30 novembre, 2017

1° dicembre 1969 – Magic Sam, leggenda blues di Chicago

Il 1° dicembre 1969 muore Magic Sam, all’anagrafe Samuel Maghett, un personaggio leggendario della storia del blues. Nato a Grenada, nel Mississippi il 14 febbraio 1937, insieme a Buddy Guy e Otis Rush viene considerato uno dei principali innovatori del blues di Chicago alla fine degli anni Cinquanta. Il primo successo di una certa rilevanza lo ottiene all'età di vent’anni anni quando incide All your love per la Cobra, accompagnato da Little Brother Montgomery al piano, Mack Thompson al basso e Billie Stepney alla batteria. Dopo il servizio militare non riesce a replicare il successo iniziale e così si adatta a suonare in piccoli club che a stento gli consentono di sopravvivere. Nella seconda metà degli anni Sessanta però la sua tenacia sembra finalmente premiarlo. Di lui infatti comincia a occuparsi il produttore Bob Koester che, nel 1968, gli fa registrare due buoni album per la Delmark. Il 1969 si annuncia particolarmente felice per Magic Sam che dopo una eccellente prestazione al festival di Ann Arbor ottiene nuovi contratti per partecipare a numerosi concerti e la proposta di John Mayall intenzionato a scritturarlo per la sua etichetta Crusade. L’anno è caratterizzato anche da una felice tournée in Europa, nel corso della quale, durante un concerto alla Royal Albert Hall di Londra tenutosi il 3 ottobre, si registra il materiale per un album dal vivo pubblicato dalla Scout. Quando tutto sembra andare per il meglio il destino ci mette lo zampino. Il 1° dicembre di quello stesso straordinario 1969, Magic Sam muore a Chicago per una crisi cardiaca.


29 novembre, 2017

30 novembre 1947 – Gli All Stars di Louis Armstrong, una straordinaria macchina da musica

Il 30 novembre 1947 alla Symphony Hall di Boston Louis Armstrong e i suoi All Stars tengono un concerto che cambierà la loro storia. Da quel giorno infatti quell’ensemble casuale e precario si trasformerà in una straordinaria macchina da musica malgrado l'alternarsi dei musicisti che il senso di supremazia di Louis e le circostanze imponevano. In quel lungo concerto alla Symphony Hall di Boston si assiste a un’evoluzione definitiva. Dopo anni in cui il disequilibrio interno ai gruppi che l’accompagnavano finiva per danneggiare lo stesso Armstrong, per la prima volta il grande Satchmo concretizza l’idea di avere quella base di lancio nuova che nessuno era stato in grado di garantirgli dopo gli anni Venti. Gli spettatori assistono a una sorta di miracolo. La nuova logica che governa la musica degli All Stars è quella della sfilata dei solisti su un tappeto musicale collettivo dominato dalla tecnica del dixieland. Fondamentale è il contributo di Barney Bigard e Jack Teagarden con il sottile lavoro di contrappunto che i due conoscono molto bene, provenendo da due scuole molto simili come quelle di Chicago e New Orleans. Il gioco delle parti è perfetto perchè ciascuno conosce a memoria pregi e difetti dell'altro e sa calcolare le entrate e le uscite in assolo con il massimo tempismo riempiendo poi i vuoti lasciati dalla tromba di Louis con splendidi arabeschi timbrici. Le caratteristiche della scuola creola da cui proviene vengono utilizzate da Bigard in modo più netto di quanto non facesse nell’orchestra di Ellington. A fargli da contrasto c’è la pacatezza di Teagarden che riesce alla perfezione a frenare i tempi nei quali Bigard dà impulso all'accelerazione. Armstrong può così inserirsi nel gioco dei contrappunti e se negli anni precedenti non era mai molto propenso a improvvisare negli assoli, da quel momento si lascia andare più liberamente, sicuro dalla validità dei partner. Dietro ai tre uomini della front-line, schierati secondo la formazione classica dello stile di New Orleans, il pianista Earl Hines realizza un prezioso lavoro di raccordo con tocchi rapidi e quando può esce in assolo con il sostegno del basso di Arwell Shaw e della batteria di Big Sid Catlett. In quella sera di Boston nasce una leggenda.

29 novembre 1889 - Richie Brunies, il leader della Reliance

Il 29 novembre 1889 a New Orleans, in Louisiana, nasce Richard Brunies. Fratello di Henry, Abbie, Merritt e George, inizia a suonare da professionista con la Reliance Brass Band, il gruppo fondato nel 1892 da Jack "Papa” Laine che ospiterà tra le sue file l'intero clan dei Brunies. Proprio Richie Brunies alla vigilia dello scoppio della prima guerra mondiale, diventa il leader della Reliance. La sua popolarità in quegli anni è vastissima. La straordinaria potenza di suono della sua cornetta ne fa il principale antagonista del leggendario Buddy Bolden. Richard Brunies fa poi parte, assieme ai fratelli Henry e Merritt, della Fischer's Brass Band diretta dal clarinettista Johnny Fischer, nonché dell'orchestra del trombonista Happy Schilling, una formazione da ballo non molto nota che annovera nelle sue file elementi di tutto rispetto come Johnny Wiggs, Monk Hazel, Achille Baquet, Freddie Loyacano e lo stesso Fischer. Dei cinque fratelli Brunies, Richard è l'unico che non ha registrato dischi né negli anni Venti né durante il New Orleans Revival del dopoguerra. Muore il 28 marzo 1961.

27 novembre, 2017

28 novembre 1889 – Ray Lopez, la cornetta del "jazz melodico"

Il 28 novembre 1889 nasce a New Orleans, in Louisiana, il cornettista Ray Lopez, uno degli esponenti più originali del "lato melodico" e più commerciale del jazz. Delle sue origini musicali non si sa molto. Il suo nome comincia a circolare insistentemente nell'ambiente alla fine del primo decennio del Novecento quando suona nella Reliance Brass Band di Jack Papa Laine, considerata un po' la culla dei più importanti dixielanders bianchi di New Orleans. Lì son passati tutti: da La Rocca a George Brunis, da Tom Brown a Leon Roppolo, da Larry Shields a Tony Sbarbaro. Ray si fa apprezzare per la morbidezza del suono e la capacità di adattarsi alle esigenze dell'orchestra senza rinunciare a sprazzi di intelligente iniziativa. Quando chiude con la Reliance entra a far parte della Tom Brown's Band From Dixieland, la jazz band fondata dal trombonista Tom Brown. Questo gruppo, di cui fanno parte, oltre a Brown e a lui, Larry Shields, Deacon Loyacono e Billy Lambert, nel 1915 se ne va a Chicago e trova la gloria. Il successo è tale che il gruppo si sdoppia per partecipare anche agli spettacoli di vaudeville senza pagare penali alle sale da ballo da cui è stato scritturato. Negli spettacoli si chiamano The Five Rubes, mentre nelle serate in sala riprendono il loro nome originale. Alla fine del decennio Ray se ne va e nei primi anni Venti è sulla West Coast, al California Ambassador Hotel di Los Angeles con l'orchestra di Abe Lyman, un'altra famosa formazione da ballo. In questo periodo incide anche qualche disco, ma negli anni successivi le sue tracce diventeranno sempre più confuse.

27 novembre 1970 - Dimenticate i Beatles, ascoltate George!

Il 27 novembre 1970 George Harrison pubblica All thing must pass, un triplo album prodotto dallo stesso Harrison con Phil Spector. Se si eccettua la deludente colonna sonora del film “Wonderwall” composta nel 1968, si tratta del primo vero lavoro da solista dell’ex Beatle. I commenti della critica sono entusiastici. «Dimenticate i Beatles, ascoltate George!» scrive Melody Maker. La foto di copertina è uno sberleffo per i suoi ex compagni. Harrison appare seduto in mezzo a un prato circondato da quattro gnomi di gesso (i Beatles?) che lo guardano. Nei primi due dei tre dischi contenuti nell'album è raccolta la produzione accumulata negli ultimi anni di contrastata vita dei Beatles. Il terzo invece è interamente dedicato a una narcisistica session con vari musicisti, da Eric Clapton a Dave Mason, a Ringo Starr e Jim Gordon che la leggenda vuole si sia svolta sotto l’effetto di droghe. È una sorta di bonus di cui non si sentiva il bisogno anche se nessuno ha il coraggio di dirlo apertamente. Gli altri due dischi del triplo album, però, sono davvero una sorta di parco delle meraviglie, a partire dal brano d'apertura, I'd have you anytime, il cui testo è stato scritto da Bob Dylan. Canzoni dolenti e colme d'emozione come Isn't it a pity si alternano ad altre scanzonate e ricche di allegria come Wah wah, che sempre la leggenda vuole sia stata scritta per sbeffeggiare Paul McCartney. Nell'album c'è anche la famosa My sweet Lord, che verrà pubblicata anche in singolo, conquisterà le classifiche di tutto il mondo, ma regalerà a George Harrison una condanna per plagio.

25 novembre, 2017

26 novembre 1955 – Lascia o raddoppia? L’Italia è un quiz

Dopo una puntata di prova trasmessa il sabato precedente, giovedì 26 novembre 1955 alle ore 21.05 va in onda sugli schermi televisivi di tutt’Italia la prima puntata di “Lascia o raddoppia?”, telequiz settimanale liberamente ispirato al programma televisivo statunitense “The 64 thousand dollar question”, presentato da Mike Bongiorno e destinato a durare fino al 1959. La regia è di Romolo Siena e la valletta è Maria Giovannini, Miss Roma, che verrà sostituita dopo qualche puntata da Edy Campagnoli. Il notaio, che sovrintende alla regolarità del gioco si chiama Niccolò Livreri. Ogni concorrente parte da una quota di duemila e cinquecento lire e la cifra può salire, attraverso un meccanismo di progressivi “raddoppi” fino al premio massimo di cinque milioni e centoventimila lire. I concorrenti hanno trenta secondi per rispondere alle domande di Mike Bongiorno e i più sfortunati vengono ricompensati con un premio di consolazione di quarantamila lire. Il programma, seguitissimo, entrerà nella storia della televisione e i partecipanti acquisteranno, grazie alle loro performance sul teleschermo, grande notorietà. Il suo successo cambia le abitudini degli italiani e porta la televisione al centro della vita sociale al punto che anche nelle sale cinematografiche il giovedì sera si sceglie di sospendere le proiezioni e di allestire speciali salette con la televisione per consentire agli spettatori di guardarsi “Lascia o raddoppia?”. È l’inizio di una vera e propria rivoluzione. Il quiz televisivo diventa un punto d’incontro per dialoghi, discussioni e anche liti. Le domande, le risposte, le gaffe di Mike Bongiorno e lo stesso atteggiamento dei protagonisti vengono vivisezionati, analizzati e commentati nelle chiacchiere nei bar, nei quartieri, nei caseggiati e sui mezzi pubblici.

25 novembre 1976 – L’ultimo valzer della Band

Il 25 novembre 1976 la Band di Robbie Robertson tiene al Winterland di San Francisco il suo concerto d’addio. Per l’occasione il gruppo decide di fare le cose in grande. Mentre l’impresario Bill Graham offre tacchino e pane azzimo agli spettatori, quasi si trattasse di una veglia religiosa, davanti alla cinepresa di Martin Scorsese si svolge un avvenimento eccezionale, immortalato dal film “The last waltz” e dall’album omonimo. Con la Band si alternano sul palco, nel corso di un lunghissimo concerto, Paul Butterfield, Bobby Charles, Eric Clapton, Neil Diamond, Bob Dylan, Ronnie Hawkins, Dr. John, Muddy Waters, Stephen Stills, Joni Mitchell, Van Morrison, Ringo Starr, Ron Wood e Neil Young. È il saluto del mondo del rock a uno dei gruppi più significativi di quel periodo. Affermatisi come gruppo d’accompagnamento di Bob Dylan, riescono successivamente a emanciparsi e a costruirsi una posizione autonoma circondati da un rispetto inusuale per l’ambiente. Greil Marcus così parla di loro nel suo libro “Mistery train”: «…contro le tendenze e gli stili degli anni Sessanta loro cercano le tradizioni… la loro posizione è quella di un gruppo che rifiuta la scena pop fatta di mode effimere. Sono solidi lavoratori con anni di gavetta alle spalle». Parole che vengono confermate dalla polemica innescata dal leader del gruppo Robbie Robertson nei confronti di un giornalista che accusa la Band di rincorrere sonorità più adatte ai cantautori che a un gruppo: «Vedi, amico, io sono fatto a modo mio. Voglio scrivere e cantare soltanto cose vere e che hanno un peso reale. Per questo preferisco rifarmi ai contadini che si univano ai sindacati durante la depressione che a te che vai a San Francisco a metterti un fiore fra i capelli». Le loro canzoni raccontano storie, sensazioni, paesaggi e sentimenti filtrati attraverso gli occhi delle classi subalterne, della gente semplice. La serata al Winterland sarà davvero l’ultima del gruppo. I componenti prendono strade diverse e non torneranno più sui loro passi anche se non mancheranno riunioni occasionali come quella del 1990, senza Robertson, in “The wall” nella Potzdamer Platz di Berlino.

24 novembre, 2017

24 novembre 1928 – Giuseppe Sboto, il romano innamorato del jazz

Il 24 novembre 1928 nasce a Roma il vibrafonista e pianista Giuseppe "Puccio" Sboto, una delle più singolari figure del jazz italiano, irregolare nell'impegno, ma fondamentale nella formazione di una lunga serie di giovani musicisti come, tra gli altri, Bruno Biriaco, Riccardo Del Fra, Nicola Stilo, Danilo Rea e Francesco Puglisi. Nel 1934, quando non ha ancora compiuto sei anni, inizia studiare pianoforte classico incoraggiato dai genitori. Che la carriera del concertista non faccia per lui appare evidente quando, a quattordici anni, dopo aver ascoltato Gorni Kramer decide di passare provvisoriamente a un'altra tastiera, quella della fisarmonica. Nell'immediato dopoguerra è uno dei protagonisti del grande fermento jazzistico della capitale. Memorabili restano le sue jam session con Carletto Loffredo, Enzo Grillini, Umberto Cesari, Franco Mingrino e i fratelli Letteri. Volubile e poco incline a lasciarsi coinvolgere da "impegni fissi" soltanto nel 1956 accetta di entrare in pianta stabile nella Roman New Orleans Jazz Band con la quale partecipa anche a due edizioni del Festival Mondiale della Gioventù (Mosca e Vienna). Dal 1960 al 1963 è uno dei componenti della Modern Jazz Gang. Successivamente il suo nome ricompare qua e là accanto a personaggi come Gato Barbieri, Don Byas e tanti altri, pur senza cercare riferimenti fissi. Per tutta la sua vita si comporta come un musicista innamorato più del jazz che della carriera. Le apparizioni discografiche, tutte di altissima qualità, sono discontinue e irregolari. Tracce del suo lavoro appaiono, oltre che nei dischi delle orchestre già citate, anche in varie incisioni del quartetto di Mario Cantini o di musicisti come Gianni Sanjust, Marcello Riccio, Carletto Loffredo, Mario Schiano e molti altri. In più sembra divertirsi a spaziare tra i generi, dal mainstream moderno all'hard bop, senza curarsi troppo di seguire un percorso logico. Negli anni Settanta, quando tutti lo danno per scomparso, riemerge improvvisamente a capo di varie formazioni di giovanissimi musicisti. Lo fa per scelta perché crede nelle possibilità di liberare il jazz italiano dalle ruggini del periodo semiclandestino degli anni del fascismo e da un dopoguerra un po' troppo condizionato dagli influssi d'oltreoceano. Esemplare in questo senso resta il suo apporto, non solo musicale, a un gruppo di svolta come quello formato da Mauro Zazzerini, Danilo Rea, Piero Cardarelli e Lucio Turco. Muore nel 2017.

22 novembre, 2017

23 novembre 1950 - Richard Raux: la musica non è solo l'America

Il 23 novembre 1950 nasce il sassofonista Richard Raux. Creolo, passa l'infanzia nel Madagascar, un luogo dove la musica si abbevera alle tradizioni africane, indiane e cinesi. Questa ricchezza sonora dominata dal ritmo influenzerà tutta la sua ispirazione come e più dei dischi di Parker e di Coltrane. A tredici anni è il batterista della migliore orchestra malgascia di jazz, diretta da Jeannot Rabéson, ma il suo sogno è quello di imparare a suonare il sassofono. Si mette di impegno e ce la fa. Frequenta per due anni i corsi di sassofono e composizione al conservatorio (anche se in epoche successive si farà passare per un autodidatta) e alla fine degli anni Sessanta è a Parigi dove si esibisce in un trio al Gill's Club e successivamente suona nei Magma, la formazione di Christian Vander. Non rinuncia, però, a qualche esperienza in proprio come gli Stuff, una band di cui fanno parte, oltre a Vander, Paco Charleri e Claude Engel. Entrerà poi nel progetto Faarmadin poi negli Hamsa e poi in tanti altri progetti che si muoveranno verso il suo obiettivo: liberare la musica jazz dal peccato originale dell'influenza statunitense. Negli anni Settanta così spiega i suoi progetti: «Vorrei dare al pubblico l'equivalente della soul music, ma nel senso più universale, non solo ristretta all'anima nera americana». Nel suo sogno musicale c'è spazio per l'Africa e l'oriente e soprattutto per le suggestioni della musica indiana che si sforza di rendere comprensibile al grande pubblico. Ecco perché ama Shepp ma esprime riserve sul free jazz il cui tempo irregolare non lo convince affatto.


22 novembre 1950 – Miami Little Steven: il rock è motivazione

Il 22 novembre 1950 nasce a New York "Miami" Little Steven, all'anagrafe Steven Van Zandt, il chitarrista considerato per anni la spalla ideale del Boss Bruce Springsteen. Nonostante sia stato fondamentale per l'allargamento della sua popolarità, il rapporto professionale con Springsteen ha finito, però, per condizionare, non sempre positivamente, la sua carriera. Little Steven muove i primi passi musicali sotto la guida del nonno, l'italoamericano Sam Lento, che gli insegna i segreti della chitarra sulle note dei ritornelli popolari calabresi. La sua formazione musicale si alimenta al calore del rhythm and blues di Gary Davis e Robert Johnson oltre che al jazz tradizionale di Louis Armstrong. A soli quindici anni diventa il cantante e chitarrista degli Shadows, un gruppo del New Jersey da non confondere con la più illustre e omonima band britannica. Un anno d'esperienza gli basta per sentirsi finalmente pronto a formare un proprio gruppo, The Source. Sono gli anni della grande mobilitazione contro la guerra nel Vietnam e Little Steven con la sua band è tra i protagonisti di lunghe kermesse musicali sull'argomento. Suona dovunque, anche se la sua tana è lo Stone Pony, un locale di Asbury Park. Nel 1974 entra a far parte dei Southside Johnny & The Asbury Jukes il gruppo di "Southside" Johnny Lyon. L'anno dopo incontra Bruce Springsteen, artista che ammira da tempo, che lo chiama a far parte della sua E Street Band, in quel periodo impegnata a completare la registrazione dell'album Born to run. Resterà con il Boss per nove anni consecutivi, senza rinunciare però a qualche esperienza per conto suo, prima con gli Asbury Dukes e poi con i Disciples of Soul. Il suo impegno sociale e, soprattutto, la voglia di sperimentarsi senza l'ingombrante presenza di Springsteen lo portano a separarsi amichevolmente dal Boss nel 1984. «Il rock non è intrattenimento, è motivazione». Per questo lui farà sul serio. Pubblicherà album come Freedom no compromise, caratterizzato da un deciso impegno sociale in difesa delle popolazioni oppresse del Sud America e del Sud Africa, ma si mobiliterà anche in progetti più ampi come la registrazione, con decine di stars tra cui lo stesso Springsteen, di Sun City, un brano contro l'apartheid sudafricano. La separazione dal Boss non sarà definitiva. Dopo una lunga serie di "incontri casuali" alla fine degli anni Novanta i due torneranno a esibirsi insieme.


21 novembre, 2017

21 novembre 1987 – T'Pau, la band dal nome vulcaniano

Il 21 novembre 1987 arriva al vertice della classifica dei singoli più venduti in Gran Bretagna China in your hand. Il brano rappresenta la definitiva conferma del successo commerciale dei T'Pau, una band che ha poco più di un anno di vita e che ha ispirato il suo nome a quello di una principessa vulcaniana della serie televisiva "Star Trek". Pur essendo di fresca costituzione il gruppo è composto da una serie di navigati musicisti con una lunga esperienza: la più "vecchia" è la trentenne cantante Carol Decker, ma gli altri non scendono sotto i venticinque anni. Al momento della sua nascita la formazione comprende, infatti, il bassista Paul Jackson, il tastierista Michael Chetwood, il batterista Tim Burgess e i chitarristi Ronnie Rogers e Taj Wyzgowski, quest'ultimo sostituito dopo qualche mese da Dean Howard. L'idea originaria è quella di formare una band che consenta loro di divertirsi suonando la musica che più amano, ma di non rinunciare alla possibilità di guadagnare anche qualche soldo in più. I risultati vanno al di là delle più rosee previsioni. Dopo un paio di singoli passati inosservati i T'Pau diventano una delle band-rivelazione del 1987 grazie al successo del singolo China in your hand e, soprattutto, dell'album Bridge of spies. L'improvviso e un po' imprevisto successo spinge la loro casa discografica a tentare il lancio della band anche negli Stati Uniti dove l'album, pubblicato con il titolo inspiegabilmente cambiato in T'Pau, pur entrando nella classifica dei dischi più venduti, non ripete i trionfi britannici. Meglio va al singolo Heart and soul, ma complessivamente si ha l'impressione che la loro musica non sia fatta per gli States. A dispetto di chi prevede una lunga carriera di successi, i T'Pau, dopo la pubblicazione del secondo album Rage, fortunato almeno quanto il primo, e di una terna di singoli, scompaiono praticamente nel nulla. Il silenzio discografico durerà per ben tre anni e, nel 1991, il ritorno in sala di registrazione delude le attese. Il loro terzo album The promise, infatti, appare stancamente ripetitivo e privo della freschezza che caratterizzava le loro precedenti registrazioni, viene stroncato dalla critica e ignorato dal pubblico. Pochi mesi dopo i T'Pau si sciolgono. Nel 1993 si parlerà ancora di loro quando verrà pubblicato l'antologico Heart and soul - The very best of T'Pau, con alcuni brani registrati dal vivo all'Hammersmith di Londra nel mese di marzo del 1988.

20 novembre, 2017

20 novembre 1997 - Tito Puente in paradiso

Il 20 novembre 1997 Tito Puente, detto anche "l'imperatore del mambo", ha la soddisfazione di vedere il suo nome inserito nella Hall of Fame del Jazz, una sorta di paradiso delle celebrità accanto a personaggi come Nat King Cole, Miles Davis, Ray Charles e tanti altri. Il vecchio leone è commosso, ma non lo dà a vedere, anzi finge una maschera da duro che non gli è propria: «La mia è una generazione che ne ha viste tante da non stupirsi più di nulla». Figlio di emigrati portoricani, non ha mai nascosto le sue umili origini: «Rivendico il fatto di essere nato nel Barrio di New York, un posto dove si passava indifferentemente dal jazz alla musica latina. Per questo amo entrambi i generi senza distinzioni. Il mambo è la somma dei due e io, quando me lo posso permettere, tengo i piedi in… due orchestre». L'inserimento nella Hall of Fame del Jazz è un riconoscimento ufficiale per il musicista che ha il merito di aver arricchito dei ritmi latino-americani il jazz orchestrale e uno schiaffo per chi periodicamente lo descrive come un artista in declino. Come accade nei primi anni Sessanta quando il mambo sembra diventare un cimelio da museo, roba buona solo per le nostalgie dei poveri latino-americani. Lui non si arrende. Continua a comporre brani e a suonare con piccole orchestre nelle feste di battesimo e nei matrimoni della comunità latina di New York. Torna alla ribalta quando Carlos Santana porta al successo due suoi brani, Oye como va e Para los rumberos, realizzando una nuova sintesi tra il rock e le musiche del Caribe. È l'inizio della rinascita che, questa volta, sarà definitiva. Muore a New York, il 31 maggio 2000.

18 novembre, 2017

19 novembre 2001 – Gli Zen dal web a "Pornstar"

Il 19 novembre 2001 la casa discografica High Tuned Records pubblica Pornstar, il primo album degli Zen, una band romana divenuta in poco tempo popolarissima senza avere ancora pubblicato un disco. La storia inizia nel 1998 quando quattro amici dell’hinterland di Roma formano un gruppo cui danno, appunto, il nome di Zen. Dopo un paio d’anni di gavetta fra Roma e dintorni, si iscrivono più per scherzo che per reale convinzione all’edizione di Emergenza Festival del 2000. Man mano che le esibizioni si susseguono gli Zen prendono sempre maggiore confidenza con il palco e attirano la simpatia del pubblico. L’avventura finisce la vittoria nella finale del festival a Roma. Ormai ci hanno preso gusto. Per questo nell’agosto dello stesso anno partecipano all’annuale Taubertal Open Air Festival, una rassegna che si svolge nella deliziosa città medioevale tedesca di Rothenburg. In quell’edizione condividono lo stage con band come No Fun At All, Oomph! e Guano Apes. Nel settembre del 2000 suonano a Parigi insieme ai tedeschi Emil Bulls. Sempre in quel periodo, gli Zen incidono alcuni provini che promuovono via web attraverso il proprio sito e altri specializzati. È proprio il web a trasformarli in una sorta di fenomeno mediatico. In poche settimane il loro brano (This’s) the end of the world viene scaricato da centinaia di ragazzi da tutta Europa e la loro popolarità cresce in maniera esponenziale. La stessa High Tuned Records, dopo aver ascoltato il brano in rete, decide di scritturarli per il loro album d’esordio. Pornstar segna l’inizio di una bella avventura. Pochi mesi dopo gli Zen vinceranno Sanremo Rock & Trend.



18 novembre 1965 – Lou Black, il banjoista che non amava i viaggi

Il 18 novembre 1965 muore a Rock Island, nell’Illinois, il banjoista Lou Black. Ha sessantaquattro anni e da qualche giorno è ricoverato in ospedale dopo aver riportato gravi ferite in un incidente stradale. La causa della morte è da ricercare in una serie di complicazioni cardiache. Finisce così la carriera musicale di Lou o, per essere precisi, di Louis Thomas Black, come risulta dal registro anagrafico della stessa Rock Island, dove è nato. La sua storia musicale inizia nel 1919 quando, dopo aver imparato praticamente da solo a suonare il banjo, accompagna il pianista Carlisle Evans sull'S.S. Capitol, un vaporetto che ospita pochi turisti e tante sale gioco. Lascia l'instabile palcoscenico nel 1921 per entrare a far parte dei New Orleans Rhythm Kings che, in quel periodo, sono impegnati stabilmente con un lungo contratto al Friars’ Inn di Chicago. L'anno dopo, sempre insieme alla stessa band registra vari brani destinati a essere pubblicati in dischi che recano sull'etichetta la dicitura: Friars Society Orchestra. Il suo apporto si fa sentire in particolare nel corso della seduta di registrazione che si svolge il 20 agosto 1922 durante la quale la band esegue due brani leggendari come Tiger Rag e Panama esaltando gli assoli del clarinettista Leon Rappolo, vera e propria star di giornata. Anni dopo più di un critico rileverà come la geniale e ispirata esecuzione di Rappolo sia ampiamente debitrice all'apporto ritmico-armonico del banjo di Lou Black. La sua avventura con i New Orleans Rhythm Kings finisce nel 1923 quando entra a far parte degli Original Memphis Melody Boys di Elmer Schoebel. Il suo stile, fatto di leggerezza e senso del ritmo, piace a Schoebel che lo vuole anche nelle formazioni della Chicago Blues Dance Orchestra e della Midway Garden Orchestra. Nel 1924, colto da improvvisa nostalgia, ritorna al fianco di Carlisle Evans. Lou, però, è stanco di vagabondare e cerca un impiego fisso o qualcosa che gli assomigli. Lo trova nel 1925 quando viene scritturato dall’orchestra della stazione radio WHO di Des Moines nell'Iowa. Ci resta fino al 1931 quando decide di lasciare la musica. Non è un addio definitivo. Periodicamente accetta qualche rimpatriata con i suoi vecchi compagni. Memorabili restano le sue esibizioni a nel 1961 e nel 1963 a Moline, in Illinois. Pochi giorni prima di morire smentisce le voci che lo vogliono alla vigilia di un rientro sulle scene a tempo pieno.

17 novembre, 2017

17 novembre 1962 - Rita Pavone nel pallone

Il 17 novembre 1962 arriva al primo posto della classifica italiana dei dischi più venduti una canzone destinata a diventare una sorta di longseller senza età. Il brano si intitola La partita di pallone. Ne sono autori Carlo Alberto Rossi ed Edoardo Vianello e non è neppure una novità, visto che qualche tempo prima è stato inciso da Cocky Mazzetti senza risultati apprezzabili. Se la canzone è la stessa, cosa è cambiato? Tutto. Per prima l'interprete. Al posto dell'urlatrice melodica Cocky Mazzetti c'è Rita Pavone, una scatenata e lentigginosa diciassettenne torinese dalla voce esplosiva scoperta da Teddy Reno al Festival degli Sconosciuti di Ariccia. La RCA italiana, intenzionata a catturare il pubblico degli adolescenti, capisce fin dal primo momento che la ragazza può rompere gli schemi che fino ad allora hanno caratterizzato la presenza femminile nella canzone italiana e si adegua. Il secondo elemento di novità, funzionale al primo, è l'arrangiamento del brano affidato a Luis Enriquez Bacalov e costruito apposta per far suonare il disco a volume altissimo nei juke box. L'intenzione è esplicita fin dai quattro colpi di cassa che ne costituiscono l'avvio. Il livello della registrazione, superiore di quasi quattro volte alla norma, fa il resto. Quando viene gettonato nei juke box il brano non può non essere notato. In pochi giorni il disco vende più di un milione di copie e Rita Pavone diventa una star grazie anche al fatto che viene scelta, insieme a Gianni Morandi, come conduttrice di "Alta pressione", il primo programma televisivo scritto e pensato per gli adolescenti.

16 novembre, 2017

16 novembre 1956 - Arriva "Love me tender", in italiano "Fratelli rivali"

Il 16 novembre 1956 viene distribuito nelle sale cinematografiche statunitensi il primo film di Elvis Presley, "Love me tender", che verrà esportato anche in Italia con il sorprendente titolo di "Fratelli rivali". Il lungometraggio segna il debutto sul grande schermo del ragazzone bianco amato dalle teen-ager che ha saputo addomesticare il rock and roll. Artefice dell'incontro di Elvis con il cinema è stato Hal Wallis, il magnate che l'anno prima l'ha convinto a firmare un sostanzioso contratto con la 20th Century Fox. Con la tipica programmazione hollywoodiana nulla è stato lasciato al caso. Anticipazioni e scandaletti inventati dagli abili uffici stampa hanno costellato le cronache per tutta la lavorazione dei film. Molto tempo prima della sua uscita nelle sale nella centralissima Times Square di New York è stata collocata una sagoma bianca alta più di quindici metri con un enorme punto interrogativo al centro. Giorno dopo giorno sono stati aggiunti i contorni, poi lo sfondo e, infine, l'immagine di Elvis. Le cronache riportano che nel giorno in cui l'immagine del cantante è stata collocata al centro della sagoma il traffico è rimasto bloccato a lungo da un numero crescente di giovani fans entusiasti. Anche l'improbabile diventa vero nel lancio di quello che viene presentato come l'evento cinematografico dell'anno. Una volta preparato il terreno la Fox provvede a stampare un numero record di copie della pellicola in modo da poter invadere tutti i principali cinema degli Stati Uniti. Il risultato è all'altezza delle aspettative: in tre giorni di programmazione il fílm copre le spese d'incasso. La storia, d'ambientazione western, racconta le vicende di due fratelli innamorati della stessa ragazza alla fine della Guerra di Secessione. Probabilmente, senza la presenza di Elvis Presley, il film non avrebbe retto neppure un giorno di programmazione. Ma Elvis c'è e questo ai suoi fans basta. Quel 16 novembre 1956 segna l'inizio del cosiddetto "Presley business", una vera e propria organizzazione commerciale che nasce per sfruttare al meglio il fenomeno di massa. Magliette, jeans, pupazzi, giubbotti, stivali, cuscini e altri getti trovano spazio sul mercato grazie all'immagine del cantante. Sul piano musicale il film rappresenta un passo in più verso la definitiva normalizzazione del (ribelle?) Elvis Presley che, nonostante la forza della canzone che dà il titolo al film, appare sdolcinato e sempre più uguale ai tradizionali interpreti bianchi di country.


15 novembre, 2017

15 novembre 1913 – Gus Johnson, il batterista prodigio

Il 15 novembre 1913 nasce a Tyler, nel Texas, il batterista Gus Johnson. Ha ancora i calzoncini corti quando, viste le sue inclinazioni musicali, la famiglia vorrebbe farne un concertista di pianoforte, ma il bambino ha già altre idee. Alle noiose ore di studio dietro la tastiera preferisce la dirompente semplicità delle strutture ritmiche. Appena può si dedica allo studio di basso e batteria. È soprattutto quest'ultima a solleticare la sua curiosità. Ben presto anche la sua famiglia si deve arrendere all'evidenza, soprattutto dopo averlo visto all'opera al Lincoln Theatre di Houston. È il 1923 e il piccolo Gus Johnson ha soltanto dieci anni ma percuote rullanti, tamburi e piatti con il piglio del professionista consumato. La popolarità del batterista prodigio si allarga finché nessuno fa più caso alla sua età, tanto che nel 1925 il dodicenne Johnson suona con i McDavid’s Blue Rhythm Boys. Negli anni successivi lo si ritrova con le band di alcuni dei personaggi più significativi di quel periodo come Lloyd Hunter o Ernest "Speck" Redd. Nel 1938 viene scritturato a Kansas City dalla grande e popolarissima orchestra di Jay Mc Shann, con la quale rimane fino al 1943, anno in cui gli Stati Uniti gli mettono una divisa e lo mandano a combattere nella Seconda Guerra Mondiale. Due anni dopo torna alla vita civile e cerca di ritessere i contatti con l'ambiente musicale. Per la verità non deve faticare molto per trovare il primo ingaggio da parte della band di Jesse Miller. Nel 1947 suona nell’ultima grande orchestra di Earl Hines e, successivamente, con Cootie Williams. A partire dal 1949 diventa il batterista preferito di Count Basie che lo vuole con sé sia nella sua big band che nei gruppi più ristretti. Il sodalizio con Basie dura un quinquennio, poi se ne va, deciso a lavorare come indipendente sulla piazza di New York. Varie esperienze in studio precedono il suo ritorno dal vivo. Dopo una breve collaborazione con Lena Horne, nel 1957 accetta le offerte di Ella Fitzgerald con la quale resta per un paio d'anni. Nel 1959 è il batterista dell’orchestra di Woody Herman, ma anche questa esperienza non durerà più di un anno. Orgoglioso della sua indipendenza preferisce il lavoro in studio di registrazione ai ritmi forzati delle tournée. Dopo aver suonato con Gerry Mulligan alla fine degli anni Sessanta è uno dei protagonisti della World’s Greatest Jazz Band. Nel 1974 se ne andrà a Denver ma non terrà mai completamente fede ai ripetuti annunci di ritiro dalle scene.


14 novembre, 2017

14 novembre 1970 - L'irrequieto Ian Matthews al vertice delle classifiche di vendita

Il 14 novembre 1970 al vertice della classifica britannica arriva Woodstock, un suggestivo brano scritto da Joni Mitchell. Non lo interpreta la sua autrice, ma una band fino a quel momento sconosciuta che risponde al nome di Matthew's Southern Comfort. Dietro alla sigla c'è l'irrequieto Ian Matthews che ha appena lasciato i Fairport Convention per debuttare come solista. La band è nata quasi per caso assemblando i musicisti che hanno lavorato con lui alla registrazione del suo primo album: il chitarrista Mark Griffiths, il chitarrista Carl Barnwell, il bassista Andy Leigh, il batterista Ray Duffy e il percussionista Gordon Huntley. L'inaspettato successo di Woodstock lo convince a rinviare per un po' i progetti solistici e a dare continuità al lavoro di gruppo. Quando se ne andrà i suoi compagni, diventati semplicemente Southern Comfort, andranno avanti per conto loro fino al 1972 pubblicando ben tre album: Southern Comfort, Frog city e Stir don't shake. La carriera solistica di Ian Matthews, invece, non sarà accompagnata da troppa fortuna tanto che, dopo due album di scarso successo, il ragazzo cambierà idea e formerà una nuova band, i Plaisong, insieme ai tre chitarristi Dave Richards, Andy Roberts e Bobby Ronga. Scontento e deluso anche da questa esperienza continuerà da solo per il resto degli anni Settanta. All'inizio del decennio successivo una controversia legale con la casa discografica Mushroom lo costringerà a un forzato periodo di silenzio discografico, durante il quale lavorerà al Dipartimento Arte e Repertorio della Island di Los Angeles.

12 novembre, 2017

13 novembre 2000 - "One" dei Beatles? Un affare commerciale

Dopo molte anticipazioni e annunci il 13 novembre 2000 esce One, l'antologia dei successi dei Beatles che, come recita il comunicato stampa della EMI, «riunisce i loro ventisette singoli numeri uno in classifica». Si completa così una grande operazione di marketing iniziata con il volume dell'autobiografia "ufficiale". L'album, che schizza rapidamente i vertici delle classifiche di vendita in moltissimi paesi, punta chiaramente a strappare a Thriller di Michael Jackson il record del "disco più venduto di tutti i tempi". In realtà One non aggiunge niente di nuovo alla leggenda dei Fab Four, anche se i brani sono conosciuti, belli e rimasterizzati con cura. In più, a dispetto dei comunicati stampa, il disco non raccoglie davvero «tutti i singoli arrivati al primo posto in classifica». Nella track list infatti c'è da rilevare l'assenza, apparentemente inspiegabile, di Rain e Strawberry fields forever. In realtà una ragione c'è ed è spiegabilissima: l'intera operazione è stata accuratamente studiata a tavolino per arrivare al vertice delle classifiche e tentare il record. In breve: con ventisette brani si arriva al limite della capienza di un normale compact disc. Con l'inserimento dei due brani mancanti l'album avrebbe dovuto essere sdoppiato in due Cd e il maggior costo di vendita avrebbe reso impossibile l'assalto al record di "disco più venduto di tutti i tempi". Si è perciò preferito una sorta di "falso storico" di successo a un'antologia corretta, ma non da record. Nonostante tutto però One un modesto valore aggiunto ce l'ha: contiene le famose foto di John, Paul, George e Ringo scattate da Richard Avedon. Per chi s'accontenta...

12 novembre 1988 – Wild Wild West

Il 12 novembre 1988 al vertice della classifica statunitense dei dischi più venduti c’è il brano Wild wild west realizzato da una band britannica poco conosciuta al grande pubblico. Sono gli Escape Club e sono stati formati a Londra cinque anni prima dal cantante Trevor Steel, dal chitarrista John Holliday, dal bassista Johnnie Christo e dal batterista Milan Zekavica. Agli inizi della loro storia i quattro non se la passano benissimo. Come molti altri suonano nei locali e sognano di diventare famosi con i dischi. Le prime esperienze in sala di registrazione avvengono tra le accoglienti ma poco significative mura di un'etichetta indipendente che pubblica il loro primo singolo destinato a restare una sorta di demo. Va meglio il passo successivo quando il secondo singolo Rescue me e l'album White fields riescono a trovare spazio nella ristretta cerchia degli appassionati e portano in regalo l’inserimento degli Escape Club in qualche elenco dei i gruppi - rivelazione del momento elaborato dalle riviste di nicchia. Pur apprezzati sembrano destinati a una tranquilla carriera nei club e in qualche concerto senza grandi exploit né sul piano commerciale né su quello della popolarità planetaria. Quando non se l’aspettano più arriva la svolta. Nel corso di un’esibizione vengono notati da Chris Kinsey, un produttore che ha all’attivo, tra gli altri, alcune cose dei Rolling Stones, di Peter Frampton e degli Psychedelic Furs. Kinsey capisce che i ragazzi hanno qualità da vendere e li convince a mollare gli stretti confini della Gran Bretagna per attraversare l’oceano. Profondo conoscitore del grande business degli States li segue con cura nella realizzazione dell’album che dovrebbe segnare l’inizio del grande successo. Il risultato è all’altezza delle aspettative. La canzone Wild wild west si piazza al vertice della classifica dei dischi più venduti seguita dall'album omonimo che fa faville nei negozi. Osannati dal pubblico e trattati con garbo dalla critica gli Escape Club non manterranno le promesse. Wild wild west resterà un episodio isolato. Tre anni dopo, nel 1991 l’album Dollars and sex verrà accolto piuttosto freddamente nonostante il discreto successo di vendita del singolo I'll be There.

11 novembre, 2017

11 novembre 1944 - Jesse Colin Young, l’anima e il cuore degli Youngbloods

L’11 novembre 1944 nasce a New York Jesse Colin Young, registrato all’anagrafe con il nome di Perry Miller, l’anima e il cuore degli Youngbloods, uno dei gruppi più rappresentativi del folk-jazz della costa dell’Est statunitense. La sua avventura musicale muove i primi passi all’inizio degli anni Sessanta quando abbandona l'università per cantare, accompagnandosi con la chitarra, nei folk club. Nel 1964 pubblica il suo primo album, Soul of a city boy, seguito, l'anno dopo, da Youngblood, un titolo premonitore. Proprio nel 1965, infatti, Jesse conosce il chitarrista Jerry Corbitt con il quale forma, insieme al batterista di scuola jazz Joe Bauer, il primo nucleo degli Youngbloods. Il gruppo attira rapidamente l'attenzione di pubblico e critica grazie alla sua originale fusione di folk e jazz. La sua qualità artistica si fa ancora più solida e convincente dopo l’arrivo di un quarto componente, il chitarrista e tastierista “Banana” Lowell Levinger. Nel 1966 gli Youngbloods, ormai considerati una delle band più interessanti della East Coast, iniziano a lavorare alla registrazione del loro primo album. Il perfezionismo di Jesse e dei suoi compagni ritarda a lungo l’uscita del disco e solo all’inizio del 1967 vede la luce The Youngbloods, accompagnato dal singolo Grizzly bear. Pochi mesi dopo viene messo sul mercato un secondo album, ma la band è ormai affascinata dai nuovi fermenti musicali e culturali che stanno attraversando l’intero panorama musicale statunitense. Lasciano New York, città che sentono stretta e troppo statica per potersi esprimere compiutamente, e se ne vanno a San Francisco. Qui gli Youngbloods perdono Jerry Corbitt, che tenterà senza grande fortuna la carriera di solista, e diventano un trio. Nel 1969 centrano il maggior successo commerciale della loro storia con una nuova versione di Get together, un brano già inserito nel loro primo album del 1967. Nonostante i buoni risultati il gruppo è ormai entrato in fase calante. A nulla serve l'inserimento in formazione del bassista Michael Kane. Gli Youngbloods si separano alla fine del 1971. L’ultimo album ufficiale, Good and dusty vede la luce dopo lo scioglimento della band. Jesse Colin Young continua come solista ma non rinuncia all’idea di riformare il gruppo. Ci riuscirà negli anni Ottanta, ma gli scarsi risultati lo convinceranno a lasciar perdere e a continuare da solo sulla sua strada.


09 novembre, 2017

10 novembre 1967 – Il blues doloroso di Ida Cox

Il 10 novembre 1967 muore a Knowille nel Tennessee, la città dove è nata settantadue anni prima, la cantante Ida Cox, una delle "grandi signore" del blues classico. Interprete profonda degli aspetti più dolorosi della musica afroamericana, dà voce alla tragicità della condizione di chi vive nei ghetti e nelle periferie delle grandi città del nord degli Stati Uniti. La sua Death letter blues resta nella storia del blues come una sorta di tragico rituale di dolore e di pena che più di tante parole riassume il lungo calvario dei neri d'America. Ida Cox, come Bessie Smith, Ma Rainey e tante altre signore del blues, quando canta parla di se stessa, delle difficili condizioni di un'infanzia e un'adolescenza da cui non si può uscire indenni. I successi non cancellano le tracce e le cicatrici, non solo spirituali, dei periodi difficili. La musica sembra un'ancora di salvezza per lei che ha pensato spesso di farla finita, anche se arriva troppo tardi per risparmiarle qualche umiliazione di troppo. Nel 1922, quando a Chicago registra una serie di classici per la Paramount che le regalano la popolarità e danno il via al periodo migliore della sua carriera, ha già superato i trent'anni. L'anno dopo entra nei leggendari Blues Serenaders di Lovie Austin. La sua voce commuove il mondo intero sulle note di brani struggenti come Graveyard dream blues o Worried mama blues e le dà la possibilità di buttare alle spalle i tempi difficili. Lei però non dimentica, non ce la fa a dimenticare. Il contrasto tra lo sfavillare delle luci dei grandi locali alla moda e la sua esperienza precedente la porta ben presto ad avere ricorrenti crisi di rigetto. Nelle sue canzoni parla con la morte, vista come una presenza liberatoria e tutt'altro che tragica. Nel 1929 rompe definitivamente con l'ambiente che la circonda. Insieme al pianista Jessie Crump, divenuto anche suo compagno di vita, organizza uno show ambulante che gira in tutti gli stati del Sud, i più vicini al grande padre Mississippi cui si rivolge spesso nelle sue canzoni. Il successo dell'iniziativa convince John Hammond a scritturarla per i suoi memorabili concerti newyorkesi intitolati "Dallo spiritual allo swing". Come accade alle altre "signore del blues" anche Ida verso gli anni Cinquanta decide di ritirarsi a vita privata nella sua casa di Knowille. Non torna più sul palcoscenico e raramente accetta di entrare in sala d'incisione fino alla morte che arriva il 10 novembre 1967.

08 novembre, 2017

9 novembre 1968 - Aphrodite's Child, tre greci al vertice delle classifiche

Il 9 novembre 1968 per la prima volta nella breve storia della discografia italiana un brano interpretato da un gruppo greco arriva al vertice della classifica dei singoli. È Rain and tears degli Aphrodite's Child, un trio formato dal tastierista Evanghelos Papathanassiou, dal batterista Lucas Sideras e dal cantante e bassista Demis Roussos. La band nasce in quel di Parigi, città nella quale avrà per molto tempo la sua sede operativa. Nati formalmente nel 1968 trovano rapidamente un contratto discografico e in pochi mesi,passano dall'anonimato alla notorietà mondiale. Dopo un primo disco passato quasi inosservato dal titolo I want to live, infatti, centrano con Rain and tears il grande successo internazionale. La canzone, ricca di echi mediterranei e giocata sulla particolare vocalità di Demis Roussos, deve gran parte della sua efficacia all'arrangiamento di Papathanassiou, che attinge a piene mani al "Canone" dell'organista tedesco Johann Pachelbel. L'avventura della band continuerà per un paio d'anni con grandi successi, ma finirà per interrompersi a causa delle divergenti opinioni musicali dei componenti. Dopo lo scioglimento Demis Roussos continuerà come cantante solista sulla strada del pop raffinato con ottimi risultati, mentre Papathanassiou inizierà a percorrere le vie della ricerca strumentale con il nome di Vangelis e diventerà uno dei principali autori di colonne sonore del Novecento. Meno fortuna avrà il bassista Lucas Sideras. Dopo un primo pubblicizzatissimo album le sue tracce si confonderanno con quelle di migliaia di altri buoni musicisti di quel periodo.



07 novembre, 2017

8 novembre 1927 - Nasce Clara Ann, in arte Patti Page

L'8 novembre 1927 nasce in Oklahoma Clara Ann Fowler destinata a diventare con il nome di Patti Page, una delle cantanti pop statunitensi di maggior successo dell'epoca immediatamente precedente all'esplosione del rock and roll. Al contrario di altre stelle di quel periodo, però, non verrà travolta dalle nuove mode. Dotata di una voce calda e molto duttile si adatterà all'idea di non essere più un personaggio di copertina, continuerà a cantare mantenendo una buona popolarità fino alla fine degli anni Sessanta. Nata in una famiglia numerosa composta da undici tra fratelli e sorelle, passa i primi anni della sua vita a Tulsa prendendo lezioni di canto come si conviene in quegli anni alle signorine di buona famiglia. Pian piano il canto da obbligo diventa hobby e poi professione. La sua voce viene notata da un talent scout che le procura un contratto "di soccorso": deve sostituire per breve tempo la cantante che interpreta il ruolo di una ragazza che si chiama Patti Page nel Page Milk Company Show, un programma della stazione radio KTUL. La sostituzione momentanea diventa definitiva e il nome del personaggio anche. Da quel momento, siamo nel 1947, diventa per tutti Patti Page. Fino alla metà degli anni Cinquanta la sua voce imperversa in quasi tutti gli show radiofonici degli Stati Uniti. Nel 1955 anche la televisione le affida la conduzione triennale di un suo spettacolo mentre il cinema cerca di sfruttarne la popolarità con una partecipazione al film "Il figlio di Giuda". I tempi stanno, però, cambiando. Il rock irrompe sulla scena. Lei capisce che il suo momento migliore è ormai alle spalle e si adatta.


7 novembre 1987 – L'exploit di Tiffany, cantante bambina

Il 7 novembre 1987 torna al vertice della classifica dei singoli più venduti negli Stati Uniti I think we're alone now, un brano già portato al successo alla fine degli anni Sessanta da Tommy James & The Shondells, una delle band di punta della bubblegum music. L'interprete del fortunato remake è la sedicenne Tiffany, il cui nome completo all'anagrafe risulta Tiffany Renee Darwish. La critica musicale registra un po' distrattamente quella che sembra l'ennesima operazione di marketing musicale destinata a supportare una delle tante "cantanti bambine", metà bambole e metà Lolite, della storia del pop. In realtà il personaggio è più complesso delle solite protagoniste di fenomeni di questo tipo. Nata in una famiglia originaria dell'Oklahoma ma cresciuta a Norwalk in California, infatti, Tiffany inizia a studiare canto all'età di cinque anni. A nove si esibisce per la prima volta di fronte a un pubblico con il gruppo dei Country Hoedowners. L'attività di cantante sembra però destinata a restare un hobby nella sua vita. Gli studi e i giochi vengono prima di tutto il resto. Quasi per gioco quindi a dodici anni registra alcune canzoni su un nastro che viene ascoltato dal produttore George Tobin il quale, intuendo le capacità della ragazzina, decide di occuparsi di lei spronandola a migliorare le sue notevoli qualità vocali. Nel 1986 quando Tiffany viene scritturata dalla MCA Tobin chiede e ottiene di poter avere l'ultima parola nella scelta del repertorio. Inizia così un lungo braccio di ferro tra i discografici, intenzionati a lanciare rapidamente la "cantante bambina" e il suo produttore preoccupato di valorizzarne le qualità interpretative indipendentemente dall'età che più di una volta fa valere il diritto di veto. Ben quarantotto sono i brani registrati dalla ragazza prima di scegliere quelli destinati a comparire nel suo primo album. Dopo un anno di lavoro viene, quindi, pubblicato l'album Tiffany da cui verranno estratti tre singoli di successo: I think we're alone now, Could've been e I saw him standing there. Tiffany diventa così una delle rivelazioni della seconda metà degli anni Ottanta confermandosi anche l'anno successivo con l'album Hold and old friend's hand. Se la protezione di Tobin le ha evitato errori all'inizio della carriera, il raggiungimento della maggiore età non le porterà fortuna perché sarà costretta a un lunga disputa legale con il padre sull'uso e la disponibilità del denaro guadagnato negli anni precedenti.

05 novembre, 2017

5 novembre 1958 - Aiché Nanà e lo spogliarello del Rugantino

Il primo e più eclatante scandalo della cosiddetta "Dolce Vita" è lo spogliarello del Rugantino. La sera del 5 novembre 1958 per festeggiare il ventiquattresimo compleanno della contessa Olghina di Robilant, l’amico Peter Howard offre una cena a centocinquanta persone presso il ristorante ‘Rugantino’. All’appuntamento sono presenti molti protagonisti delle notti romane. È notte fonda quando Anita Ekberg, sorretta da un numero imprecisato di drink ad alta gradazione alcolica, si lancia in un cha-cha-cha caratterizzato da scivoloni e dalla difficoltà di coordinare il movimento delle gambe con il resto del corpo. Nell’atmosfera surriscaldata l’eccitazione dei presenti tocca il culmine quando la ballerina turca Aiché Nanà comincia a sfilarsi, uno dopo l’altro, i vestiti. Prima cade a terra l’abito, poi le calze, seguite dal reggiseno. Al momento dell’irruzione della polizia nel locale, la Nanà indossa ancora le mutandine. Tutti i presenti vengono identificati e molti finiscono la serata in questura. Nonostante alcune diffide poco convinte, molti giornali, a partire dall’Espresso, pubblicano le piccanti fotografie dell’esibizione, sia pur coperte nei punti strategici da macchie nere. Per l’episodio verranno rinviati a giudizio con l’accusa di atti osceni in luogo pubblico, oltre alla spogliarellista e al suo fidanzato Sergio Pastore, due principi, un marchese, tre musicisti dell’orchestra e il gestore del ristorante. L’Italia esce a passo di cha-cha-cha dagli anni Cinquanta.


6 novembre 1975 – L'impiegata stacca la spina ai Sex Pistols

Il 6 novembre 1975 nella sala concerti del St. Martin’s College of Art di Hornsey, una località a nord di Londra, è in programma un concerto di una giovane e sconosciuta band il cui nome ha già fatto sobbalzare gli austeri responsabili della scuola: Sex Pistols. È la prima volta che il gruppo formato da Johnny Rotten, Paul Cook, Steve Jones e Glen Matlock si esibisce in pubblico. Privi di qualunque conoscenza musicale sono stati assemblati in fretta e furia da Malcom McLaren, il proprietario del “Sex”, un centro di ritrovo di giovani anticonformisti della capitale britannica, anche lui alle prime armi come manager, se si eccettua un’esperienza di sei mesi con i New York Dolls. La loro confidenza con gli strumenti è del tutto approssimativa e il repertorio annunciato prevede vari brani “facili” di Small Faces e Who. Quando iniziano a suonare la sala concerti è invasa da un rumore impressionante, al limite del dolore per le orecchie dei presenti. La struttura musicale, poi, è inesistente: pochi giri di basso, ritmi tiratissimi con la batteria che sembra fuggire per conto suo, mentre la chitarra, distorta, ripete all’infinito gli accordi. La melodia non esiste o, meglio, è un lungo e lancinante urlo che accompagna la voce nasale di Johnny Rotten. I pochi ragazzi che assistono al concerto sono spaventati e affascinati al tempo stesso da quella mescola anarchica di suoni lanciati sulle loro teste. Non c’è tempo di riprendersi. I brani si susseguono con la velocità della luce. Dopo una, due, tre, quattro canzoni veloci, secche, inafferrabili, il rumore tocca l’apice, sottolineato dal tremore ossessivo delle vetrate, e invade l’intero edificio. Dall’inizio del concerto non sono passati più di dieci minuti quando un’impiegata dell’ufficio di segreteria della scuola decide che si sono passati tutti i limiti. Esce con passo deciso dal suo ufficio, entra nella sala concerti tenendo le mani ben premute sulle orecchie, s’infila dietro al palco e stacca la spina che alimenta l’impianto. «Voi siete pazzi! Vi prego di andarvene subito!» Finisce così il primo concerto di una band destinata a diventare il simbolo del punk britannico.


04 novembre, 2017

4 novembre 1928 – Larry Bunker tra piano, vibrafono e percussioni

Il 4 novembre 1928 a Long Beach, in California, nasce il vibrafonista, pianista e percussionista Larry Bunker, all’anagrafe Lawrence Benjamin Bunker, componente di quella singolare schiera di polistrumentisti che hanno fatto la fortuna degli studi di registrazione statunitensi. Fin dai primi anni di vita viene avviato agli studi musicali. Dopo una lunga pratica sugli strumenti a tastiera, in particolare la fisarmonica e il pianoforte, si innamora della batteria e di tutto ciò che si può percuotere. L'hobby della musica diventa professione nel 1948 quando il ventenne Larry viene scritturato da un settetto be-bop che si esibisce su uno dei battelli di linea che percorrono il corso del fiume Mississippi. Negli anni successivi sbarca il lunario in vari locali californiani come pianista. Nel 1951 decide di dedicarsi al vibrafono grazie alle insistenze del contrabbassista Howard Rumsey che lo vuole nella sua band. L'avventura continua poi con i sassofonisti Art Pepper e Georgie Auld. Alla fine del 1952 torna con Rumsey, ma ancora una volta l'esperienza è destinata a durare poche settimane. Nel gennaio del 1953 affianca il sassofonista Gerry Mulligan prima di accettare un posto fisso nell’orchestra di Bob Crosby. Instancabile vagabondo collezione una serie di presenze in alcuni tra i più importanti gruppi del periodo. La sua versatilità gli consente di passare indifferentemente dalla band del chitarrista Barney Kessel a quella del sassofonista Stan Getz. Nel 1955 sembra aver trovato la sua collocazione definitiva nel gruppo che accompagna la cantante Peggy Lee, ma non è così. Dopo cinque anni se ne va e, al termine di una lunghissima serie di collaborazioni, nel 1963 forma un trio con Clare Fischer al piano e Ralph Peña al contrabbasso. Il sodalizio si scioglie un anno dopo quando Larry se ne va prima in Europa con il pianista Bill Evans e poi in Australia per suonare nella band della cantante Judy Garland. Nel 1965 è sul palco del festival di Monterey accanto al trombettista Dizzy Gillespie, mentre nel 1966 è uno degli strumentisti che accompagnano in Giappone Stan Getz. Strumentista versatile non si accontenta della popolarità come vibrafonista negli ambienti jazz, ma continua anche a lavorare come percussionista, soprattutto in ambito accademico, partecipando anche a diversi concerti e sedute di incisione della Los Angeles Philarmonic diretta da Zubin Mehta. oltre a vari concerti con Pierre Boulez e con Michael Tilson Thomas. Muore l'8 marzo 2005.

03 novembre, 2017

3 novembre 1967 – Il primo singolo dei Fleetwood Mac

Il 3 novembre 1967 viene pubblicato un singolo dal titolo I believe my time ain't long. È firmato dai Peter Green's Fleetwood Mac, una band appena nata e praticamente sconosciuta ai più. Come molti altri gruppi del periodo nasce da una delle tante scissioni di quei Bluesbreakers di John Mayall divenuti con il tempo una palestra di strumentisti destinati a restare nella storia del rock. La compongono i chitarristi Peter Green e Jeremy Spencer, il batterista Mick Fleetwood e il bassista John McVie. Il disco segna l'inizio della storia di una delle band più longeve e turbolente del rock blues britannico. Ben presto il gruppo perde un pezzo del suo nome che diventa, più semplicemente, Fleetwood Mac. Nel 1968, dopo l'arrivo del chitarrista Danny Kirwan, i cinque ragazzi sono la prima band della storia a schierare tre chitarre soliste in formazione. Non è soltanto una curiosità, ma un cambiamento sostanziale. L'ingresso del diciannovenne Kirwan, infatti, determina un poderoso salto commerciale del gruppo. Alla fine dell'anno i Fleetwood Mac centrano con Albatross il loro primo grande successo di vendita che verrà ripubblicato più volte nel corso degli anni successivi. All'inizio degli anni Settanta la band sopravviverà anche all'abbandono di uno dei suoi "soci fondatori", Peter Green, che verrà sostituito da Christine Perfect, ex cantante dei Chicken Shack e futura moglie di John McVie. La forte personalità della ragazza caratterizzerà negli anni successivi la storia dei Fleetwood Mac. Dopo l'uscita di Green, infatti, il gruppo entrerà in una fase di generale riorganizzazione che culminerà nell'addio di un altro "socio fondatore", il chitarrista Jeremy Spencer, colto da una crisi mistica. La sua uscita, paradossalmente, sarà l'inizio di un nuovo salto di qualità nella band. Il vuoto riempito in un primo tempo da Bob Welch successivamente creerà le condizioni per l'ingresso in formazione di una giovane coppia non di primo pelo come Stevie Nicks e Lindsey Buckingham. Con loro i Fleetwood Mac perderanno parte delle caratteristiche più decisamente blues a favore di un'impostazione sempre più commerciale ed entreranno in una fase costellata da un lunga striscia di successi straordinari. I brani interpretati dalle voci di Christine Perfect McVie, Stevie Nicks e Lindsey Buckingham trasformeranno i Fleetwood Mac in una delle bands più vendute del mondo.



01 novembre, 2017

2 novembre 1984 – Tornano i Deep Purple

«Dopo tanti cambiamenti negli ultimi anni crediamo giusto chiudere la storia del gruppo in un momento di creatività piuttosto che aspettare gli inevitabili momenti bui». Così nel mese di luglio del 1976 Rob Cooksey, il manager dei Deep Purple, annunciava lo scioglimento ufficiale di una delle storiche band dell'hard rock. Pochi mesi dopo, quasi a sancire l'irrevocabilità della decisione, il chitarrista Tommy Bolin moriva d'overdose a Miami, dove era impegnato nella tournée del Jeff Beck Group. Come spesso accade la fine prematura di un gruppo fa si che il successo postumo tocchi vertici pari, se non superiori a quello di quando il gruppo era attivo. Un fatto simile accade ai Deep Purple che vedono schizzare al vertice della classifica dei dischi più venduti una lunga sequenza di riedizioni, integrazioni e inediti. Progressivamente si fa così spazio l'idea di un ritorno sulle scene della band nella formazione originale o meglio, visti i successivi cambiamenti, in quella che la critica considera "la migliore formazione della storia della band". Inizialmente i componenti reagiscono più scocciati che indignati all'idea, ma con il salire delle offerte economiche iniziano i primi cedimenti. Là dove non sono riuscite le mozioni d'affetto riesce un'offerta di svariati milioni di dollari. Alla fine la notizia è ufficiale: i Deep Purple si riformano nella formazione storica, quella che comprende Ritchie Blackmore, Ian Gillan, Roger Glover, Jon Lord e Ian Paice. Contrariamente alle previsioni l'annuncio non entusiasma i fans della prima ora, convinti che si tratti di un'operazione commerciale destinata a danneggiare la stessa immagine della band. Il 2 novembre 1984, quando tutti sono ormai rassegnati ad ascoltare il prodotto di un gruppo privo di mordente e riunitosi soltanto per soldi, vede la luce Perfect strangers, un album che smentisce i più pessimisti. I Deep Purple tornano sulle scene con un disco semplice e privo di effetti speciali che proprio per la sua modestia appare fresco e convincente. È l'inizio di un nuovo capitolo nella storia della band che finirà per sopravvivere a se stessa, a volte con ironia, come nell'album Nobody's perfect (Nessuno è perfetto), altre volte con maggior presunzione. Numerosi saranno i cambiamenti di formazione che finiranno, a volte, per togliere credibilità a una band che resta nella leggenda per la sua originale formula di hard rock.


1° novembre 1985 – I Big Audio Dynamite

Preceduto dal singolo The bottom line il 1 novembre 1985 viene pubblicato This is Big Audio Dynamite, il primo album dei Big Audio Dynamite, presto abbreviati in B.A.D., la nuova band formata dall’ex chitarrista dei Clash Mick Jones con l'ex DJ del Roxy Club, il giamaicano Don Letts. La formazione comprende anche il tastierista Dan Donovan, il bassista Leo Williams e il batterista Greg Roberts. La pubblicazione del disco ripropone all'attenzione di pubblico e critica Mick Jones molti mesi dopo le antipatiche vicende che hanno visto la sua estromissione dalla band di Joe Strummer e Paul Simonon con l'infamante accusa di essersi «allontanato dall'idea originaria dei Clash». Paradossalmente il debutto discografico dei Big Audio Dynamite avviene mentre i Clash sono ormai arrivati al capolinea della loro storia con la pubblicazione del modesto album Cut the crap. Ancora più paradossale, alla luce delle critiche con le quali era stato "licenziato" dai suoi compagni, è che proprio nel disco del nuovo gruppo di Jones si possa ritrovare l’atmosfera dei giorni migliori del suo vecchio gruppo, più di quanto lo stesso chitarrista sia disposto ad ammettere. Aggressivamente terzomondista e aperto alle più disparate contaminazioni sonore il lavoro dei B.A.D. sembra davvero ripercorrere nei temi e nelle sonorità molte delle strade già percorse dai Clash con maggior genuinità e freschezza delle ultime performance di Strummer e compagni. L'esperienza si dimostrerà più longeva di quanto probabilmente fosse nelle intenzioni di Mick Jones e costituirà il perno di una sorta di laboratorio musicale e politico la cui attività si farà sentire, sia pur tra alti, bassi e qualche contraddizione, per quasi tutti gli anni Ottanta. Morti i Clash sarà proprio attorno ai Big Audio Dynamite che i vecchi componenti tenteranno, in qualche modo, di continuarne l'esperienza. Il secondo album della band, No. 10, Upping St., registrato a Soho, avrà come produttore nientemeno che quello stesso Joe Strummer che qualche anno prima aveva cacciato Jones dai Clash per "alto tradimento". L'album segnerà anche il ritorno alla collaborazione attiva dei due musicisti, che firmeranno vari brani. Nel 1988 sarà il turno di un altro ex Clash, Paul Simonon, il secondo "grande accusatore" di Mick Jones. La sua collaborazione non sarà musicale ma… decorativa, visto che illustrerà la copertina dell'album Tighten up, vol. '88.