l’intera società americana. Il razzismo, a suo dire, è una vergogna che dovrebbe pesare come un macigno su tutti i bianchi che vivono negli Stati Uniti. Le parole di Janis non sono generiche manifestazioni di solidarietà a favore dell’integrazione razziale, ma si riferiscono direttamente alle scandalose circostanze che hanno provocato la morte di Bessie Smith, sulle quali, peraltro, nessuno ha mai aperto un’inchiesta degna di questo nome. La morte della cantante viene solitamente attribuita a un generico “ritardo nei soccorsi”, quando non a “circostanze oscure”. Eppure non c’è niente di più vergognosamente chiaro delle circostanze che hanno determinato la morte di Bessie Smith. Siamo nel 1937. Mentre è impegnata in una lunga tournée nel Sud degli Stati Uniti, la cantante viene coinvolta, nella notte tra il 25 e il 26 settembre, in un terribile incidente stradale nelle vicinanze di Clarksdale, nello stato del Mississippi. Come si può immaginare non sono ancora molte, negli anni Trenta, le auto che viaggiano di notte, per cui passa molto tempo prima che qualcuno si accorga dell’incidente. Ali occhi dei primi soccorritori le condizioni della cantante appaiono molto gravi tanto che si decide di non attendere l’ambulanza per trasportarla al pronto soccorso del più vicino ospedale. La lunga corsa contro il tempo di Bessie Smith è, però, solo all’inizio. Pur essendo stato avvertito per tempo e avendo preparato il necessario per prendersi cura della ferita, il personale di turno dell’ospedale si rifiuta di accettare il corpo martoriato della cantante quando si accorge che è nera. In quegli anni in molti stati del Sud vige ancora un rigido regime di separazione razziale e viene considerato un fatto del tutto normale per una clinica riservata ai bianchi rifiutare di prendersi cura a un corpo sofferente dalla pelle nera. A nulla valgono le violente proteste dei più decisi tra i soccorritori, accusati dai loro interlocutori di aver perso del tempo prezioso per non aver voluto portare subito la ferita nel più lontano ospedale per neri. In ogni caso è “evidente” che i medici e gli infermieri della clinica “bianca” non c’entrano perché Bessie Smith non è un problema loro. Gli stupefatti soccorritori risalgono sulle auto e tentano una nuova disperata corsa verso l’ospedale afro-americano di Clarksdale. Dopo una notte intera senza soccorsi, le cure dei medici non possono far altro che alleviare i dolori dell’agonia. Alle prime ore dell’alba la donna che era stata insignita del titolo di “Imperatrice del blues” e applaudita in tutti gli States cessa di vivere. Questa è la storia che con le sue parole Janis Joplin tenta di far rivivere nella coscienza dell’America degli anni Settanta. Ci riesce, ma solo per il breve spazio di un respiro, perché poi, si sa, la vita continua.




07 agosto, 2019

7 agosto 1964 - Il film dei Beatles? Pura immondizia!


Il 7 agosto 1964 la prestigiosa rivista statunitense “Time” stronca “A hard day’s night”, il primo film dei Beatles, arrivato anche nelle sale italiane con il curioso titolo di “Tutti per uno”. Il critico del giornale, lasciandosi un po’ scappare la mano, arriva e definirlo “Immondizia”. Si ritrovano nelle parole e nello spirito dell’articolo gli umori scandalizzati di chi non sopporta il divertente gioco di citazioni e l’atteggiamento irridente verso l’ordine costituito che costituiscono l’ossatura fondamentale della pellicola. Fortunatamente, pochi giorni dopo, il magazine “Life” pubblicherà una recensione molto meno umorale e astiosa. invitando i propri lettori a non perdere “questo divertente viaggio surreale nello stile dei fratelli Marx”. Pur non essendo un capolavoro il film, diretto con mano leggera da un giovane Richard Lester deciso a non lasciarsi prendere la mano dai Beatles, è ricco di inventiva affabulatoria e costellato da gag fulminanti. Costruito come un finto documentario musicale in sintonia con il “free movie” inglese di quel periodo, racconta le strampalate e improbabili peripezie del quartetto di Liverpool cui vengono affiancati due personaggi-guida: il nevrastenico manager Norm, interpretato da Norman Rossington e John Mixing, il folle nonno di Paul McCartney, affidato all’esilarante interpretazione di Wilfrid “Steptoe” Brambell. Girato in poche settimane tra marzo e aprile del 1964 con un budget di appena duecentomila sterline il film vola sulle ali della popolarità dei Beatles e incassa solo nella prima settimana di programmazione più di un milione di sterline. Il lungometraggio, nato per rompere lo schema delle esperienze cinematografiche delle star del rock and roll, caratterizzate da trame inesistenti inframmezzate da canzoni, suscita l’attenzione del mondo intellettuale londinese che ne apprezza la struttura d’avanguardia. Porterà bene anche al regista Richard Lester, destinato a diventare uno dei più apprezzati e geniali campioni del divertimento intelligente.



06 agosto, 2019

6 agosto 1994 – Ciao, Mister Volare


Il 6 agosto 1994 muore a Lampedusa Domenico Modugno, conosciuto nel mondo come "Mister Volare", il cantante italiano più popolare nel mondo dopo Enrico Caruso. La sua è una fine più volte annunciata e altrettante miracolosamente smentita dai fatti. Da anni, infatti, gli fanno compagnia i fastidiosi postumi di una trombosi che lo aveva colpito durante le prove di un programma televisivo. Solo dopo un lunga e faticosa terapia di recupero, è tornato in attività e nel 1987 è stato anche eletto al Parlamento nelle liste del Partito Radicale. Con l’uomo scompare anche l’artista che alla fine degli anni Cinquanta ha cambiato la canzone italiana. Nato a Polignano a Mare, in provincia di Bari aveva iniziato a muoversi nel mondo dello spettacolo come attore e come compositore di canzoni spesso destinate a esaltare il talento di altri quali Musetto interpretata da Gianni Marzocchi, Lazzarella, portata al successo nel 1957 da Aurelio Fierro, Resta cu 'mme per Roberto Murolo e, soprattutto, La donna riccia, uno dei cavalli di battaglia di Renato Carosone. Per gran parte degli anni Cinquanta, però, neppure qualche disco inciso in proprio riesce a farlo affermare come cantante. La svolta avviene nel 1958, al Festival di Sanremo che si svolge dal 30 gennaio al 1° febbraio. Domenico Modugno presenta Nel blu, dipinto di blu un brano che nei giorni delle prove suscita più d'una perplessità in critici ed esperti. Anche a un musicista di scuola jazz aperto alle innovazioni come il maestro Gorni Kramer sembra sfuggire la portata della composizione, tanto da sbottare in un commento indelicato: «Ma che pazzia è questa canzone? Non ha stile, non esiste». Non diversa è l'opinione dei critici presenti, con qualche eccezione come quella di Mario Casalbore che difende Modugno. La canzone è davvero insolita perché, oltre ad avere un testo con evidenti riferimenti surrealisti, introduce per la prima volta sul palcoscenico di Sanremo una mescola di generi diversi, compresi gli echi delle novità ritmiche che arrivano d'oltreoceano. Il pubblico saluta con una vera e propria ovazione l'esibizione di Modugno che sul ritornello allarga le braccia come se volesse levarsi in volo. Tutti si alzano in piedi sventolando i fazzoletti e lo accompagnano in coro. Nei giorni successivi il ritornello «Volare, oh, oh....» diventa il nuovo inno nazionale. Il successo di Nel blu, dipinto di blu è clamoroso ed è destinato a non restare rinchiuso nei confini italiani. La canzone, in varie versioni, fa il giro del mondo e vende venticinque milioni di dischi. Solo Bianco Natale di Bing Crosby è riuscito a fare meglio. Tra i primi a capire "fenomeno" Modugno c’è Massimo Mila che scrive «Nella sua invenzione melodica confluiscono tumultuosamente ogni sorta di detriti popolari del bacino mediterraneo, agli affioramenti di schietti strati di musicalità popolare si mescolano movenze canzonettistiche di ballabili moderni, echi di banda municipale, come quella che dirigeva Mascagni a Cerignola, e spunti operistici nazionali: Rossini dà il braccio a Duke Ellington, e tutta questa baraonda è fusa come una lava nel fuoco di un contatto schietto con la realtà». Insomma, il 6 agosto 1994 se ne va un genio capace di spezzare la coltre di ghiaccio che teneva inchiodata al suolo la canzone italiana per farla… volare in alto.



05 agosto, 2019

5 agosto 1975 - Stevie Wonder, il ragazzo del ghetto diventa miliardario


C’è chi pensa sia una vergogna, chi invece sostiene che è la rivincita di un ragazzo nero non vedente contro il suo destino. In ogni caso la notizia è di quelle che sembrano nate apposta per far discutere. Il 5 agosto 1975 Stevie Wonder rinnova il contratto discografico con la Motown per sette anni. Per quel che riguarda l’entità finanziaria del contratto, non vengono emessi comunicati ufficiali, ma voci bene informate parlano di una cifra che si aggira intorno ai tredici milioni di dollari. È una somma da capogiro, un record per quegli anni, il più ricco contratto mai stipulato fino ad allora tra un artista e una casa discografica. Non resterà né l’unico, né il più alto, ma tredici milioni di dollari sono decisamente troppi, anche per un personaggio come Wonder cui sembrava che la vita non dovesse regalare nulla. Nato prematuro a Saginaw, nel Michigan, Steveland Morris, questo è il suo vero nome, perde l’uso della vista per il malfunzionamento della sua incubatrice. È l’ultimo di tre fratelli e la madre, Lula Hardway, giura a se stessa di non fargli pesare la sua condizione. Mantiene il giuramento anche quando il padre se ne va. Stringe i denti e con i tre figli si trasferisce a Breckenridge, uno dei quartieri più poveri di Detroit. Il piccolo Stevie passa il tempo con il gioco che più gli piace: la musica. Il suo primo strumento musicale è una batteria giocattolo con la quale batte il tempo delle canzoni della radio. I regali dei vicini arricchiscono la sua strumentazione. Il piccolo canterino anima con la sua voce il quartiere finché, un giorno, un altro ragazzo del ghetto, Gerald White parla di lui a suo fratello Ronnie, che canta nei Miracles di Smokey Robinson. “Fammi sentire quello che sai fare con la voce, ragazzo!” Quello che ascolta lo lascia di stucco. Lo porta negli studi della Motown per farlo ascoltare da Brian Holland. A dodici anni Stevie Wonder ottiene così il suo primo contratto discografico. D’ora in poi la sua famiglia non avrà più problemi economici.



04 agosto, 2019

4 agosto 1947 - L'elettrocosmico Schulze


Il 4 agosto 1947 nasce a Berlino Klaus Schulze, considerato uno dei maestri negli anni Settanta di quella corrente musicale un po' banalmente definita "elettro-cosmica". Allievo di John Cage, appassionato cultore di Wagner e di Stockhausen, polistrumentista e abile tastierista, resta affascinato dalle nuove sonorità ottenibili attraverso l'uso di sintetizzatori, generatori e oscillatori di frequenza. Nasce così una musica molto ricca ed elaborata a partire dalle strutture ritmiche complesse. Le sue origini musicali non sono diverse da quelle di tanti altri suoi coetanei. Sensibile al fascino dei Beatles nel 1962 è il quindicenne chitarrista degli Psy, un gruppo beat molto popolare tra i ragazzi berlinesi. Negli anni successivi passa alla batteria e proprio con questo strumento partecipa alla registrazione del primo album dei Tangerine Dream, entrando poi a far parte degli Ash Ra Tempel, il gruppo berlinese da molti considerato precursore della musica elettro-cosmica. All'inizio degli anni Settanta decide di realizzare da solo i suoi progetti. Il debutto come solista avviene nel 1972 con l'album Irrlicht. Due anni dopo arriva anche il grande successo commerciale con Black dance un disco di compromesso tra musica sperimentale e dance. Parallelamente all'attività solistica non rinuncia a coltivare progetti originali e più complessi come quello dei Go, una collaborazione tra lui e una serie di strumentisti molto diversi uno dall'altro come Stomu Yamashta, Steve Winwood, Michael Shrieve e Al Di Meola. Alla fine degli anni Settanta fonda la Innovation Communication, un'etichetta nata per promuovere la New Age Music, e continua a pubblicare album inseguendo atmosfere sempre più rarefatte, in ossequio al progressivo affermarsi della New Age come un business più ampio del solo settore musicale. Molti album prodotti dalla sua casa discografica sono suoi anche se portano nomi di fantasia come quelli di Richard Wahnfried, Rainer Bloss e Jyl.




03 agosto, 2019

3 agosto 1996 - Luciano Tajoli, un mito ucciso dalla televisione


Alle ore 19.30 di sabato 3 agosto 1996, nella sua casa di Merate, in Vicolo Carbonini muore a settantasei anni Luciano Tajoli uno dei protagonisti della canzone italiana del dopoguerra. Affetto da un grave handicap fisico conseguente a una poliomielite infantile ha pagato un prezzo altissimo alla discriminazione operata dalla televisione nei suoi confronti perché "zoppo e non telegenico". Eppure nell’Italia del dopoguerra è, più di altri, il simbolo della riscossa della tradizione contro le mode culturali d’importazione arrivate insieme alle truppe alleate. Sotto l’incalzare del jazz e delle musiche di Glenn Miller le fortune del genere melodico all’italiana sembrano finite per sempre. Non è così. «Americano non voglio cantar/ o miei signori mi dovete scusar/ questa sera canto in italian…», queste semplici frasi cantate dalla voce appassionata di Tajoli diventano il segnale di riscossa della tradizione italiana. In lui, però, la tradizione è qualcosa di dinamico, non un punto d’arrivo. Non sarà mai un rivoluzionario innovatore, ma non sceglierà nemmeno di rinchiudersi nel recinto tranquillo della conservazione. La purezza del suo timbro unita a una notevole capacità di virtuosismi vocali, gli consentono di adattarsi via via alle nuove sonorità senza tradire l’ispirazione di fondo. Non ha problemi ad accettare l’utilizzo del microfono nelle esibizioni dal vivo negli anni Quaranta e non si oppone quando, negli anni Settanta, le nuove orchestrazioni rovesciano l’impostazione tradizionale portando in primo piano la sezione ritmica. Leggendaria rimane la sua capacità di passare dalla mezza voce al falsetto creando quegli "svolazzi" vocali che saranno un po' il suo "marchio di fabbrica". Stupefacente è, infine, la sua longevità artistica che gli consente di arrivare, ancora sulla breccia, fino agli anni Novanta, a dispetto delle rare apparizioni televisive che gli vengono concesse a causa della scarsa "telegenicità" della menomazione fisica.



02 agosto, 2019

2 agosto 1951 - Andrew Gold, figlio della musica da film


Il 2 agosto 1951 nasce a Burbank, in California, il cantante e autore Andrew Gold, definito scherzosamente "figlio della musica da film". Suo padre, infatti, è il compositore Ernest Gold, autore di colonne sonore di film famosi, primo fra tutti "Exodus". La vicinanza con la musica che fa da sfondo alle vicende cinematografiche non si ferma qui. Anche sua madre, la cantante Marni Nixon, ha una lunga serie di trascorsi vocali con le tracce da film. Sua è la voce prestata a Natalie Wood in "West Side Story" e sempre lei canta le canzoni che finge d'interpretare Audrey Hepburn in "My fair lady". Con queste premesse è inevitabile che il piccolo Andrew finisca per considerare la musica come un elemento essenziale della sua vita e gli strumenti musicali il complemento ideale dei suoi giochi. Ancora adolescente è già considerato nell'ambiente un polistrumentista di valore. Appena riesce a liberarsi dal condizionamento famigliare forma la sua prima band, i Bryndle, insieme a un altro talento precoce come la cantante Karla Bonoff. L'esperienza non dura molto. Negli anni successivi, dopo aver suonato il basso con Maria Muldaur, inizia una lunga collaborazione con Linda Ronstadt che gli dà modo di liberarsi dell'immagine di "figlio d'arte" e di conquistarsi la fama di musicista capace di garantire buoni risultati sia a livello esecutivo che creativo. Nel 1975 riesce anche a convincere i discografici a dargli più spazio e consentirgli finalmente di pubblicare il suo primo album da solista. Il disco, intitolato semplicemente Andrew Gold, non è un fulmine di guerra, ma non va nemmeno tanto male, per cui continuerà a pubblicare senza troppi assilli un album all'anno. Nel 1980 ottiene un inaspettato successo commerciale con il singolo Lonely boy. Negli anni successivi lavorerà con vari artisti tra cui Carly Simon e Art Garfunkel e nel 1986 formerà insieme all'ex 10CC Graham Gouldman il duo dei Wax. Visti i risultati non esaltanti tornerà a lavorare da solo.




01 agosto, 2019

1 agosto 1950 – Si ferma il cuore di Alvin Mouse Burroughs

Il 1° agosto 1950 a Chicago, nell'Illinois, muore per un'improvvisa crisi cardiaca il batterista Mouse Burroughs, all'anagrafe Alvin Burroughs. Non ha ancora compiuto trentanove anni. Nato a Mobile, in Alabama, cresce nei sobborghi di Pittsburgh e fin da piccolo passa gran parte del suo tempo a percuotere barattoli, pentole, scatole di cartone e tutto ciò che può produrre un suono. Quando qualcuno gli mette tra le mani una batteria capisce che quella sarà la sua vita. A sedici anni suona a Sharon in Pennsylvania insieme a un altro giovane e promettente strumentista che risponde al nome di Roy Eldridge. Nel 1929, quando non ha ancora diciannove anni, ottiene la sua prima importante scrittura. Viene, infatti, chiamato a Kansas City per essere inserito nella formazione dei Blue Devils del contrabbassista Walter Page, considerata una delle migliori formazioni di quel periodo e destinata a diventare la culla della futura orchestra di Count Basie. È sua la batteria che si ascolta in Blue Devil blues e Squabblin’, due delle incisioni più conosciute della band di Page. La sua avventura musicale è, però solo all'inizio. Ben presto se ne va anche da Kansas City e dopo un breve periodo alla corte di Alphonso Trent, si trasferisce a Chicago dove suona con Walter Fuller, Omer Simeon, Budd Johnson e molti altri protagonisti del circuito jazz di quella città. Nel 1938 prende parte a una seduta di incisione organizzata e diretta dal vibrafonista Lionel Hampton, che, non disponendo ancora in quel periodo di una formazione stabile, si affida di volta in volta a gruppi di musicisti reperiti sulla piazza chicagoana. L’anno dopo se ne va a New York per suonare con l'importante orchestra di Earl Hines in sostituzione di Wallace Bishop. Il suo nome è stato suggerito al grande Hines da tre suoi strumentisti, Fuller, Simeon e Johnson, vecchi compagni di Burroughs a Chicago. Con questa orchestra il batterista registra per la Bluebird tra il mese di luglio del 1939 e l’inizio del 1941 una lunga serie di dischi che lo fanno conoscere a livello internazionale. Nonostante i successi la sua inquietudine artistica lo porta a nuove migrazioni. Nel 1941 suona con l’orchestra di Milton Larkin al “Rhumboogie” di Chicago e nel 1942 passa alla formazione di Benny Carter. Dopo un periodo in proprio, nel 1945 entra a far parte del gruppo di Red Allen dove rimane fino al 1946. Nel 1949 diventa il batterista del quartetto di George Dixon con il quale resta fino alla crisi cardiaca che lo uccide.