Il 30 aprile 2004 nella splendida cornice del Palazzo della Principessa di Cutrofiano, un borgo in provincia di Lecce, parte “Trans-world express”, il nuovo spettacolo live dei Crifiu, un gruppo tra i più rappresentativi, insieme ai Folkabbestia, della nutrita covata che si è schiusa in nei primi anni del nuovo millennio al sole della terra salentina. Dopo un paio d’album accolti con molto interesse i Crifiu si accingono con quel tour a fare un salto di qualità portando nelle piazze d’Europa un concerto che segna una svolta “elettronica” nel loro repertorio sospeso tra rock e suoni del folklore tradizionale. Nel corso della serata di Cutrofiano i loro suoni si mescolano con quelli di un gruppo ospite d’eccezione. Per l’occasione, infatti, si esibiscono al loro fianco, in versione semiacustica, i Gang di Marino e Sandro Severini.
Quello che viene chiamato "rock" non è soltanto un genere musicale. È uno stato d'animo, un modo d'essere che incrocia la musica, il cinema, la letteratura, il teatro e la creatività in genere compresa quella destinata alla produzione industriale. Per chi è nato negli anni Cinquanta e Sessanta è un sottofondo, una colonna sonora di ogni momento della vita, di pensieri e ricordi. Esiste da sempre e aiuta a vivere meglio. Un po' come il comunismo.
30 aprile, 2021
29 aprile, 2021
29 aprile 1986 - Chernobyl, una lezione da non dimenticare
Il 29 aprile 1986 i satelliti che sorvolano la terra segnalano che a Chernobyl, uno dei grandi impianti elettronucleari sovietici, situato a sessanta chilometri da Kiev, c’è stato un incidente di notevoli proporzioni. Mentre mancano ancora notizie ufficiali viene rilevata la formazione di grandi nubi radioattive che si stanno rapidamente spostando, seguendo le correnti in quota, verso i paesi dell’Europa occidentale. Le autorità sovietiche confermano che è accaduto un grave incidente a uno dei reattori di Chernobyl e gran parte dei paesi europei si attrezzano per evitare i rischi connessi all’aumento della radioattività. La nube arriva sull’Italia il 2 maggio e il governo, oltre a diffondere una serie di generiche raccomandazioni, proibisce la vendita delle verdure, in particolare di quelle "a foglia larga" e la somministrazione del latte fresco ai bambini.
28 aprile, 2021
28 aprile 1916 – Ferruccio, l’inventore della Lamborghini
Tra i grandi marchi che hanno caratterizzato nel mondo la produzione delle auto sportive italiane la Lamborghini è quella relativamente più “giovane” anche è rapidamente entrata nell'immaginario degli amanti delle dreamcar, automobili da sogno. La sua leggenda inizia il 28 aprile 1916 quando, a Renazzo di Cento, in provincia di Ferrara, nasce da una modesta famiglia di agricoltori Ferruccio Lamborghini. La sua innata passione per i motori e per le macchine in genere lo porta a Bologna, la grande città dove un giovane appassionato può studiare ingegneria meccanica. Allo scoppio della Seconda Guerra mondiale, viene spedito nella base dell’aviazione militare italiana a Rodi dove opera come tecnico riparatore. Alla fine del conflitto la crescente domanda di trattori del mercato italiano e l'acquisita esperienza nelle riparazioni spingono Ferruccio Lamborghini a impegnarsi nella produzione di trattrici comperando veicoli militari sopravvissuti alla guerra e trasformandoli in macchine agricole. Nel 1948, a Pieve di Cento, nasce la Lamborghini Trattori, la prima azienda ad avere nel logo il toro, segno zodiacale di Ferruccio Lamborghini. In breve tempo diventa una delle case leader del mercato italiano delle macchine agricole. Successivamente, dopo aver impiantato la produzione di bruciatori a nafta e di condizionatori, il fondatore pensa di allargare i propri orizzonti aziendali alla produzione di elicotteri, ma si scontra con il diniego del governo italiano. Siamo all’inizio degli anni Sessanta e, chiuso il sogno degli elicotteri, decide di mettersi in concorrenza con Ferrari nel settore della vetture sportive. La leggenda racconta che tutto era iniziato dopo un problema sul cambio della sua nuova Ferrari. Alle sue proteste il focoso ingegnere Enzo avrebbe risposto « Tu continua a costruire trattori e a me lascia costruire le mie macchine sportive». Piccato e offeso nell’orgoglio il buon Ferruccio avrebbe risposto con i fatti. Cosi nel 1963 nasce la Automobili Ferruccio Lamborghini SpA. Quasi contemporaneamente vede si inaugura la fabbrica a Sant’Agata Bolognese, da cui negli anni successivi usciranno alcune fra le più belle e potenti auto della storia dell’automobilismo italiano. Basta citare nomi come Miura, 350GTV, Espada, Jalpa, LM004 o Countah per capire la filosofia della Lamborghini: innovazione, scelte tecnologiche a volte radicali e senza compromessi e, soprattutto, una fortissima e decisa personalità stilistica. Lamborghini si appassiona alla fabbrica, alle sue vetture, ma non intende lasciarsi condizionare la vecchiaia. Nel 1973, quando vede che in famiglia non c’è nessuno interessato a seguirne le orme inizia a pensare al ritiro dalle scene. Vende l’intero pacchetto azionario a due svizzeri, Georges ed Henri Rossetti, si ritira in Umbria in un grande vigneto di sua proprietà e si dedica con successo alla produzione di vino. Il campione delle sue cantine è un vino rosso dei Colli del Tradimento, ma il marchio con cui viene commercializzato, indelebile e conosciuto da tutti, è "Sangue di Miura". Proprio nella tenuta umbra morirà a settantasette anni, il 20 febbraio 1993. La sua casa, nonostante varie vicissitudini, saprà sopravvivere alla crisi del settore degli anni Settanta e a una serie di passaggi di mano azionari tra gruppi di emisferi diversi.
27 aprile, 2021
27 aprile 2002 – Giovanna Marini, domande e risposte su un disco e un concerto
«È inesatto parlare di me e Francesco De Gregori insieme in concerto, perché il concerto è suo e io sono ospite». Così, con la sua consueta modestia Giovanna Marini, il 27 aprile 2002 si schernisce di fronte al cronista che cerca di strapparle qualche impressione su “Viva l’Italia”, il concerto in programma quella sera e la successiva all’Auditorium – Parco della musica di Roma che la vede sullo stesso palco con De Gregori. «Conosco Francesco da almeno trent’anni, quando lo ascoltavo o, meglio, ci ascoltavamo, al Folkstudio. Mi piacciono i suoi pezzi anche se, come ho già detto tante volte, non capisco niente di country, rock e generi simili. Non appartengono alla mia cultura musicale e quindi non me li sento addosso. Trovo, però, che quello sia un mondo sonoro che ci sta vicino, che è prossimo alla nostra esperienza di cantanti della tradizione popolare. Canzoni come le mie, quelle di Gualtiero Bertelli o Ivan Della Mea, pur viaggiando su onde differenti da quelle di De Gregori, finiscono per incontrarsi». E per due sere si incontreranno a Roma in uno spettacolo che ha per titolo “Viva l’Italia”. A proposito, c’è una ragione speciale per il titolo? «La risposta più banale che potrei darti è che si tratta del titolo di una canzone di Francesco, ma, appunto, sarebbe banale. Le ragioni sono più complesse e nascono dal fatto che in quel brano c’è un passaggio in cui si dice “viva l’Italia che resiste”. Trovo che, come ha dimostrato questo 25 aprile, nel nostro paese ci sia un’ondata di nuovo patriottismo in cui alla parola “patria” si sostituiscono libertà, diritti, democrazia. È una sorta di patriottismo senza patria che trovo stimolante e coinvolgente, una nuova resistenza». Come vivi questo periodo? «Non so se è politicamente corretto definirsi “ansiosi”, ma se devo definire il mio stato d’animo non conosco parole più precise. A me non vengono facili i discorsi politici, mi è più facile dare risposte emotive». Nessuna speranza, dunque? «No, non volevo dire questo. Non sono pessimista. Mi sembra, anzi, che in questi tempi si sia alzato il livello d’attenzione. Vedo atti politici di segno negativo ai quali corrispondono risposte immediate che fino a qualche tempo fa erano impensabili. Sentiamo che si sta giocando una partita difficile, forse decisiva sulla nostra vita e stiamo tutti sul chi vive. C’è una disponibilità maggiore a muoversi, a darsi da fare, a stare al fianco dei più deboli. Chissà, forse perché non sono l’unica a vivere emotivamente questi tempi…» Poi, pian piano, si scioglie e parla anche del concerto. Scopriamo così che sarà sul palco dall’inizio alla fine «Già, non sarà l’accoppiata tradizionale: un’ora per uno con qualche pezzo insieme. La presenza mia e del Quartetto Vocale sarà parte dell’intero spettacolo». Fermati un attimo. Prova a spiegare in poche parole che cos’è il Quartetto Vocale. «Il Quartetto Vocale nasce nel 1976 con lo scopo di eseguire musiche polifoniche da me composte che però mi ritrovavo a cantare quasi sempre da sola perché non avevo amici musicisti in grado di leggere la musica, né tantomeno di cantarla come avevo in mente io. Erano gli anni della ricerca e della canzone politica. In giro c’era tanta passione, ma poca conoscenza specifica in campo strettamente musicale. Proprio in quegli anni ho cominciato a scrivere molti madrigali che oggi fanno parte del repertorio del Quartetto Vocale». In qualche caso si può parlare di vere e proprie acrobazie vocali… «Si, concordo, anche se il merito non è mio, ma di Patrizia Bovi, Francesca Breschi e Patrizia Nasini. Quest’ultima è arrivata al Quartetto nel 1981, mentre Patrizia Bovi e Francesca sono con me dal 1990. il merito della straordinaria freschezza scenica dell’insieme è tutto loro. Io scrivo le partiture, loro si inventano il modo di cantare e ogni volta che ci incontriamo sul palco è una grande gioia». Quale Giovanna Marini sarà sul palco al fianco di De Gregori? «La Giovanna Marini di sempre. Interverremo in qualche brano di Francesco e lui darà il suo apporto ai nostri». Qualche anticipazione sulla scaletta… «La stiamo costruendo insieme nelle prove. Posso già dirti, però, che per quel che riguarda il nostro repertorio presenteremo il Canto per il giudice Falcone, il Lamento per la morte di Pasolini, uno struggente Lamento albanese accompagnato da un “Kyrie” ascoltato nella liturgia di Piana degli Albanesi e poi, come poteva mancare?, Nina di Gualtiero Bertelli, una canzone che amo moltissimo. Con Francesco, invece, ci lanceremo in una serie di canzoni popolari. Oltre a L’attentato a Togliatti faremo anche La partenza degli italiani per l’Albania, che ascoltata in un periodo in cui gli Albanesi si imbarcano per venire in Italia, assume un sapore particolare…».
26 aprile, 2021
26 aprile 1921 – Il piccolo Tajoli ha la poliomielite
Il 26 aprile 1921 è un sabato. La serata tiepida che anticipa l’estate invoglia a uscire e i genitori di Luciano Tajoli non sono diversi dal resto del mondo. Mamma Antonia chiede a papà Francesco di accompagnarla a fare quattro passi. «Luciano dorme come un ghiro come sempre. Lasciamo la porta socchiusa e chiediamo alla vicina di controllarlo ogni tanto, nel caso si svegliasse, ma sai bene che non succede mai. Fino a domani mattina il piccolo dormirà». Il giorno dopo è domenica e Francesco non deve andare a lavorare. Prende sottobraccio la moglie ed esce con lei nella strada. Quando rientrano il campanile ha già battuto il tocco delle undici e mezza. Ringraziano la vicina e si preparano ad andare a letto. Mamma Antonia, come sempre, si china sul piccolo Luciano per stampargli sulla fronte un silenzioso bacio della buonanotte. Quando le labbra sfiorano la pelle del bambino riceve un’impressione di calore. Allunga una mano per controllare: Luciano ha la fronte molto calda. Sembra abbia la febbre. Chiama papà Francesco. «Aiutami, Luciano è ammalato. Potrebbe essere qualcosa di grave!». L’uomo cerca di tranquillizzarla. Insieme cercano freneticamente il termometro, gli misurano la temperatura e la linea argentea del mercurio si ferma in prossimità del segno che indica i quaranta gradi. Il bambino, che nel frattempo si è risvegliato, si lamenta debolmente. L’uomo si riveste e corre nella notte a cercare aiuto. Alle due ritorna accompagnato dal medico di famiglia. Luciano ora piange forte e agita le manine come volesse liberarsi da qualcosa che lo disturba. Il medico lo visita, ma appare perplesso: «Non so. Non riesco a capire. Stomaco, polmoni e vie respiratorie sono a posto. Apparentemente il bambino non ha niente. Non ci resta che seguire il corso della malattia e attendere...» La febbre che sembra consumare Luciano Tajoli non accenna a diminuire e il piccolo si lamenta sempre più forte, come se il suo corpo fosse attraversato da un dolore acutissimo. Gli strilli arrivano in strada, attraversano le vie sonnacchiose del quartiere quasi volessero chiedere aiuto. Tutti capiscono che in casa Tajoli c’è qualcosa che non va. Alle prime luci dell’alba i vicini si precipitano nel piccolo appartamento pronti a offrire aiuto e, soprattutto, consigli alla giovane coppia. Mamma Antonia, disperata di fronte al pianto continuo del piccolo implora papà Francesco di cercare un altro medico, uno che possa capire cos’ha suo figlio, cosa lo ha ridotto così, quale sia la ragione del male che lo tormenta. «È domenica. Come faccio a trovare un medico? Oltre al nostro non ne conosco nessuno. E poi il nostro ha detto che dobbiamo aspettare...». Interviene una vicina: «Glielo do’ io l’indirizzo di un dottore bravo, ma abita in centro...». L’uomo memorizza le indicazioni e, nella mattina un po’ distratta del giorno di festa, corre come un pazzo per la città deserta a cercarlo. Con l’arrivo del nuovo medico sembra ripetersi un film già visto. Visita accuratamente il bambino, lo ausculta e poi allarga le braccia: «Non capisco. È uno strano male. Non vorrei che... ma no... Eppure potrebbe essere. Non vorrei allarmarla, signora, ma da quello che ho letto, alcuni sintomi sembrano quasi quelli della ‘paralisi infantile’. È una malattia nuova che sta dando luogo a varie epidemie. La chiamano poliomielite e non è facile da curare. Ma prima di fasciarci la testa stiamo a vedere...». La donna prega e veglia accanto alla culla mentre passano lente le ore di quella triste domenica. Verso sera la febbre inizia a calare. Il bambino si lamenta sempre meno e pian piano il viso riprende i colori normali. «È passata. Guarda Francesco, sta meglio. Altro che paralisi infantile, il mio bambino è guarito. Dio, che paura...» Lo prende in braccio, lo appoggia in piedi sul tavolo e, con terrore, si accorge che Luciano non fa più forza sulle gambe. Lo alza e lo rialza ma i due arti si afflosciano e ricadono inerti. È poliomielite.
25 aprile, 2021
25 aprile 1913 – Earl Bostic, il jazzista che non disprezzava il rhytm and blues
25 aprile 1913 a Tulsa, in Oklahoma nasce il clarinettista e sassofonista Earl Bostic. Comincia a suonare il clarinetto quando è ancora ragazzo, perfezionandosi negli studi di musica all'università di Xavier a New Orleans, seguendo dei corsi di armonia, teoria e composizione e cimentandosi con vari strumenti. È ancora adolescente quando ottiene i suoi primi ingaggi professionali con le orchestre che suonano sui battelli fluviali e in particolare con quelle di Charlie Creath e di Fats Marable senza peraltro incidere dischi. Nei corso degli anni Trenta si trasferisce a New York dove lavora con le orchestre di Edgar Hayes, Don Redman, Hot Lips Page e Cab Calloway, prima di formare una sua orchestra nella quale suona tutti i sassofoni, il clarinetto, la tromba e la chitarra, mettendo a frutto le lezioni prese all'università di Xavier. Nel 1939 viene ingaggiato per la prima volta dall'orchestra di Lionel Hampton, con la quale registra i suoi primi dischi degni di nota. Nel 1941 è al Mimo's Club di Harlem alla testa di una sua formazione con la quale lavora per circa due anni. Successivamente si riassocia ad Hampton e a partire dal 1945 comincia ad agire come capo orchestra evolvendo il suo stile. Se i suoi primi dischi registrati per la Majestic possono ancora farsi rientrare nel filone swing, infatti, quelli successivi, registrati per la Gotham e la King appartengono più al rhythm and blues che al jazz, anche se si tratta di un rhythm and blues di alto livello, sia per la sua indubbia abilità solistica, sia per le sue rilevanti doti di arrangiatore, sia infine per l'apporto di prim'ordine forbitogli dal musicisti di cui si avvale: da John Coltrane a Stanley Turrentine, da Blue Mitchell a Benny Goison, da Benny Carter a Sir Charles Thompson, da Barney Kessel a Joe Pass. Le sue registrazioni di Temptation, Flamingo, Sleep, Moonglow, Cherokee, vendute in milioni di copie, gli danno una straordinaria popolarità, contribuendo ad avvicinare al jazz molti giovani provenienti dal rhythm and blues. Muore nel 1965 a soli cinquantadue anni.
24 aprile, 2021
24 aprile 1975 – L’ultimo squalo
Il 24 aprile 1975 viene prodotta l’ultima Citroën Ds. È una 23 i.e. di colore blu. Dopo 1.456.115 vetture (1.330.755 prodotte in Francia, il resto in Gran Bretagna e Belgio) la linea di montaggio della Ds si ferma per sempre. Per i francesi resta per sempre la “Dea”, una sorta di maestosa divinità delle strade, anche grazie al gioco di parole (Ds in francese si legge “Déesse”, come il termine che significa appunto “Dea”). Nell’immaginario collettivo dell’Europa però la Ds è “lo Squalo”, un placido, sonnacchioso e indistruttibile squalo pronto a divorare chilometri di strada con sicurezza e affidabilità. Quando viene presentata per la prima volta al pubblico il 5 ottobre 1955, all’apertura del Salone dell’Automobile di Parigi, segna un salto di qualità nelle tecniche di costruzione. Si può dire che al suo apparire tutte le altre auto appaiono improvvisamente superate. Quel salone sancisce un successo incredibile con un migliaio di prenotazioni nella prima ora, che diventano più di diecimila il primo giorno e circa ottantamila a fine esposizione. Un bel risultato per una vettura non proprio alla portata di tutte le tasche visto che costa 930.000 franchi (oltre 25.000 Euro di oggi!). Per dare un’idea della qualità delle innovazioni basta pensare che ancora oggi le soluzioni tecniche adottate dalla Ds sono utilizzate, sia pur con qualche ammodernamento, su moltissimi modelli. È il caso del cambio semiautomatico, delle sospensioni autolivellanti o del ripartitore di frenata, soltanto per fare qualche esempio. Un bel risultato per un’auto la cui progettazioni si può dire inizi nel 1938 quando Pierre Jules Boulanger, allora presidente della Citroën lancia l’idea della VGD (Vehicle à Grande Diffusion), una vettura di classe superiore, altamente tecnologica e dall’aerodinamica innovativa. Il lancio dell’auto è fissato per il 1940, ma lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale cambia le prospettive. Gli studi riprendono nel 1950. Ci si mettono in tre: l’ingegnere André Lefebvre, il meccanico-stilista Flaminio Bretoni e il geniale sperimentatore idraulico Paul Magès. La Ds è pronta già nel 1954, ma allo Squalo manca un motore adeguato. Inizialmente si pensa a un sei cilindri totalmente nuovo, ma le difficoltà costringono il team di progettisti a ripiegare sul già collaudato motore della Traction 11 Cv aggiornandolo. Superato anche l’ultimo ostacolo la Ds è pronta a farsi ammirare dal mondo e a lasciare un segno indelebile nella storia dell’automobilismo.
23 aprile, 2021
23 aprile 2004 – I Radiodervish e i 100.000 uccelli di Simurgh
Il 23 aprile 2004 i Radiodervish presentano il loro nuovo album intitolato In search of Simurgh. Lo fanno raccontando una storia. Centomila uccelli partono alla ricerca del Simurgh, il loro re. Per trovarlo devono attraversare sette valli: dell’Amore, della Conoscenza, del Distacco, Dell’Unificazione, dello Stupore, della Privazione e dell’Annientamento. Partono in centomila, arrivano in trenta e scoprono che il re che cercano sono loro (Simurgh significa infatti “trenta uccelli”). Proprio a questa metafora del cammino della conoscenza, descritta da Farid ad-din Attar nell’opera “Mantiq al-Tayr”, un poeta sufi vissuto fra il 1100 e il 1200 e pubblicata in Italia con il titolo “Il verbo degli uccelli”, si ispira l’album In search of Simurgh. Due anni dopo Centro del mundo il duo italo-palestinese formato da Michele Lobaccaro e Nabil Salameh si ripropone al pubblico con un lavoro insolito, una sorta di suite orientale apparentemente slegata dalle loro precedenti fatiche discografiche. È un lungo volo in una terra fantastica popolata da re e principesse, da fanciulle con il volto di luna e da sufi erranti, sembra un concept album… «Ciò che appare è… - commenta Michele Lobaccaro – in effetti questo per i Radiodervish è un progetto speciale in un territorio sospeso tra la musica e la letteratura che ci affascinava da tanto tempo. Abbiamo fatto un’incursione in Oriente…». Incursione? Non è un termine un po’ forte? «Di questi tempi tutto è forte quando si parla di occidentali che si rivolgono all’oriente. La nostra incursione, però, a differenza di quel che accade con gli americani e gli occidentali in questo periodo, non ha lasciato morti sul terreno e ha stabilito un ponte tra culture». Non è singolare che riusciate a realizzare questo progetto di incontro culturale proprio nell’aprile 2004 mentre qualcuno tenta di innalzare steccati e di mettere in atto drammatiche prove di forza? «Abbiamo voluto farlo adesso anche per costruire un territorio di pace, fuori dal terrore della guerra, un rifugio che consoli lo spirito senza far perdere la consapevolezza della realtà. Siamo contro questa guerra assurda non da oggi e spesso abbiamo pagato il prezzo delle nostre posizioni». Tornando all’album, si può dire che i testi pesino meno delle altre volte… «Non è solo una questione di peso. Direi che il rapporto tra testo e musica esce dai classici schemi della forma canzone e prova a muoversi su un piano più articolato. È un progetto speciale per far scoprire al nostro pubblico nuovi orizzonti non soltanto musicali». Leggero, delicato e intenso di profumi, In search of Simurgh come gli altri lavori dei Radiodervish parla tante lingue distinte, ma legate da un progetto comune, quasi a dimostrare che «…gli uomini sulla Terra sono uccelli di diverso piumaggio, ciascuno con il proprio tipo di musica e il proprio canto…» come recita la citazione da el-Ramak trascritta sulla prima pagina del libretto che lo accompagna.
22 aprile, 2021
22 aprile 1946 – Nannarella, voce di Roma
Il 22 aprile 1946 nasce a Roma la cantante e autrice Anna Nannuzzi, in arte Nannarella. Personaggio di punta della musica popolare romana dei primi anni Settanta fa il suo debutto nel 1971 nei vari locali che all’epoca compongono il circuito del folk della capitale. Nelle sue esibizioni si accompagna con la chitarra, che ha imparato a suonare da autodidatta, con uno stile derivato dall’antica arte dei posteggiatori. Ricercatrice attenta riporta alla luce e ripropone sia negli spettacoli che nei dischi i canti della tradizione orale altrimenti destinati a perdersi. Il suo repertorio parla d’amore, di lavoro, di carcere, dei momenti tristi e lieti della vita del popolo romano. Nel 1975 partecipa anche al Festival di Sanremo con la canzone Sotto le stelle. Tra i suoi album il più conosciuto è Chi offenne Roma offenne mamma mia (1979).
21 aprile, 2021
21 aprile 1935 - Don Habib, non soltanto contrabbasso
Il 21 aprile 1935 nasce a Montreal, in Canada, il contrabbassista e compositore Don Habib, all’anagrafe Donald Habib Proveniente da una famiglia di musicisti studia per sei anni al Provincial Conservatory di Montreal e poi con Carmine Caruso e Benny Baker a New York. All' Eastman School il suo insegnante di contrabbasso è Fred Zimmerman, quello di composizione è Jimmy Giuffré, quello di improvvisazione è Adolphe Sandole, mentre per l’arrangiamento e l’orchestrazione si avvale degli insegnamenti di Rayburn Wright e Manny Albam. Musicista assai versatile, suona anche la tromba, il pianoforte e le percussioni. Tra i grandi jezzisti con i quali ha avuto occasione di suonare ci sono Charlie Mariano, Jay Jay Johnson, Paul Bley, Sonny Stitt, René Thomas, Maynard Ferguson, Toshiko, Michel Legrand e Skitch Henderson.
20 aprile, 2021
20 aprile 1939 - Johnny Tillotson, rocker per emulare Elvis
Il 20 aprile 1939 a Jacksonville, in Florida, nasce il cantante Johnny Tillotson. Bambino prodigio a soli nove anni si esibisce nelle festicciole suonando la chitarra e cantando brani country. Nel 1955, dopo aver assistito a un concerto di Elvis Presley si innamora dei suoni del rock and roll e decide di diventare un cantante professionista. Inizia così a sottoporsi a varie audizioni finché, in un concorso per voci nuove che si svolge a Nashville, viene notato da Archie Bleyer, il manager di artisti come gli Everly Brothers, Link Wray e altri, che gli procura, nel 1958 il suo primo contratto discografico. Johnny ottiene così una serie di buoni successi con singoli come Dreamy eyes, Without you, Talk back trembling lips e, soprattutto, Poetry in motion che resta per molto tempo al vertice delle classifiche dei dischi più venduti. L’ultimo disco di successo prima della partenza per il servizio militare è il singolo del brano It keeps right on a-hurtin'. Dopo un periodo di silenzio forzato dovuto proprio al servizio di leva, pubblica con buoni risultati altri brani come Send me the pillow that you dream on, You can never stop me loving you, Heartaches by the number e Talk back trembling lips. Nella seconda metà degli anni Sessanta, ormai lontano dai suoi momenti migliori Johnny Tillotson sceglie di esibirsi nel circuito del revival e dei grandi club senza mai smettere di pubblicare dischi.
19 aprile, 2021
19 aprile 2003 – Il giorno in cui Ani DiFranco tornò a registrare
«Nascondersi non paga mai». Così il 19 aprile 2003 viene annunciato l’arrivo nei negozi italiani del nuovo album di Ani DiFranco, la ribelle, femminista e anticonformista alfiera di quel pugno di ragazze sospese tra la ribellione del punk e le radici del folk chiamate "riot grrrl". L’album in questione si intitola Evolve, un disco che, come il precedente doppio Revelling reckoning, dal folk sembra spostare la ricerca musicale verso umori funky. «I’m trying to evolve» (sto cercando di evolvere), in queste parole, che regalano il titolo al disco c'è il senso della vita e della carriera di Ani DiFranco, in continua fuga dai compromessi e dalle trappole della normalità quotidiana, non per snobismo o per scarso senso di responsabilità, ma perché vive le lezioni del femminismo e sa bene che il mondo si cambia cominciando da sé. Evolve è arrivato inaspettato, ad appena sei mesi dal doppio live So much shouting, so much laughter, smentendo quei critici che vedevano il live come la chiusura di una tappa del percorso musicale della cantautrice. Non è un caso che con lei nel disco ci sia la band che l'ha accompagnata negli ultimi concerti, composta da Julie Wolf, Jason Mercer, Daren Hahn e Hans Teuber più il trio di trombe formato da Ravi Best, Shane Endsley e Todd Horton. Che l'ultima tappa sia questa e dopo ci sia un ritorno alle esibizioni solitari con chitarra e sentimento? In fondo se anche fosse così a chi importa? Ani DiFranco fin dal debutto si è sempre sottratta alle regole del music business seguendo più l'ispirazione che gli uffici marketing. Per questo torna puntuale a regalare ai suoi ammiratori una serie di preziose perle musicali condite da testi mai banali in un disco che spazia dal folk nero al talkin’ blues al jazz passando per le sue ballate tenere e cattive nello stesso tempo. L'uscita del disco e l'inevitabile campagna promozionale non le hanno impedito di prendere posizione sulla guerra che, come chi la conosce poteva immaginare, è stata dura, diretta e senza alcuna mediazione: «George W. Bush non è un presidente, l'America non è una vera democrazia. I mass media non mi prendono in giro e questa guerra fa schifo». Chiaro? Nessuno può permettersi di dubitare sulla capacità di discernimento della "riot grrrl", che, sia detto per inciso, nel 1999, ha inciso una versione de L'internazionale insieme a un altro folk singer, Utah Phillips, in un album dal titolo Fellow Workers (compagni lavoratori). Del resto chi può permettersi di farla tacere? Le minacce dello star system fanno il solletico a una come lei, che si autogestisce fin dal primo album, e, senza venire mai a patti con il music-business, è riuscita ugualmente a vendere milioni di dischi. La radicalità è parte essenziale della sua stessa concezione artistica, aggressiva quando è necessario («…ogni cosa può essere un’arma, se tu ti aspetti che lo sia»), ma capace di slanci solidaristici e di un rapporto profondo con gli emarginati del suo paese. L'America nella quale lei si riconosce è la stessa di Woody Guthrie e dei grandi folksinger di strada, anima e voce della lotta di classe e per i diritti civili. «Mi sento figlia dell’esperienza storica del folk. Ho cominciato come tanti folksinger a suonare nelle "coffee house" e il mio percorso è stato simile a moltissimi altri: son partita da una comunità ben definita per poi cercare di parlare al numero maggiore di persone possibile».
18 aprile, 2021
18 aprile 1963 – Lo scandalo del figlio di Mina
Il 18 aprile 1963 vede la luce il piccolo Massimiliano Pani, figlio di Mina, protagonista involontario di uno scandalo che costa alla cantante un lungo periodo di epurazione dai programmi televisivi e radiofonici. Tutto inizia nel mese di settembre del 1961 quando Mina, che con le gemelle Kessler è la vedette di “Studio Uno”, uno dei più famosi programmi televisivi di varietà, incontra al bar della Rai di Via Teulada a Roma l’attore Corrado Pani. Il regista televisivo Guido Sacerdote fa le presentazioni. Tra l’attore affermato, pupillo di Luchino Visconti, e la cantante scocca una scintilla di simpatia. Passano insieme la serata, si rivedono di nuovo e in breve tempo la simpatia diventa amore. C’è, però, un problema non secondario nell’Italietta bigotta e conformista di quel periodo: l’attore è sposato. Per un po’ si vedono di nascosto, ma la relazione diventa di dominio pubblico quando una giornalista milanese sorprende Pani che sta telefonando alla cantante dal set del film “La monaca di Monza”. Mina, stanca di sotterfugi e mezze verità ammette: «Sì, sono innamorata e con questo?» La situazione è destinata a complicarsi ancora di più quando, all’inizio del 1963, diventa di pubblico dominio la notizia che la cantante aspetta un figlio da Corrado Pani. La situazione si fa insostenibile per la moralità dell’epoca, ma lei tira dritto e va fino in fondo. «Sarebbe semplice rinunciare a un figlio, ma io voglio questa creatura perché è il figlio dell’uomo che amo, anche se la legge degli uomini ha la sua importanza e mi è contro». Il 18 aprile 1963 vede la luce il piccolo Massimiliano Pani, destinato a diventare ben presto un protagonista involontario delle cronache dell’epoca con il soprannome di “paciughino” datogli dalla madre. Mina è costretta a pagare duramente la scelta con un ostracismo televisivo spietato. La Rai non può accettare di dare spazio a una ragazza-madre mentre gli ambienti più bigotti le voltano le spalle e non perdono occasione per attaccarla. Nella sua battaglia è sola. Molti amici o supposti tali se la squagliano. Le restano le serate e i dischi. Per la prima volta scopre che può mantenere vivo il rapporto con il suo pubblico anche senza apparire in televisione.
17 aprile, 2021
17 aprile 1967 – Henry “Red” Allen Jr il mediatore
Il 17 aprile 1967 muore a New York il trombettista e cantante Henry Allen jr. detto Red. Nato ad Algiers, in Louisiana, il 7 gennaio 1908 è figlio di uno dei più noti componenti delle brass band che si esibivano a New Orleans durante i festini e i funerali, rituali caratteristici della città del delta. Vive la propria la propria infanzia prima marciando nelle cerimonie con il gruppo del padre e poi suonando sui battelli del Mississippi con vari gruppi jazz come quelli di George Lewis, John Handy e soprattutto Fate Marable che negli anni Venti era uno dei personaggi più richiesti per intrattenere i viaggiatori e i turisti che navigavano sui riverboat del grande fiume. Si tratta di esperienze molto formative per il giovane "Red" Allen poiché nelle orchestre che solcano il fiume non è sufficiente suonare la tromba, ma bisogna anche divertire il pubblico con il canto e con qualche sketch. Nel 1927, dopo un anno di sodalizio con Fate Marable, Allen raggiunge il gruppo di Fats Pichon, pianista e compositore leggendario oltre che arrangiatore dell'orchestra di Chick Webb. Dopo un paio d'anni con Pichon "Red" Allen se ne va a New York dove nel 1929 suona nell'orchestra di King Oliver che non attraversa un momento particolarmente brillante e viene tenuta in piedi con molti sacrifici, un po' per i capricci del capo e un po' per le difficoltà obiettive di carattere economico che i gruppi incontrano in quegli periodo che precede la crisi del 1929. La Victor, per esempio, pretende che alcuni assoli venissero eseguiti anche dalle altre trombe, oltre che da Oliver e ciò urta contro la voglia di primeggiare di uno strumentista che un tempo era il dominatore assoluto dei locali di New Orleans. Gli arrangiamenti sono in gran parte opera del trombettista Dave Nelson, nipote di Oliver, e "Red" Allen quando si unisce all’orchestra incontra le stesse difficoltà sperimentate negli anni precedenti da Louis Armstrong, oggetto di continua invidia da parte del leader. Allen però mostra una maggior capacità d’adattamento di “Satchmo” e riesce a convivere meglio con King Oliver. L'esperienza acquisita con un leader così difficile gli serve anche in seguito quando si unisce prima all'orchestra di Louis Russell, poi a quella di Fletcher Henderson e infine alla Blue Rhythm Band considerata una delle migliori orchestre da ballo. Tra il 1934 e il 1936 entra a far parte di un grande gruppo orchestrale di Louis Armstrong e poi decide di continuare in proprio. Diventa così un personaggio di primo piano della scena newyorkese a capo di un sestetto che si esibisce per lungo tempo al Café Society e al Kelly's Stable. Negli anni Cinquanta entra a far parte dei gruppi di stile dixieland che suonano al Metropol e nel 1957 partecipa alla serie della CBS-TV, “The sound of jazz”, una delle più memorabili imprese televisive dedicate al jazz. Nel 1959 suona nel gruppo del trombonista di New Orleans Kid Ory. Allen è considerato ancora oggi dalla critica come una sorta di “mediatore” fra gli innovatori e lo stile tradizionale. Muore a New York il 17 aprile 1967.
16 aprile, 2021
16 aprile 2004 - Se non rinneghi Cuba non entri negli USA
Il 16 aprile 2004 dopo quello di Carlos Varela anche il tour statunitense dei Cubanismo!, una delle band cubane più popolari di quel periodo, viene annullato. La ragione dell’annullamento è nel fatto che le autorità statunitensi non hanno concesso il visto d’ingresso nel loro paese applicando per l’ennesima volta l’odiosa pratica dell’embargo sulla cultura. Nonostante gli appelli di moltissimi artisti nordamericani, decisi a difendere la libertà d’espressione, l’amministrazione Bush conferma così la sua subalternità alle pressioni della lobby dei cubani anticastristi di Miami che da qualche tempo ha alzato il tiro sui musicisti in arrivo dall’Isola accusati di “fare il gioco di Fidel Castro”. La sospensione dei visti arriva dopo un lungo periodo in cui le esibizioni degli artisti cubani negli Stati Uniti e a Miami in particolare sono state spesso interrotte da insulti, provocazioni, disordini e qualche aggressione nel disinteresse dei media internazionali. Tra le vittime ci sono nomi illustri, dai Buena Vista Social Club il cui concerto a Miami è stato annullato per ragioni d’ordine pubblico, a Los Van Van accolti da un fitto lancio di bottiglie, agli Irakere impossibilitati a continuare la loro tournée al jazzista Gonzalo Rubalcaba bersagliato d’insulti e sputi tra l’indifferenza degli addetti all’ordine pubblico fino alla sospensione della sua esibizione.
15 aprile, 2021
15 aprile 1898 - Wingy Carpenter, il trombettista con un braccio solo
Il 15 aprile 1898 nasce a St. Louis, nel Missouri, il trombettista e cantante Theodore Carpenter, detto Wingy. All’età di dieci anni perde un braccio a causa di un incidente. Il chirurgo che effettua l’amputazione è lo zio del trombettista Doc Cheatman. Qualche anno dopo inizia a studiare la tromba e nel 1920 trova un ingaggio nella troupe di uno spettacolo viaggiante. L'anno dopo passa nella Herbert's Minstrel Band e poi si trasferisce a Cincinnati dove resta per qualche anno guadagnandosi da vivere suonando nelle orchestre di Wes Helvey e Clarence Paige ed entrando poi nella formazione diretta da Zack White. Nel 1926 suona nell’orchestra di Speed Webb. Dalla fine dell’anno e fino al 1928 partecipa allo show delle Whitman Sisters nell'orchestra diretta dal pianista Troy Snapp All'inizio degli anni Trenta è l'attrazione degli Smiling Billy Stewart's Celery City Serenaders e in seguito lavora con la Florida Band diretta da Bill Lacey. Verso la metà degli anni Trenta suona con varie orchestre dirette di volta in volta da Jack Ellis, Dick Bunch e Jesse Stone. Fra il 1936 e il 1939 è a New York con Campbell “Skeets” Tolbert e Fitz Weston e verso la seconda metà di quell'anno dirige un suo piccolo gruppo. Negli anni Quaranta e Cinquanta suona e dirige proprie formazioni in vari club di New York come il Black Cat, il New Capitol, lo Yeah Man e il Da Tony Pastor's. A partire dagli anni Sessanta inizia a rallentare la sua attività. Muore il 21 luglio 1975.
14 aprile, 2021
14 aprile 1982 - Silvio, il più piccolo dei Muccino
Il 14 aprile 1982 nasce a Roma Silvio Muccino, il più piccolo dei tre figli del dirigente RAI Luigi Muccino e della pittrice Antonella Cappuccio. Prima di lui ci sono Gabriele, regista affermato in tutto il mondo, e Laura, che pure lavora nell’ambiente dello spettacolo occupandosi soprattutto di casting. Allievo del Liceo Mamiani ha soltanto diciassette anni quando, con la sua amica e compagna d scuola Adele Tulli, affianca il fratello maggiore Gabriele Muccino nella stesura dello script di “Come te nessuno mai”, un film ambientato tra i liceali romani nel quale ricopre anche il ruolo del protagonista. Quello che sembra un episodio diventa segna invece la svolta decisiva nella sua vita. Alcune apparizioni in “Un delitto impossibile” di Antonio Luigi Grimaldi, “CQ” di Roman Coppola e “L'ultimo bacio” di suo fratello Gabriele precedono una nuova fortunata interpretazione da protagonista in “Ricordati di me”, sempre di Gabriele. A vent’anni è ormai considerato più di una promessa del cinema italiano grazie alla sua ecletticità. Nel 2004 dopo aver partecipato a “Il cartaio” di Dario Argento collabora alla sceneggiatura del film “Che ne sarà di noi” di Giovanni Veronesi nel quale interpreta anche la parte del protagonista. Due anni dopo scrive e gira “Il mio miglior nemico” insieme a Carlo Verdone. Sempre nel 2006 pubblica il romanzo di successo “Parlami d’amore”, scritto a quattro mani con Carla Vangelista, del quale cura anche la trasposizione cinematografica.. Il film tratto dal romanzo arriva nelle sale italiane il giorno di San Valentino del 2008 e conferma le buone qualità registiche già messe in mostra in vari videoclip da lui realizzati per vari protagonisti della musica italiana come Stadio, Gianluca Grignani e Ligabue. Nel 2009 viene scelto per prestare la voce al film di animazione Astro Boy. Nel 2010 torna al doppio ruolo di attore-regista in "Un altro mondo", film tratto dal secondo romanzo di Carla Vangelista e con la quale scrive la sceneggiatura. Il film, distribuito Universal, esce a Natale e ottiene il plauso della critica oltre che del pubblico. Nel 2011 pubblica "Rivoluzione n. 9", il suo secondo romanzo. Dopo cinque anni di pausa, a febbraio 2015 esce nelle sale la sua terza opera da regista "Le leggi del desiderio", scritto assieme a Carla Vangelista e interpretato con Nicole Grimaudo, Carla Signoris e Maurizio Mattioli. Nel 2017 esce il suo romanzo "Quando eravamo eroi".
13 aprile, 2021
13 aprile 1945 – Il canto dei deportati
Il 13 aprile 1945 gli alleati arrivano nel campo di concentramento di Buchenwald, il luogo dove è nato il più famoso brano della resistenza antifascista europea. Si intitola Il canto dei deportati, ed è stato composto negli anni Trenta dall'elaborazione collettiva dei prigionieri politici. Viene poi ripreso anche nel campo femminile di Ravensbruk e successivamente tramandato in tutte le lingue d'Europa. La sua storia inizia quando, nel 1937 un gruppo composto da circa trecento deportati, provenienti dal disciolto campo di concentramento di Lichtenburg, presso Lipsia, inizia a costruire, con attrezzi primitivi e insufficienti, le prime baracche del campo di Buchenwald. Il legname necessario viene ricavato dalla vicina foresta di Ettersberg, un tempo descritta e amata da Goethe. Alla fine dello stesso anno il campo ospita già più di novemila prigionieri. Con l'inasprirsi della repressione e delle persecuzioni naziste il numero degli internati cresce in modo geometrico. Alla fine del mese di dicembre del 1943 le immatricolazioni sono 37.319. Un anno dopo diventano 63.084 e 80.436 verso la fine del marzo 1945, quando, cioè, manca ormai poco alla Liberazione dell'Europa. Si calcola, per difetto, che in quel campo siano transitate più di duecentotrentamila persone. La cifra vera dei morti è difficile da ricostruire con esattezza. I registri ufficiali riportano parlano di circa sessantamila, ma la cifra è certamente lontana dalla realtà. All'inizio della sua storia il Lager è uno di quelli affidati dai nazisti alla cosiddetta autogestione da parte dei "triangoli verdi" cioè dei delinquenti comuni il cui potere si esprimeva soprattutto in delazioni e violenze. Dopo aspri scontri e non senza vittime, giorno dopo giorno, però, i prigionieri politici, quelli del "triangolo rosso", finiscono per prendere il sopravvento. A Buchenwald viene sperimentato e applicato lo sterminio per lavoro. I deportati lavorano come schiavi nelle infrastrutture militari con tempi e ritmi oltre il limite della sopravvivenza. La presenza fra i prigionieri di numerosi dirigenti politici, soprattutto comunisti, favorisce, però, i contatti fra i vari gruppi nazionali e la costruzione di una rete clandestina di solidarietà. A poco a poco si sviluppa nel campo un movimento di resistenza con la costituzione di un comitato clandestino internazionale. Con il passare degli anni viene messa in piedi anche una struttura militare. I deportati che lavorano nelle fabbriche d'armi dei dintorni trafugano pezzo dopo pezzo armi, che vengono riassemblate di nascosto. Quando, nei primi giorni dell'aprile 1945; le SS decidono di sgombrare il campo il comitato clandestino dà l'ordine dell'insurrezione generale. Accade così che il 13 aprile 1945, gli alleati arrivino a Buchenwald in un campo che è già stato liberato con il comitato internazionale, non più clandestino, che ne gestisce la vita democraticamente.
12 aprile, 2021
12 aprile 1975 - Josephine Baker, la venere nera
Il 12 aprile 1975 muore Josephine Baker, un pezzo di storia dello spettacolo francese. Nel 1925 un gonnellino di banane su un sinuoso corpo femminile lucido e nero segna la nascita di un mito. Josephine Baker, la “Venere nera”, cantante, ballerina, attrice, diventa la stella più fulgida del music-hall parigino e fa innamorare l’Europa intera con la sua bellezza, i suoi numeri di danza e le sue canzoni. La regina nera di Francia non nasce nel paese che l’incorona, ma arriva da lontano, dall’altra parte dell’oceano, nelle ex colonie francesi degli Stati Uniti. Apre gli occhi sul mondo il 3 giugno 1906 a Saint Louis, nel Missouri. I suoi genitori sono due artisti girovaghi. Carrie Mac Donald si chiama la madre ed Eddie Carson il padre che un anno dopo la sua nascita molla per sempre compagna e figlia. Si dice che dalla madre la ragazza abbia ereditato la bellezza e dal padre l’energia. Dopo Josephine arriveranno altri tre marmocchi, Richard, Margaret e Willie Mae. I tempi e le condizioni son quelli che sono e nessuno dei piccoli Mac Donald può permettersi di non lavorare. A otto anni, mentre le altre bambine vanno a scuola, Josephine va a servizio in una casa di bianchi che la maltrattano. Non dura molto. Scappa e si rifugia dalla comprensiva nonna Elvara. In quegli anni impara a danzare nelle strade ripetendo all’infinito i movimenti sinuosi dei ballerini jazz. Nel 1917, a soli undici anni, assiste atterrita a una serie di disordini razziali scoppiati a Saint Louis con l’uccisione di decine di persone colpevoli solo di avere la pelle nera. Lei stessa racconterà in futuro che quell’esperienza ha segnato in modo indelebile la sua coscienza spingendola ad affiancare all’impegno artistico l’impegno civile e sociale. La strada è una grande scuola e quando Josephine compie tredici anni la danza e il canto non hanno più segreti per lei. I passi più difficili dei ballerini jazz ripetuti all’infinito le sono diventati naturali, quasi istintivi. Si sente pronta per il palcoscenico, ma s’accontenta di esibirsi saltuariamente come cantante e ballerina in qualche locale della città sognando di diventare la stella delle grandi riviste. Il sogno sembra avverarsi quando a Saint Louis arrivano la compagnia Dixies Steppers. È il 1920, lei si propone e viene assunta, anche se soltanto aiutante della sarta di scena. «Troppo magra per andare in scena» ha sentenziato il direttore. Josephine, però, è testarda e passa più tempo a danzare e a imparare canzoni che a rammendare i costumi. In breve conosce a memoria tutte le canzoni e ogni coreografia. Tanto impegno non va sprecato. Nel mese d’aprile del 1921 viene chiamata a sostituire una delle soubrette infortunata al Gibson Theater di Filadelfia. Finalmente è arrivata sul palcoscenico e non lo lascerà più. Nel 1922 lavora nella rivista “Shuffle Along” e nel 1924 in “The Chocolate Dandies”. L’anno magico è però il 1925 quando la Baker, sbarcata sul suolo francese con la sua compagnia per una breve tournée, arriva al Teatro degli Champs Elysées con lo spettacolo musicale “Revue Nègre”. È il 2 ottobre quando il corpo splendido di Josephine Baker si esibisce per la prima volta su un palcoscenico francese e conquista prima Parigi, poi l’Europa intera. Pochi giorni dopo è già la stella dello spettacolo, anche grazie agli inimitabili manifesti di Paul Colin. Josephine Baker diventa la regina dei music-hall parigini e decide di non tornare più negli Stati Uniti. La sua nuova patria è la Francia dove il pubblico l’adora e la chiama Venere Nera. Il primo a ribattezzarla così è André Levinson che sulla rivista Commedia del 22 ottobre 1925 scrive «…i seni che sembrano scolpiti da uno scultore e il vibrare (nella sua danza ndr) dell’Eros africano ci catturano. La ballerina scompare per lasciare il posto alla Venere Nera di Baudelaire…». Josephine Baker diventa rapidamente un simbolo della Parigi dei famosi “Années Folles”, come viene chiamato quel periodo che va dalla metà degli anni Venti alla metà degli anni Trenta. La sua popolarità cresce geometricamente di rivista in rivista fino a toccare l’apoteosi con “La joie de Paris”, lo spettacolo andato in scena al Casino nel dicembre del 1932. Per lei stravedono gli artisti che la considerano un simbolo di anticonformismo e liberazione sessuale. Mentre i benpensanti si scandalizzano e chiedono provvedimenti contro l’immoralità dilagante di cui sarebbe simbolo, di lei s’innamorano diplomatici e principi. Dal teatro di rivista al cinema il passo è breve e il successo costante con film come “Zouzou” del 1934 e “Princesse Tam-Tam” del 1935. Le sue canzoni, in particolare J’ai deux amours che diventa quasi la sua sigla, fanno il giro del mondo. Nel 1937 diventa ufficialmente cittadina francese e quando la Francia viene occupata dai tedeschi lei cambia aria visto che la sua pelle nera non appare proprio in sintonia con le teorie naziste sulla supremazia della razza ariana. L’esilio non cambia né la sua vita né il successo. Continua a esibirsi sui palcoscenici del mondo, ma diventa anche un agente segreto. Nel corso del conflitto, infatti, viene arruolata dai servizi segreti inglesi che utilizzano la sua mobilità per trasmettere importanti messaggi in codice nascosti negli spartiti musicali. La sua attività è incessante. Va ovunque sia possibile: in Spagna, in Portogallo, nel nord Africa. Organizza poi concerti destinati ai soldati al fronte per cercare di sollevare il morale delle truppe Alleate. Usa poi le arti della seduzione per convincere i governi dei paesi non allineati a schierarsi con le “Forze Armate della Libera Francia” guidate dal generale De Gaulle. Per questa sua attività di resistenza e di intelligence il 18 agosto 1961 riceverà dal generale Valin la Legione d’Onore e la Croce di Guerra. Nel dopoguerra Joséphine comincia ad avere vari problemi di salute. Costretta a ridurre un po’ la sua attività artistica nel tempo che si libera si dedica agli altri impegnandosi anche nella lotta contro la segregazione razziale. Negli USA raccoglie fondi, offre gratuitamente concerti, partecipa a conferenze e a marce per la pace, mentre nel suo castello di Milandes, in Dordogna, ospita dodici bambini adottati ciascuno appartenente a una razza e una religione diversa per dare un esempio di fraternità universale. Gli spettacoli, però, non bastano a mantenere economicamente tutte queste attività e, all’inizio degli anni Sessanta, Josephine, quasi sul lastrico, decide di vendere Milandes. Nel febbraio 1964 alla vigilia del giorno fissato per la vendita Brigitte Bardot, in quel periodo al culmine della sua popolarità, lancia un appello per aiutare la Venere Nera. La vendita viene sospesa, ma i debiti e i problemi non scompaiono per magia. Passato l’effetto Bardot Josephine si ritrova sola nella sua battaglia quotidiana e comincia ad avere problemi di cuore sempre più frequenti. Non manca chi l’aiuta a far fronte ai debiti. Nel 1968 il suo amico Bruno Coquatrix le organizza un concerto all’Olympia mentre la Pathé Marconi si impegna a pubblicare un album speciale per l’occasione. Nonostante i generosi tentativi la battaglia contro i debiti finisce male. Nel 1969, mentre i suoi ragazzi sono rifugiati a Parigi da amici, tenta di resistere alla sfratto ma nella notte viene presa e buttata fuori da Milandes. La sua vita riprende a muoversi tra tournée e ricoveri in ospedale. L’8 aprile 1975 celebra i cinquant’anni dal suo debutto in Francia mettendo in scena al Bobino uno straordinario spettacolo di fronte a un parterre colmo di personalità. Nessuno lo sa ma quello è il suo ultimo saluto alla città. Due giorni dopo si addormenta per un sonnellino pomeridiano e non si sveglia più. Colpita da un’emorragia celebrale muore il 12 aprile 1975. Parigi l’accompagna nel suo ultimo viaggio con un corteo immenso, ripreso in diretta televisiva, che attraversa la città sostando davanti ai teatri che hanno costruito il suo mito e i suoi successi.
11 aprile, 2021
11 aprile 1953 - Il “giallo” Montesi
L’11 aprile 1953 viene rinvenuto sulla spiaggia di Torvaianica il corpo seminudo e senza vita della giovane Wilma Montesi. Inizia così uno scandalo politico e di costume destinato a monopolizzare l’attenzione morbosa della cronaca e a provocare un terremoto politico. La ragazza si allontana da Roma, alle cinque del pomeriggio, per recarsi a Ostia e da quel momento le sue tracce diventano confuse, anche se una testimone, la professoressa Rosetta Passarelli, conferma che ha effettivamente preso il treno per Ostia. Il giallo si alimenta di sempre nuove voci, ma, a poco a poco, la pista principale diventa quella di una lussuosa Alfa 1900 che in molti hanno visto aggirarsi nella zona di Torvaianica con a bordo la Montesi e “il figlio di una nota personalità politica”. La testimonianza principale sull’identità delle persone a bordo dell’auto è del meccanico Mario Piccinini di Castelporziano, uno dei pochi personaggi di questo giallo che non cambierà mai versione e che ha riconosciuto nei due occupanti la signorina Wilma Montesi e il signor Piero Piccioni. Quest’ultimo è il figlio del ministro Attilio Piccioni, tra i più autorevoli esponenti della Democrazia Cristiana dell’epoca e considerato da molti il probabile successore di Alcide De Gasperi alla guida del partito. Le indagini si fanno più serrate, ma le conclusioni cui giungono gli investigatori destano sconcerto e perplessità. Secondo la ricostruzione, infatti, la morte sarebbe da attribuire a una disgrazia: Wilma toltesi le calze, avrebbe messo i piedi in acqua e sarebbe stata colta da un malore, morendo annegata. Qualcuno parla chiaramente di ‘versione di comodo’ non suffragata da prove, anche perché sembra che il cadavere non presenti alcuna traccia di permanenza in mare. A zittire gli scettici interviene però il padre della ragazza, Rodolfo Montesi, che dichiara “È stata una disgrazia”. Un caso chiuso? Così si vorrebbe, ma il diavolo ci mette lo zampino. Il 6 ottobre 1953 il settimanale ‘Attualità’, diretto dal ventiquattrenne Silvano Muto, parla esplicitamente di delitto e denuncia la responsabilità di non ben precisate persone altolocate, dedite alla cocaina e allo sfruttamento della prostituzione. Nel gennaio 1954 il Muto, processato per aver diffuso “notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico”, decide di rivelare ai giudici i nomi dei suoi confidenti: due aspiranti attrici, Anna Maria Moneta Caglio e Adriana Bisaccia, e un funzionario della camera, il dottor Angioy. Il caso si riapre. La Caglio sostiene che Wilma Montesi sarebbe morta per mano di Piero Piccioni durante un ‘droga party’ organizzato da un certo Ugo Montagna, consulente dell’INA per gli affari immobiliari, descritto come un trafficante di droga invischiato in un giro di prostituzione d’alto bordo. Il 21 settembre 1954 il giudice istruttore Sepe ordina la cattura di Piccioni per assassinio e Montagna per favoreggiamento. I due vengono rinchiusi nel carcere di Regina Coeli. Lo scandalo segna la fine della carriera politica del potente ministro Piccioni. Il processo si svolgerà a Venezia nell’estate del 1957 in un clima torbido e confuso. Il dibattimento, ricco di mezze verità e di testimoni improbabili, si concluderà con l’assoluzione di entrambi gli imputati. Il giallo Montesi, persa la sua attualità politica, resterà per sempre senza risposte.
10 aprile, 2021
10 aprile 1933 - Chelo Alonso, da Cuba alle Folies Bergères
Il 10 aprile 1933 a Central Lugrano, in Cuba, nasce la cantante, attrice e ballerina Chelo Alonso. Il suo vero nome è Isabel Garcia e fin da piccola la sua aspirazione è quella di diventare una bravissima ballerina. La costanza, l’impegno, lo studio e uno straordinario talento naturale le consentono di bruciare rapidamente le tappe e di diventare, ancora adolescente, una delle ballerine più applaudite dei Caraibi. A vent’anni è già una star delle riviste e dei music hall statunitensi di Miami, New Orleans e Broadway. Quando arriva a Parigi, dove è stata scritturata dalle Folies Bergères, tutti parlano di lei come della “nuova Josephine Baker”. La ragazza però ha altre ambizioni. Vuole diventare anche una stella del cinema. Alla fine degli anni Cinquanta diventa una delle più popolari protagoniste della stagione dei “peplum” vestendo panni diversi, dalla cattivissima regina Syria in “Maciste nella terra dei ciclopi” all’orgogliosa Landa ne “Il terrore dei barbari”. Non mancano interpretazioni di commedie come “Gastone” di Mario Bonnard nel 1958 con Alberto Sordi e Vittorio De Sica o “La ragazza sotto il lenzuolo” di Marino Girolami del 1961 con Walter Chiari. Alla sua popolarità non guasta una nutrita serie di presenze televisive. Alla metà degli anni Sessanta decide di lasciare le scene per amore. Fa soltanto tre eccezioni per tre film western all’italiana: “Il buono, il brutto, il cattivo” di Sergio Leone nel 1966, “Corri uomo corri” di Sergio Sollima nel 1968 e “La notte dei serpenti” di Giulio Petroni nel 1969. Muore a Mentana il 20 febbraio 2019.
09 aprile, 2021
9 aprile 2004 – “Fotti Bush”, l'invito degli Xiu Xiu
Il 9 aprile 2004 viene pubblicata in Italia una delle foto della campagna stampa che accompagna l’ultimo album degli Xiu Xiu, nella quale James Stewart, l’inventore della sigla e deus ex machina del progetto è fotografato insieme alla sua compagna d’avventura Caralee McElroy con una maglietta nera su cui compare, in rosso e molto evidente, la scritta “Fuckbush”(Fottibush). In più sull’ultimo album c’è un brano dal titolo esplicitamente ironico Support our troops in Iraq Oh! che, invece di essere una canzone, è un sorta di drammatica sonorizzazione di un equivoco insito nel titolo. Se anche un gruppo di culto o, meglio, un progetto ad assetto variabile, come quello degli Xiu Xiu, lontanissimo per sonorità e per impostazione dal concetto di “musica militante” aggiunge il suo piccolo mattoncino alla battaglia per fermare il delirio dell’amministrazione americana vuol dire che il movimento è più diffuso di quello che potrebbe apparire. Ciò avviene nel momento in cui il linguaggio di James Stewart e compagni si apre verso il pop, diventa più accessibile e allarga gli orizzonti di possibile ascolto. Nei suoni dei loro album, compreso l’ultimo Fabulous Muscles la voce di Stewart incontra e qualche volta sfida su terreni diversi tutte le costruzioni stilistiche degli ultimi vent’anni, dalla new wave alla classica, al technopop, all’etnica elettronica. Il lavoro di frammentazione e ricostruzione avviene trattando gli strumentisti come se fossero macchine sonore con l’anima. Non sempre, peraltro, gli strumentisti ci sono davvero perché talvolta accade che lo stesso Stewart crei direttamente i vari suoni. Tutto ciò, pur intrigante, non ne fa necessariamente un campione d’originalità. La differenza con molti altri sperimentatori sta invece nel fatto il progetto Xiu Xiu non punta a far vivere in maniera astratta o casuale i vari suoni. Due sono gli elementi che, a detta di Stewart, vengono presi a riferimento nella composizione e nella registrazione di un brano. In un primo momento c’è la ricerca di un equilibrio sonoro in grado di rendere efficacemente un testo, uno stato d’animo, un concetto o un’emozione. Ottenuto il primo risultato inizia una sorta di ambientamento storico del suono ottenuto. Che cosa vuol dire? Che siccome niente o quasi nasce dal nulla, ottenuto un suono dichiaratamente new wave lo si utilizza in modo da rispettare i riferimenti storici del genere a cui è legato. Il risultato è un lavoro ricco di quei riferimenti culturali la cui mancanza ha spesso fatto sembrare arida e insulsa la sperimentazione technopop.
08 aprile, 2021
8 aprile 1929 - Eiji Kitamura, il clarinetto dello swing giapponese
L’8 aprile 1929 nasce a Tokyo, in Giappone, il clarinettista Eiji Kitamura. Autodidatta, si afferma sulla scena jazz giapponese con uno stile ispirato soprattutto a Benny Goodman e ai musicisti dell’epoca dello swing e delle grandi orchestre. Tra il 1951 e il 1953 suona con il gruppo di Saburo Nanbu e successivamente si mette in proprio con la formazione dei Cats Herd. Nel 1957, dopo lo scioglimento della band suona a lungo con Mitsuru Ono con il quale resta fino al 1960. Ormai divenuto il più popolare clarinettista giapponese proprio nel 1960 parte per una nuova avventura formando un quintetto a suo nome. Nel corso della sua lunga carriera Kitamura ha inciso numerosi album, alcuni dei quali in compagnia del suo ispiratore Teddy Wilson.
07 aprile, 2021
7 aprile 2003 – Cindy Lauper al Gay & Lesbian Alliance Against Defamation Media Awards
Il 7 aprile 2003 Cindy Lauper viene invitata a parlare all'annuale Gay & Lesbian Alliance Against Defamation Media Awards. Si tratta di un riconoscimento importante per la cantante, icona dei movimenti per i diritti civili, nell’anno del suo cinquantesimo compleanno. Il tempo che passa non la spaventa. «Questa società è ossessionata dall'idea di invecchiare. Quando si chiede l'età a una donna che lavora lo si fa come se si scalciasse un cerchione di una ruota per verificare la tenuta dell'intelaiatura». Con la sua faccina da svampita, le multicolori acconciature, il look stravagante e la vocetta acuta e duttile negli anni del disimpegno ha osato l'inosabile facendo ballare una generazione su parole tutt'altro che ingenue. Quando la sua Girls just want to have fun (Le ragazze vogliono solo divertirsi) diventa un canto liberatorio per milioni di adolescenti alle prese con una società maschilista, lei spinge la provocazione più in là con She bop (Lei esplode), un inno alla masturbazione («dicono che dovrei smetterla,/se no divento cieca… non è ancora/una cosa proibita dalla legge»). Con la sua aria un po' stordita e una musica che salda il punk alle energie danzerecce "buca" il disimpegno di quel periodo portando in discoteca parole impegnative («padre, padre/non c'è bisogno di grandi scalate/la guerra non è una soluzione»). In lei il divertimento si coniuga con la rabbia e il ritmo con le idee. Riesce a far ballare il popolo delle discoteche su un brano feroce contro la loro superficialità come Love to hate (Amo odiare) «Fascisti alla moda,/lì fuori in branchi,/alcuni con la cipria sul naso… amo odiarvi, amo odiarvi, lo dico sul serio…». Guai poi a cascare nella trappola della sua faccetta ingenua e stordita pensando che in fondo sia soltanto il prodotto inconsapevole di un marketing provocatorio studiato a tavolino da un gruppo di esperti. Quando chiacchiera con i giornalisti le sue idee sono più dirette ancora dei testi delle canzoni: «Io sono nata in un quartiere povero, ho visto con i miei occhi la lotta di classe e so che cosa significa il fascismo economico. Se sei povero non c'è altra via d'uscita che la lotta. Si lotta per tutto anche solo per riuscire a vivere e a trovare un lavoro». Nell’anno del suo cinquantesimo compleanno promette di continuare a cantare, forse per mantenere l'impegno preso proprio in True colors: «se questo mondo ti fa impazzire/e hai subito tutto quello che puoi sopportare/tu chiamami/perché lo sai che ci sarò».
06 aprile, 2021
6 aprile 1935 – Fred Bongusto, il cantautore confidenziale
Il 6 aprile 1935 nasce a Campobasso Fred Bongusto, all’anagrafe Alfredo Buongusto. Sua mamma è veneta e papà campano. Gli anni dell’infanzia non sono facili. Tira aria di guerra e allo scoppio del conflitto suo padre viene spedito sul fronte greco. Non tornerà più. Nel 1942, quando arriva la notizia della sua morte, il futuro Fred Bongusto ha soltanto sette anni e tanti sogni. A scuola è bravino e la madre lo incoraggia a proseguire gli studi. Frequenta il liceo classico “Mario Pagano” e dopo la maturità si iscrive alla facoltà di giurisprudenza dell’università di Modena coltivando una nuova irresistibile passione: la musica. Uno zio musicista per diletto e grafico di professione gli ha regalato una chitarra e il ragazzo pian piano ha imparato a suonarla fino a restare sempre più affascinato dalle canzoni. Tra lo studio e la musica sceglie sempre di più la seconda finendo per abbandonare gli studi universitari e tornare a Campobasso dove frequenta un corso post-diploma giusto per non gettare via anni di impegno sui libri. Sono anni intensi di passioni e speranze. Gioca a calcio con risultati discreti ma soprattutto suona e canta in vari gruppi locali. Deciso a giocarsi il suo destino fino in fondo lascia di nuovo Campobasso per cercare fortuna altrove. Nei primi anni Sessanta Fred Bongusto comincia a essere molto conosciuto tra i frequentatori dei locali da ballo e dei night-club. L’Italia dopo gli sforzi della ricostruzione sta uscendo dalle difficoltà economiche e la gente ha una gran voglia di divertirsi. In questi anni, che verranno poi ricordati come quelli del “boom”, Bongusto imbocca finalmente la strada giusta per il successo. La svolta nella sua carriera arriva quando il suo amico ed estimatore Ghigo Agosti, il popolarissimo interprete di Coccinella, scrive appositamente per lui il brano Bella bellissima che viene pubblicato su un 45 giri accompagnato sul lato B da Doce Doce. Il disco, uscito per l’etichetta milanese Primary di Gianbattista Ansoldi, è decisivo per allargare la sua popolarità soprattutto nell’ambiente degli addetti ai lavori. Sempre per la Primary pubblica Madeleine aufwiedersen, che nel dicembre 1962 porta per la prima volta il suo nome nella classifica dei dischi più venduti, sia pure per una sola settimana. Tra i suoi estimatori c’è anche il grande maestro Gorni Kramer che nel 1963 scrive per lui Amore fermati una canzone utilizzata anche come sigla per un popolare programma televisivo che ottiene rapidamente un grande successo commerciale. Nel mese d’aprile arriva al quarto posto della classifica dei dischi più venduti in Italia. Il 1964 per Fred Bongusto è l’anno della consacrazione definitiva. Il cantante partecipa alla prima edizione della manifestazione “Un disco per l’estate” indetta dalla RAI con il brano Mare non cantare senza troppe soddisfazioni ma il grande successo arriva con Una rotonda sul mare, una delle canzoni più conosciute del suo repertorio destinata a diventare una sorta di emblema del periodo tanto da regalare trent’anni dopo il titolo a un fortunato programma televisivo di revival e nostalgia. Per il cantante è un periodo magico con ripetuti successi discografici e grandi soddisfazioni con brani come Frida e Malaga. Un buon successo ottiene anche al Festival di Napoli dove presenta una sua composizione intitolata Napoli c'est fini in coppia con Luciano Lualdi. Nel 1965 partecipa per la prima volta al Festival di Sanremo con Aspetta domani un brano che porta anche la sua firma. A interpretarlo con lui sul palcoscenico della città dei fiori c’è la giovanissima Kiki Dee, destinata alcuni anni dopo a diventare una stella del pop al fianco di Elton John. La canzone, pur entrando in finale, non ha grande fortuna con le giurie anche se ottiene un buon successo di pubblico. Decisamente sfortunata è, invece, la partecipazione di Fred Bongusto a “Un Disco per l’estate” del 1965 con Il mare quest’estate, un brano che non arriva neppure alla serata finale. Si rifà l’anno dopo vincendo la manifestazione a mani basse con Prima c’eri tu, un brano che si piazza davanti a Se la vita è così di Tony Del Monaco e Tema dei Giganti. Nel 1967 torna al Festival di Sanremo con Gi, un brano interpretato insieme alla polacca Anna German che non riesce neppure ad arrivare alla serata finale. Nel 1968 Fred Bongusto si lascia catturare dalla moda del “ritorno” agli anni Trenta iniziata con il successo mondiale del film “Gangster Story” e pubblica la divertente e ironica Spaghetti a Detroit, il cui attacco «…spaghetti, pollo, insalatina e una tazzina di caffè…» si trasforma in un tormentone senza tempo. In quegli anni i suoi dischi arrivano anche al vertice delle classifiche del Sud America aprendogli la strada a un periodo di intense e nuove esperienze e collaborazioni prestigiose come quelle con Vinicius De Moraes, Tom Jobim e Joao Gilberto, che pubblica anche una sua personalissima versione di Malaga. Non mancano poi collaborazioni con grandi jazzisti come Chet Baker e direttori d’orchestra come Don Costa. Negli anni Settanta entra anche per un tempo brevissimo nel Clan Celentano prima di riprendere la sua strada solitaria. Nel 1989 torna al Festival di Sanremo con il brano Scusa. Nel 1992 ottiene un grande successo con una tournée in Italia al fianco di Toquinho. L’esperimento viene poi ripetuto in Brasile qualche anno dopo. Il nuovo millennio lo trova ancora in grande attività. Il 18 marzo 2005 riceve dal Governo italiano una targa d'argento per i suoi cinquant’anni anni di carriera mentre il 2 giugno 2006 viene nominato commendatore dal Presidente della Repubblica. In suo onore la città di Roma organizza un grande concerto presso Villa Celimontana cui partecipano migliaia di persone. Nell’inverno del 2007 è nuovamente protagonista di una affollatissima tournée in Uruguay e in Argentina. Muore a Roma l'8 novembre 2019.
05 aprile, 2021
5 aprile 2003 – Per gli Avion Travel “Poco mossi gli altri bacini”
«In fondo abbiamo sempre sognato di suonare dal vivo la sigla del meteo o dei tg...». Così il 5 aprile 2003 Peppe Servillo, l'uomo immagine più che il leader autoritario di un gruppo da sempre strutturato come un collettivo di uguali, commenta il titolo del nuovo album Poco mossi gli altri bacini firmato Piccola Orchestra Avion Travel arrivato nei negozi il giorno prima. Il disco è una sorpresa. Le sonorità, il divertimento e il gusto di sorprendere riportano alla mente gli anni degli esordi, quelli in cui la band casertana mescolava il rock un po' standardizzato degli anni Ottanta con la nobiltà degli echi dello swing. Le discografie pubblicate negli stessi giorni stranamente fanno partire la storia del gruppo dal 1991, dall'album Bellosguardo dimenticando due lavori, forse ingenui, ma sicuramente vivi e sinceri come Sorpassando del 1987 e Perdo tempo del 1989. La dimenticanza, se non è frutto di ignoranza, è singolare, perché rimuove gli anni della metamorfosi, quelli in cui la band scompare. Parte per un lunghissimo tour in Unione Sovietica e quando torna è così diversa da far nascere la battuta che i sovietici ne abbiano sostituito i componenti con dei sosia. Gli echi ska, le cavalcate sospese tra un pop rock intelligente, anche se un po' maniera, e la leggerezza di un dialogo musicale che strizza l'occhio alle sonorità alternative di quel periodo scompaiono. Al loro posto c'è una band elegante, che mescola il gusto per la melodia della tradizione italiana con le suggestioni delle esperienza più colte del pop internazionale. Quella metamorfosi tanto repentina finisce per cancellare un pezzo della stessa storia del gruppo. È una vera e propria rimozione dimostrata ancora oggi dal fatto che molti ancora oggi citino il loro terzo album Bellosguardo come quello del debutto. Che cosa c'entra questo ragionamento con il nuovo disco della band? C'entra perché Poco mossi gli altri bacini getta un ponte con il passato, recupera un entusiasmo che via via appariva annacquato da uno stile che sembrava raffreddato da una ricerca troppo concettuale. Nel nuovo album cultura e intelligenza tornano ad andare sottobraccio con il divertimento. È sufficiente ascoltare il brano-autoritratto Banda casertana per accorgersi che non si tratta di un'operazione casuale, ma di un progetto voluto e pensato a lungo nei quattro anni in cui il gruppo è stato lontano dalla sala di registrazione. «Sono stati quattro anni molto intensi, confusi e ricchi di tante esperienze» commenta Servillo che, a chi gli fa notare una sorta di recupero del linguaggio dei primi Avion Travel, risponde ammiccando: «..l'album ci riporta all’innocenza e all’ingenuità dei primi dischi fin dal titolo, che è semplice e spiritoso». Dea ex machina dell'operazione è, come sempre, Caterina Caselli, una delle poche discografiche capace di rischiare in proprio sulla qualità. La sua ala protettrice questa volta si è spinta più in là del solito fino a partecipare direttamente alla realizzazione di una bella versione di Insieme a te non ci sto più, un suo antico successo. Non è l'unica voce femminile che si aggiunge agli Avion Travel in questo disco. L'altra è quella di Elisa, che nella suggestiva Vivere forte duetta con Peppe Servillo portando la sua vocalità a percorrere strade tanto diverse da quelle su cui cammina abitualmente da sembrare irriconoscibile. Detto per inciso è una lezione importante quella che arriva dalla cantante di Monfalcone perché segnala all'universo mondo l'inutilità di aggiungere intonazioni rhythm and blues a brani che non ne hanno bisogno. Sembra una cosa da poco ma in tempi in cui l'omologazione porta tutti a rifare all'infinito lo stesso stile la capacità di Elisa di adattare voce e impostazione fino a integrarsi con l'ambiente musicale che la circonda appare quasi rivoluzionaria. I testi dei brani parlano con pudore e ironia della difficoltà dei rapporti umani. Non mancano scelte diverse dal solito anche dal punto di vista linguistico, come E mo, cantata in dialetto (una rarità nella storia della band casertana) o Le style de ma memoire, in francese. Nella track list ci sono infine anche due brani legati al cinema: Piccolo tormento, nato per la colonna sonora del film "La felicità non costa niente" di Mimmo Calopresti e Avrei bisogno d’amore, scritta insieme a Fabrizio Bentivoglio per l'ultimo film di Gabriele Muccino "Ricordati di me". A quattro anni dal suggestivo ma troppo cerebrale Cirano gli Avion Travel o, meglio, la Piccola Orchestra Avion Travel torna a fare canzoni che raccontano storie e sentimenti.
04 aprile, 2021
4 aprile 1959 – La prima volta di Mina in TV
Il 4 aprile 1959 Mina fa il suo debutto sul piccolo schermo cantando Nessuno a “Il musichiere”, un gioco a quiz musicale presentato da Mario Riva. La puntata è interamente dedicata agli “urlatori” e con lei si esibiscono anche Giorgio Gaber, Jenny Luna, Adriano Celentano e Tony Dallara. Qualche settimana dopo consolida la sua popolarità partecipando a “Lascia o raddoppia?”, il programma di Mike Bongiorno che ha stregato gli italiani e che conta su una platea di oltre venti milioni di spettatori, almeno dieci volte il numero di televisori esistenti in quel momento in tutto lo stivale. L’Italia resta affascinata da questa ragazza alta e magra che indossa un maglioncino chiaro sopra un paio di jeans. Mina canta Nessuno guardando la telecamera con i suoi grandi occhi che sbucano da una zazzera spettinata e accompagna il ritmo agitando freneticamente braccia e mani. Quando la congeda Mike Bongiorno si lancia in un augurio profetico giocando con il titolo della canzone: «Ragazza mia, non ti fermerà nessuno».
03 aprile, 2021
3 aprile 1917 - Bill J. Finegan, l’unico assolo è il rumore di un cavallo
Il 3 aprile 1917 nasce a Newark, nel New Jersey il pianista, compositore, arrangiatore e direttore d'orchestra Bill J. Finegan, all’anagrafe William J. Finegan. Si appassiona alla musica fin da piccolo visto che tutti i suoi familiari sono pianisti dilettanti. Durante le scuole superiori comincia a studiare il pianoforte prima prendendo lezioni private, poi frequentando il conservatorio. Per sbarcare il lunario scrive arrangiamenti e partiture che vende a vari editori. La sua carriera di arrangiatore professionista inizia quando Tommy Dorsey acquista la sua orchestrazione di Lonesone Road e la fa ascoltare a Glenn Miller. Questi resta favorevolmente sorpreso e nel 1938 invitò Finegan a collaborare con lui. La collaborazione far i due dura fino al 1942, quando Bill diventa l'arrangiatore di fiducia di Tommy Dorsey per il quale lavora una decina d’anni sia pur con qualche interruzione. Nel 1952 fonda con Eddie Sauter la Sauter-Finegan Orchestra, nata inizialmente come formazione esclusivamente da studio sull’onda del successo partecipa poi a vari programmi televisivi e si esibisce in molti locali. Il successo dell’orchestra nasce soprattutto dall’amalgama sonora tra gli strumenti, i cantanti Joe Mooney, Florence Fogelson, Anita Boyer e i cori del gruppo dei Doodlers. In tutta la sua carriera Finegan non svolge mai attività solistica e se ne fa un vanto quando dice sorridendo che l'unico suo assolo registrato è un'imitazione della corsa di un cavallo da slitta ottenuta battendo le mani sul petto. Non è uno scherzo. Esiste davvero e la si può ascoltare nel brano Midnight Sleigh Ride, inciso con la Sauter-Finegan Orchestra. Muore il 4 giugno 2008.
02 aprile, 2021
2 aprile 1979 - Jean Lumière, “chanteur de charme”
Il 2 aprile 1979 muore a Parigi Jean Lumière. Interprete sopraffino, capace di lavorare di cesello sulla voce con una cura quasi maniacale, Jean Lumière corre il rischio di essere ricordato soltanto per la sua capacità di insegnare ad altri il “mestiere” degli chansonniers. È uno strano destino il suo. Attore, cantante e fine dicitore di canzoni prende tremendamente sul serio la “missione” di insegnare e dà il meglio di sè con le interpreti femminili molte delle quali, proprio grazie a lui, diventano vivide e brillanti stelle della canzone francese. La più luminosa tra loro è Edith Piaf, un mito che lo scorrere del tempo non è riuscito neppure a scalfire, ma l’elenco è lunghissimo e comprende personaggi come Gloria Lasso, Cora Vaucaire, Mireille Mathieu, Christiane Legrand e moltissimi altri, non esclusa quella Marie Dubas che non è propriamente una sua creatura ma che lui adotta quasi come modello per affinare le qualità sceniche e interpretative della Piaf. Molte sono le incertezze quando si affrontano i primi anni di vita di Jean Lumière. C’è chi lo fa nascere a Marsiglia nel 1895 con la stessa sicurezza con la quale altri attribuiscono i suoi natali alla stessa città ma dieci anni dopo, cioè nel 1905. Non è finita perchè ci sono storici e ricercatori che lo vogliono ancora più giovane e originario di una città diversa facendolo nascere ad Aix-en-Provence nel 1907. Anche il nome con il quale viene registrato all’anagrafe è oggetto di discussione. C’è chi dice che il suo vero nome sia Jean Anezi e chi Jean-Louis Anezin. A completare il quadro nebuloso che avvolge i primi anni di vita del futuro Jean Lumière ci sono infine le ricostruzioni dell’ambiente famigliare. Nessuno discute sul fatto che la musica sia stata una sorta di passione naturale fin dall’infanzia perchè è una sua affermazione, ma alcuni sostengono che i suoi genitori possedevano un cabaret e altri sposano una tesi leggermente diversa che li vuole commercianti con la passione per la musica. Dettagli che non cambiano la sostanza delle cose ma contribuiscono a far capire come con il tempo gran parte delle notizie relative a Jean Lumière tendano a corrompersi e a sfumare un indistinto alone leggendario. La sua storia artistica comincia quando ha ancora i pantaloni corti e non ha la musica al centro. Il piccolo Jean è intenzionato a diventare attore. Metodico e senza lasciare nulla al caso frequenta con profitto regolari corsi di recitazione ottenendo alcuni prestigiosi riconoscimenti scolastici sia sul versante della commedia leggera d’ispirazione moderna che in quello della tragedia classica. Il ricongiungimento tra musica e teatro avviene quando il giovane e promettente attore viene scritturato dal Théâtre de Variétés di Marsiglia, all’epoca considerato il tempio dell’operetta dell’intero meridione francese. Non è una stella e i ruoli che gli vengono affidati hanno funzioni di contorno, ma gli consentono di affinare anche le sue qualità come cantante oltre che come attore. Con l’operetta la musica entra nel cuore di Jean Lumière, anche se non è ancora la sua attività principale. Il ragazzo, poi, è riluttante ad abbandonare una rassicurante carriera teatrale per dedicarsi interamente alla musica. Non vuole lasciare il certo per l’incerto. È la sorte a decidere per lui. La svolta nella sua carriera avviene nel 1929 in occasione della grande festa d’addio al pubblico del cantante Henri Dickson all’Opera di Marsiglia. Come molti protagonisti della stagione teatrale e musicale cittadina viene invitato a salire sul palco per un breve omaggio al festeggiato e canta uno dei brani del repertorio di Dickson. La sua esibizione sorprende sia il pubblico che gli addetti ai lavori. Tra i personaggi più entusiasti c’è Esther Lekain, una delle grandi vedette dell’Alcazar di Marsiglia a quell’epoca al vertice della popolarità. È lei la prima a suggerirgli di lasciar perdere il teatro per dedicarsi a tempo pieno alla musica ed è sempre lei a scegliere il suo nome d’arte: «...caro ragazzo, avete una voce chiara come la luce di un giorno d’estate di questo nostro meridione. Perchè non la mettete nel vostro nome? Io credo che voi dobbiate prendere il nome di Jean Lumière...» Così accade. La luminosa vedette Esther Lekain diventa la sua madrina e lo aiuta a farsi conoscere nel giro che conta. La scalata al successo è velocissima. Un anno dopo l’esibizione all’Opera di Marsiglia ottiene un inaspettato contratto discografico della sua carriera con la Odeon. I primi due brani registrati per quella prestigiosa etichetta sono Les trois filles e Notre amour. Il 1930 non è soltanto l’anno della prime registrazioni discografiche. In quello stesso anno, infatti, Jean Lumière fa anche il suo debutto dal vivo a Parigi. La sua prima esperienza nella impegnativa e sfolgorante notte parigina avviene sul palcoscenico dell’Européen, un locale che all’epoca è famoso proprio per la capacità di scovare e proporre giovani talenti. In breve tempo diventa uno dei cantanti più apprezzati delle notti parigine. Il suo stile melodico e aggraziato, senza eccessive forzature né appesantimenti stilistici lo iscrive di diritto alla schiera di quegli interpreti che la critica definisce “chanteurs de charme”, avvicinandoli ai crooners del jazz orchestrale e del pop e considerandoli una sorta di congiunzione tra la tradizione melodica dell’Europa mediterranea e la scuola dei balladeers anglosassoni. Il pubblico viene catturato da quella voce tenera dalla dizione perfetta, sempre controllata e intonata, e ne fa uno dei suoi beniamini. Ancora oggi è ritenuto uno dei più significativi esponenti di quello stile insieme a personaggi come Fragson, Paul Delmet e Tino Rossi. Negli anni Trenta la sua popolarità raggiunge vertici inaspettati anche grazie all’ennesimo colpo di fortuna. Nel 1933, infatti, proprio la vedova di Paul Delmet gli chiede un appuntamento. Colpita dalla somiglianza della sua tecnica con quella del marito vuole fargli un dono. È un brano che si intitola La petite église, scritto dal suo defunto marito nel 1890 insieme a Charles Fallot e mai più interpretato da nessuno dopo di lui. Il brano, inserito da Jean Lumiére nel suo repertorio diventa il più grande successo della sua carriera. Proprio con La petite église vince anche il Grand Prix du Disque del 1934. Sull’onda del successo riprende altre canzoni del passato riportandole alla luce. Vivono così di nuova vita e nuovo splendore brani come Visite à Ninon, scritto nel 1879 da Gaston Maquis, Lilas blancs di Théodore Botrel o L’âme des violons di René de Buxeuil. Nel 1941 è uno dei protagonisti dei concerti dell’Étoile organizzati da Georgius. Dopo la Liberazione la popolarità di Jean Lumière resta notevole nonostante il cambiamento di gusto del pubblico e l’emergere di nuovi protagonisti della scena musicale. Tra i brani di maggior successo del 1945 anche la sua interpretazione di Ah le petit vin blanc. In quel periodo la sua fama si allarga anche all’estero grazie anche alla sua disponibilità a viaggiare. Nella seconda metà degli anni Quaranta e negli anni Cinquanta le sue tournée toccano vari paesi Europei, dell’America Settentrionale e di quella Meridionale, oltre che dell’Africa e del medio oriente. Considerato dai critici “la miglior voce radiofonica” del panorama musicale francese affianca all’attività di cantante quella di insegnante di canto destinata ad appassionarlo sempre di più fino a convincerlo, nel 1960, a lasciare le scene per dedicarvisi a tempo pieno. I suoi metodi d’insegnamento fanno scalpore perchè mescolano vocalità a particolari posture corporali, ma risultano particolarmente efficaci soprattutto con le voci femminili.
01 aprile, 2021
1° aprile 1992 - L’Oscar a “Mediterraneo”. Non è uno scherzo
Non è un pesce d’aprile anche se il giovane regista italiano
per un po’ sospetta che sia tutto uno scherzo. Il 1° aprile 1992 nella lunga e
spettacolare notte del Dorothy
Chandler Pavilion di Los Angeles il regista italiano Gabriele Salvatores
viene premiato con l’Oscar destinato al miglior film straniero. L’ambita
statuetta è per “Mediterraneo”, un lungometraggio da lui diretto e interpretato
da Claudio Bigagli, Diego Abatantuono, Giuseppe Cederna, Ugo Conti, Gigio
Alberti, Vanna Barba, Claudio Bisio e Antonio Catania. Tra i cosiddetti esperti
che nel nostro paese abbondano più che altrove le prime reazioni sono di
stupore. Nella cerchia degli invidiosi si finge soddisfazione ma si lanciano
strali avvelenati a rilascio lento. Tra le osservazioni nate dal bolo
dell’invidia la più velenosa è quella di chi mostra un incantato e quasi
ingenuo stupore perché i giudici degli Academy Awards avrebbero premiato con la
prestigiosa statuetta un film dalle caratteristiche tutte interne al dibattito
culturale italiano e le cui dinamiche sono comprensibili soltanto a chi ha
vissuto nell’Italia degli anni Settanta. Non è tutto perché anche le vendette
degli invidiosi hanno delle regole precise. Non si può esagerare perché se si porta
alle estreme conseguenze questa teoria del film dalle tematiche provinciali e
incomprensibili si rischia di ipotizzare che i giudici della prestigiosa
Academy hollywoodiana abbiano pescato a caso da un cappello il biglietto con il
nome di uno dei film stranieri perché non avevano voglia di vederseli oppure (peggio!)
che si siano bevuti il cervello. Entrambe le ipotesi possono rivoltarsi contro
a chi, nonostante l’invidia e il fastidio per i successi degli altri, nel mondo
del cinema deve comunque continuare a lavorare. Per questa ragione insieme alla
sorpresa per il risultato si fa sapere con nonchalance, quasi si trattasse di
un dettaglio, che “Mediterraneo” è distribuito in tutto il Nord America dalla
potentissima (all’epoca) Miramax dei fratelli Weinstein. E siccome le due
comunicazioni viaggiano accoppiate l’effetto indotto è che si tratta di un
Oscar immeritato assegnato in virtù delle pressioni di un potente distributore.
Nonostante gli invidiosi “Mediterraneo” era e resta uno splendido film girato
con mano leggera e destinato a commuovere anche chi non appartiene alla
generazione del regista. Per chi invece ha vissuto l’esaltazione del sogno di
cambiamento degli anni Settanta e il lungo riflusso degli Ottanta è la “chiusa”
finale della cosiddetta “trilogia della fuga” di Gabriele Salvatores, iniziata
nel 1989 con “Marrakesh Express” e proseguita l’anno dopo con “Turné”. Il
centro della narrazione filmica di Salvatores in quel periodo (e non soltanto
in quello) è rappresentato dal vortice di disillusioni, incertezze e voglia di fermare
il tempo che caratterizza l’impatto con il riflusso degli anni Ottanta (e con
la maturità) da parte di una generazione, la sua, dopo l’illusione di poter
cambiare il mondo. Mentre i primi due film della trilogia entrano direttamente
nel vivo di queste tematiche, “Mediterraneo” ci si avvicina per contiguità di
emozioni mentre la chiosa finale del Salvatores-pensiero sulla questione arriva
una citazione da Henri Laborit («In tempi come questi la fuga è l’unico mezzo
per mantenersi vivi e continuare a sognare») e dalla dedica che appare prima
dei titoli di coda («Dedicato a tutti quelli che stanno scappando»).
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