24 gennaio, 2020

24 gennaio 1939 - Julius Hemphill, il sax del Black Artist Group


Il 24 gennaio 1939 nasce il sassofonista Julius Hemphill. La città che gli dà i natali è Fort Worth, nel Texas la stessa dove sono nati tra gli altri i sassofonisti Ornette Coleman e Dewey Redman e il batterista Charles Moffett. A dodici anni Hemphill soffia già nel clarinetto sotto la guida di John Carter e successivamente passa al sassofono tenore e trova qualche ingaggio in vari gruppi, soprattutto di blues. Chiamato alle armi, viene destinato a Saint Louis, nel Missouri. La città lo conquista al punto da convincerlo a restare lì anche dopo la fine del servizio di leva. Proprio a Saint Louis nel 1968 dà vita al BAG (Black Artist Group), un'associazione simile alla chicagoana AACM (Association For Advancement of Creative Musician), che, però, allarga la sua sfera d’interesse anche a campi espressivi diversi dalla musica improvvisata quali la danza, il teatro, la poesia e la pittura. Con lui nel BAG ci sono vari musicisti come Jerome Harris, Charles Bobo Shaw, Oliver Lake, Arzinia Richardson e tanti altri. Nel 1971 Hemphill forma un gruppo di cui divide la leadership con il pianista John Hicks, uno dei più frequenti compagni d’avventura artistica della sua carriera con il quale nel 1974 partecipa all'incisione di Fast Last! di Lester Bowie. A Chicago collabora con il polistrumentista Anthony Braxton. A partire dal 1975 i suoi interessi sembrano orientarsi alle esperienze solistiche, spesso sperimentali, nonostante l’esperienza collettiva del World Saxophone Quartet il gruppo formato nel 1976 con Hamlet Bluiett, David Murray e Oliver Lake. Muore a New York il 2 aprile 1995.


23 gennaio, 2020

23 gennaio 1951 – Alibert, la stella dell’Operetta Marsigliese

Il 23 gennaio 1951 muore Alibert, uno dei personaggi fondamentali dell’Operetta Marsigliese al punto che c’è chi ha sostenuto che senza di lui quel genere non avrebbe neppure superato i confini della città nella quale è nato e che gli ha dato il nome. Sono osservazioni difficili da commentare perchè prive della possibilità di controprova. Appare certo, invece, il contrario. Pochi dubbi invece sussistono sul fatto che senza l’esplosione improvvisa della passione per l’operetta del pubblico parigino, probabilmente il segno lasciato da Alibert nella storia dello spettacolo francese e parigino in particolare sarebbe stato molto più leggero. Sia come sia è andata così e oggi insieme a Jules Muraire, in arte Raimu, e a Fernand Contandin, in arte Fernandel, Alibert compone il cosiddetto “trio dei marsigliesi”, una piccola pattuglia di uomini di spettacolo provenienti dal meridione della Francia che, a partire dagli anni Trenta, ha saputo conquistare Parigi. Le biografie raccontano che Henri Allibert, il futuro Alibert, è nato a Carpentras. In realtà il piccolo Henri vede la luce il 3 dicembre 1889 a Loriol-du-Comtat, un piccolo borgo a circa cinque chilometri da Carpentras. La sua infanzia non è diversa da quella di altri bambini dell’epoca. Vive in una famiglia che, pur senza avere particolari difficoltà di sostentamento, non può permettersi follie. Frequenta la scuola senza grandi problemi ma anche senza particolari eccellenze. Alla noia e alla fatica dello studio e della scrittura preferisce le lunghe giornate passate a giocare nella via con i suoi coetanei. Il bambino non dà particolari problemi ai genitori che lo lasciano fare consapevoli che, prima o poi, l’età dei giochi e delle corse a perdifiato è destinata a lasciare il posto alla vita vera, fatta di lavoro, tante preoccupazioni, poche speranze e nessuna illusione. Il piccolo Henri cresce così nella strada. Nella polvere delle vie del suo paese d’origine impara a tenere testa ai prepotenti, a coltivare e mantenere vivo un bene prezioso come l’amicizia e a essere solidale fino in fondo con i compagni d’avventure e di giochi. Quando compie quindici anni, però, si ritrova a dover affrontare il primo, vero, importante cambiamento della sia vita. I suoi genitori, infatti, si trasferiscono ad Avignone, una città che dista circa trenta chilometri dal paese natìo. Quella distanza, che oggi può essere percorsa da un’auto in poco più di una ventina di minuti, all’inizio del Novecento è un viaggio che dura qualche ora. Per un ragazzo di quindici anni che è costretto ad abbandonare gli amici e i luoghi dove è cresciuto sapendo di non tornarci più, è una separazione difficile, un cambiamento che pesa come un esilio. A chi arriva da Loriol-du-Comtat, o anche da Carpentras, Avignone può apparire come una grande e inesplicabile città. Lo spaesato quindicenne Henri Allibert ha l’impressione che in quelle vie ricche di storia così lontane e diverse da quelle in cui sono nati i giochi e le amicizie infantili stiano finendo i suoi sogni. Non è così. Ad Avignone finiscono i giochi ma i sogni sono destinati a irrobustirsi e a muoversi su nuovi e inaspettati scenari. Proprio nei caffè della città e poi in quelli dei dintorni, Henri muove i primi passi come intrattenitore. Il suo modello è Mayol, al secolo Felix Mayol l’uomo con la houppette, il ciuffetto di capelli sopra la fronte, che ha lanciato La mattchiche, l’adattamento francese di una canzone spagnola, un ballo birichino che costringe due corpi a stare molto vicino e che diventa di gran moda nelle notti parigine del 1905. Henri ne ripropone le canzoni, lo stile, ne copia i movimenti, i gesti, i vestiti e si fa crescere proprio sopra alla fronte un ciuffo di capelli identico al suo. Il pubblico si diverte alle sue esibizioni e, locale dopo locale, successo dopo successo, il giovane intrattenitore arriva a Parigi. Alla fine del 1908, pochi giorni dopo il suo diciannovesimo compleanno, si esibisce per la prima volta sul palcoscenico prestigioso del Bobino. Non riscuote un successo travolgente, ma il pubblico parigino finisce per affezionarsi a questo giovanissimo emulo di Mayol ed Henri resta nella capitale per una nutrita serie di esibizioni nei vari caffè concerto. Alla prima stagione segue la seconda e poi la terza finché Henri Allibert, il giovane cantante arrivato dal meridione della Francia, chiamato semplicemente Alibert sui manifesti e sui cartelloni, diventa una presenza fissa nei locali di Parigi. Nel 1913 viene scritturato per uno spettacolo di varietà che lo porta in tournée nei teatri delle città francesi. Tra le tappe c’è anche l’Alcazar di Marsiglia, la città più vicina ai luoghi dove è nato e dove ha vissuto gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza. Per l’occasione molti degli amici di un tempo affollano il teatro e gli tributano un successo inaspettato e commovente. Il successo dell’esibizione all’Alcazar di Marsiglia rinfranca Alibert e lo convince definitivamente delle sue possibilità. Per la verità avrebbe anche voglia di rinnovare il repertorio, magari affrancandosi dal ruolo del “giovane imitatore di Mayol” dal quale comincia a sentirsi un po’ soffocato, ma non può. Non sono d’accordo con lui gli impresari che, in Francia come altrove, tendono in genere a sfruttare fino all’ultimo le fortune di un personaggio prima di investire e rischiare su qualche novità. Nel 1914 però la sua carriera si interrompe bruscamente. Alibert, la stella nascente del varietà francese, ridiventa Henri Allibert per l’ufficio di leva che gli invia una cartolina di reclutamento. L’Europa sta per piombare nella prima delle due grandi guerre del Novecento e, come milioni di altri giovani del continente, anche lui è costretto a partire per il fronte. Nel 1917, quando torna a casa dalla guerra, Alibert è un uomo diverso, provato dall’esperienza vissuta nonostante una decorazione ottenuta per i servizi resi alla patria. Intenzionato a lasciarsi alle spalle il più rapidamente possibile i ricordi del fronte si rituffa nel lavoro. Accantonata l’imitazione di Mayol comincia a farsi apprezzare come cantante e intrattenitore negli spettacoli di rivista. Nel 1918 il suo nome affianca quello di Georgius sul cartellone dell’Alcazar di Marsiglia, nel 1920 è al Concert Mayol e all’Eldorado. Nello stesso anno pubblica anche su disco Jazz Band partout, il brano di maggior successo del suo repertorio. Nel 1924 è all’Olympia, nel 1925 al Théâtre de l’Empire con Yvette Guilbert e poi all’Européenn. Nel 1927 si esibisce anche sul palcoscenico delle Folies Bergère. Nel 1928 ottiene un grande successo con il brano Mon Paris scritto da Vincent Scotto e nel 1929 mette in scena “Elle est à vous”, la prima operetta della sua carriera. È l’inizio di una nuova fase della sua vita artistica che lo vedrà diventare il protagonista assoluto della miglior stagione di un genere che i francesi chiameranno “operetta marsigliese”. La sua voce dolce, il suo sorriso e il suo ottimismo conquistano la Francia che affolla i teatri per assistere a operette come “Au pays du soleil” del 1932, “Arènes joyeuse” del 1934, “Trois de la marine” del 1935, “Un de la Canebière” del 1935 e tante altre. Anche il cinema si accorge di lui e gli affida parti importanti in commedie di successo. La sua attività non si ferma neppure negli anni dell’occupazione nazista e ciò gli crea qualche difficoltà nel periodo successivo alla Liberazione quando non pochi l'0accusano di collaborazionismo. A partire dal 1945 abbandona progressivamente il palcoscenico per dedicarsi maggiormente alla composizione. Alla fine degli anni Quaranta assume anche la direzione di vari teatri, in particolare del Théâtre des Deux-Ânes. Pensa anche di mettersi a fare l’impresario, affascinato dall’idea di scoprire nuovi talenti e accompagnarli al successo, ma è un progetto che non vedrà mai la luce. La morte lo sorprende a Marsiglia il 23 gennaio 1951 quando è da poco entrato nel suo sessantaduesimo anno di vita. Il suo corpo viene tumulato nel cimitero marsigliese di Saint Pierre, lo stesso che ospita anche le spoglie mortali di altri grandi protagonisti dello spettacolo originari di quella città, come Rellys, Vincent Scotto, Charles Helmer Ponge e l’affascinante Gaby Deslys.

22 gennaio, 2020

22 gennaio 1977 - Mai più aborti clandestini


Il 22 gennaio 1977 la Camera approva la legge che legalizza l’aborto in Italia e rende possibile l’interruzione di gravidanza all’interno delle strutture sanitarie pubbliche. Chiesta da un ampio schieramento di forze con alla testa il movimento delle donne, la legge dovrebbe, nelle intenzioni dei proponenti, sancire la fine degli aborti clandestini nel nostro paese. L’articolato prevede anche un potenziamento dell’educazione sessuale e dell’informazione, in modo da impedire che l’aborto venga utilizzato in funzione contraccettiva. Non è in questione il giudizio sull’aborto, tanto che i sostenitori della legge dichiarano: «Al di là dei giudizi morali l’aborto è e resta un dramma. Lo scopo di questa legge è quello di toglierlo dagli anfratti bui della clandestinità che arricchisce medici senza scrupoli e praticoni di paese. Ora si tratta di andare oltre, diffondendo la conoscenza sui metodi contraccettivi e portando l’educazione sessuale nelle scuole».


21 gennaio, 2020

21 gennaio 2005 – I Chemical Brothers non sono i salvatori della dance music

Il 21 gennaio 2005 esce in contemporanea in tutto il mondo Push the button un album siglato da Ed Simons e Tom Rowlands, in arte Chemical Brothers. Qualche settimana prima dell’uscita del disco i due “fratelli chimici” fanno un salto ai Magazzini Generali di Milano e si prestano a commentare un lavoro che sposta un po’ più in là il terreno di sperimentazione e di incontro tra le diverse culture musicali. Alla mescola tra dance e rock sulla quale negli anni precedenti hanno costruito il loro successo aggiungono molti elementi spiccatamente orientali ed etnici, come si può notare dal singolo Galvanize, in rotazione sulle radio qualche tempo prima, nel quale la voce di Q-Tip si muove su toni apocalittici, regalando terrore ed euforia al tempo stesso. L’album contiene anche un pezzo più marcatamente politico come Left righ. Se gliene si chiede ragione i due rispondono che la dance, posto che la loro possa ancora essere considerata dance, si muove nella realtà del mondo e nessuno può evitare di prendere posizione. «Il mondo intorno a noi è cambiato. Non siamo più negli anni Novanta, non ha più senso promuovere solo il divertimento e la fuga dalla realtà». I fratelli chimici sostengono anche che il destino del mondo è nelle mani di tutti e non ci si può chiamare fuori. Lo stesso titolo dell’album Push the button vuole essere, insieme, un monito e un invito «È un’espressione volutamente ambigua. L’idea di pigiare un bottone può assumere connotazioni negative se si pensa al rischio di una guerra nucleare; ma anche positive, se lo si intende come un invito a far accadere le cose, a essere protagonisti e, soprattutto, a diventare padroni della propria vita». A parte Q-Tip, gli altri ospiti del disco, pur non essendo nomi popolarissimi per il grande pubblico, sono stati scelti perché funzionali al nuovo disegno musicale dei Chemical Brothers. Tra loro spiccano il rapper Anwar Superstar, Kele Okereke dei Bloc Party e i Magic Numbers. Come sempre, però, nessuno di loro, salvo sorprese, salirà sul palco ad affiancare i due fratelli nel tour che partirà tra qualche settimana. I fratelli chimici non cambiano idea sulla musica dal vivo. Restano legati alle loro origini underground e agli stilemi della club culture. «Che senso ha portarci sul palco un batterista o un cantante? La band siamo noi, con le nostre idee e con i nostri suoni. Da sempre ci affascina molto di più l’idea di creare un ambiente coinvolgente, quasi da club, anche quando suoniamo in grossi spazi. E, come è ovvio, il risultato dipende molto dalle reazioni, dalle vibrazioni del pubblico. Quando abbiamo suonato a Imola siamo saliti sul palco subito dopo i Red Hot Chili Peppers, eppure siamo riusciti a intrattenere lo stesso pubblico, pur con una proposta musicale molto diversa». Non si scompongono nemmeno quando qualcuno ricorda che secondo i giornali britannici la dance è ormai giunta al capolinea. Abbozzano e tirano diritti per la loro strada: «È un punto di vista che non ci tocca. Noi facciamo quello che abbiamo sempre fatto: individuiamo spazi vuoti nella musica che sentiamo in giro e cerchiamo di riempirli. Tutto qui. Non chiedeteci di essere i salvatori della dance music».

20 gennaio, 2020

20 gennaio 1976 – La tromba nomade di Gus Deloof

Il 20 gennaio 1976 muore a Schaarbeek, Bruxelles, il trombettista Guf Deloof considerato uno dei migliori solisti di tromba dell’Europa continentale degli anni Trenta insieme a Robert De Kers, anche se a differenza di quest’ultimo è sempre stato più un solista nomade che un leader. Nato il 26 settembre 1909 sempre a Schaarbeek, all'età di dieci anni inizia a studiare il violino e a venticinque anni molla l’ambiente deciso a mettere la testa a posto e a impiegarsi in una società di assicurazioni. Non ha fatto i conti con la passione. Dopo aver ascoltato un assolo di Beiderbecke con i Wolverines, decide di imparare a suonare la tromba e nel 1925 lascia uffici e scartoffie per suonare nei locali da ballo. Nel 1927 entra a far parte dei Michigans e da quel momento la sua vita sarà un continuo girovagare. Nel 1928 prende il posto di Norman Paine nel gruppo di Spike Hughes. L’anno dopo suona con Chas Remue, nel 1930 è in Germania con Bernard Etté, nel 1931 fa parte dei Racketeers, nel 1932 suona con Willie Lewis, nel 1933 con Ray Ventura e nel 1937 con Django Reinhardt, giusto per citare soltanto le principali tappe di una carriera che culmina nel 1958 in un concerto speciale per l'Esposizione Internazionale di Bruxelles. Da quel momento rallenta l’attività senza però mai lasciare le scene. Le sue composizioni più note sono Harlem Swing, Sweeping the Floor, Easy Going, Music for Jetty, On the Ice e Bouncin' Around.

19 gennaio, 2020

19 gennaio 2006 - Wilson Pickett ci saluta e se ne va

Il 19 gennaio 2006 muore Wilson Pickett. Lo uccide un infarto nella notte (quasi In the midnight hour come recitava un suo vecchio successo) tra il 18 e il 19 gennaio in una clinica della Virginia. Ha sessantaquattro anni e da tempo il music business non si occupa più di lui, anche se non ha mai smesso di cantare nel circuito dei piccoli club. In Italia lo si ricorda quasi esclusivamente per un paio di partecipazioni al Festival di Sanremo nel 1968 quando aveva cantato Deborah con Fausto Leali e la seconda nel 1969 quando in coppia con Lucio Battisti aveva felicemente dissacrato Un’avventura. A poche ore dalla sua morte c’è già chi lo incorona come l’ennesimo “Re del soul” lasciando intendere che le case discografiche che l’avevano accantonato come un ferrovecchio stanno meditando di fare ancora qualche spicciolo sull’emozione della scomparsa. La sua popolarità è legata alla stagione del rhythm and blues e alla riscossa nera della metà degli anni sessanta di cui è stato uno dei pilastri, ma non il re, nemmeno per una notte. Pur essendo cresciuto a Detroit non si fa catturare dalla factory Motown di Berry Gordy jr, quella che porterà in alto Diana Ross, Marvin Gaye o i Jackson Five. Il soul patinato non è nelle corde della sua voce selvaggia e nervosa. La sua avventura musicale parte dal gospel e approda al rhythm and blues attraverso l’esperienza dei Falcons, il gruppo vocale con il quale centra il suo primo successo nel 1962 con I found a love. L’anno dopo pubblica per una piccola e misconosciuta casa discografica, la Double LL di Lloyd Price, un brano scritto in proprio e in cui crede molto. Si intitola If you need me e passa del tutto inosservato salvo diventare successivamente una pietra miliare della storia del rhythm and blues entrata nel repertorio di Solomon Burke, Tom Jones e Rolling Stones, solo per citare i primi che ci vengono in mente. La svolta nella sua carriera arriva nel 1964 quando accetta la proposta di trasferirsi a Memphis, la città di Elvis, cuore del rock and roll bianco, dove un pugno di neri arrabbiati e geniali sta pensando di puntare su personaggi meno levigati della banda di Detroit come lui e Otis Redding. Qui il suo stile viene rifinito dal produttore Jerry Wexler e dal chitarrista Steve Cropper che gli regala la ritmica pulsante dei Booker T. and the Mgs, un gruppo di strumentisti capaci di supportare efficacemente la carica di energia vitale che lo anima. A partire dal 1964 Wilson Pickett diventa il feroce, indisciplinato e sensuale interprete di devastanti brani di successo come la già citata In the midnight hour, 634-5789, Land of 1000 dances e Funky Broadway. Il suo canto è un urlo selvaggio che si contrappone alle armonie vocali di Smokey Robinson e Ray Charles, anche se non ha l’eclettica duttilità di Otis Redding. La sua arrogante e sfrontata presenza scenica viene vissuta dalle comunità nere come una sorta di rivincita, mentre i bianchi impazziscono per la carica ritmica e la sensualità che trasuda da quelle canzoni. Alla fine degli anni Sessanta, quando l’ondata soul e rhythm and blues dà i primi segni di cedimento, lui dopo qualche svogliato tentativo di contaminazione con il pop sceglie di non tradire l’ispirazione originaria e di continuare sulla sua strada. Pian piano però il suo spazio d’azione si riduce e il music business gli volta le spalle. Iniziano anche i guai con la giustizia aperti dall’arresto del 1974 per detenzione illegale di armi e culminati con la condanna a qualche mese di detenzione nel 1992 dopo aver investito un passante guidando la sua auto in evidente stato di ubriachezza. Tra le due date ci sono tanti piccoli fastidi con la legge e poche soddisfazioni professionali ottenute più dal pubblico dei bollenti club delle periferie che dall’ambiente del music business. Non si dà mai per vinto. La sua antica anima rhythm and blues lo tiene in vita alla faccia di tutto e di tutti. Fino a ieri quando, dopo un anno di dispetti e sussulti, il suo cuore ha cessato di battere. È arrivata così al termine un’avventura cominciata con un volo da Detroit a Memphis che lui amava raccontare così: «Quando mi hanno portato in aereo a Memphis sorvolavamo bassi i campi che circondano la città. Guardando dai finestrini ho visto un sacco di gente nera che stava raccogliendo il cotone. La visione mi ha fatto stare male e ho chiesto che mi riportassero a Detroit. A farmi desistere ci ha pensato il pilota, nero come me e come loro, che mi ha guardato negli occhi e mi ha detto: Li vedi quelli? Vai e fai loro vedere come canti. Hanno bisogno del tuo successo!».

18 gennaio, 2020

18 gennaio 1964 – Il caso dei coniugi Bebawi

Nelle prime ore del mattino del 18 gennaio 1964 a Latina la segretaria della Tricotex, una società che si occupa di compravendita di lana che ha depositi e stabilimenti nella cittadina laziale, scopre il cadavere del proprio principale, Faruk Churbagi, assassinato in modo particolarmente efferato. Qualcuno, dopo avergli gettato del vetriolo in faccia, gli ha sparato alla schiena e poi l’ha colpito a lungo sulla testa con un corpo contundente. Fin dall'inizio delle indagini appare chiaro che chi ha ucciso Churbagi lo conosce bene e ha libero accesso all'ufficio, visto che la porta d'ingresso non è stata forzata. Ben presto i sospetti si fissano sui coniugi Bebawi: Yusef, un uomo di affari di successo, e la bellissima Gabrielle, detta Claire, che dopo averlo sposato a soli tredici anni, dandogli tre figli, era divenuta l'amante di Churbagi. I coniugi Bebawi vengono localizzati ad Atene ed estradati a Roma dall’Interpol. Fin dal primo interrogatorio Yusef accusa la moglie di essere l'autrice del delitto e di averla aiutata a nascondere le prove per amore e per tutelare dallo scandalo i tre figli. Clair, a sua volta, sostiene di aver visto il marito uccidere Faruk per gelosia. Entrambe le versioni sono attendibili e nell’impossibilità di arrivare alla verità il primo processo si conclude con l’assoluzione di entrambi per insufficienza di prove. Il loro caso divide l’opinione pubblica ed entra nella storia come uno dei casi di cronaca più famosi degli anni Sessanta. Nel 1968 nel processo d’appello che si svolge a Firenze l’accusa sostiene la colpevolezza di entrambi, complici nell’omicidio premeditato e nella fuga. La vicenda si conclude con una condanna di ventidue anni di carcere per ciascuno dei due. Tanto Yusef che Claire, trasferitisi all’estero da tempo, non sconteranno nemmeno un giorno di pena.

17 gennaio, 2020

17 gennaio 1920 – Il jazz progressista di George Handy


Il 17 gennaio 1920 nasce a Brooklyn, New York, George Joseph Hendleman, destinato a lasciare un segno importante nella storia del jazz con il nome di George Handy. Pianista e arrangiatore legherà il suo nome al progetto di “jazz progressista” dell'orchestra di Boyd Reaburn. I primi rudimenti del “mestiere” li impara ancora bambino da sua madre pianista. Successivamente studia allo Juilliard Institute e alla New York University prendendo anche lezioni private da Aaron Copland, uno sperimentatore di fusioni tra folklore e jazz le cui idee influenzeranno non poco Handy che già nel 1938 suona con Michael Loring. Dopo il servizio militare, nel 1941 scrive composizioni e arrangiamenti per Raymond Scott, un pianista-arrangiatore di Brooklyn, dimostrando un buon talento. Verso la fine del 1943 entra nell’orchestra di Boyd Reaburn. Proprio con questa band si nell’esperienza del progressive-jazz avvicinando le istanze di rinnovamento del jazz alla musica colta europea contemporanea, soprattutto a quella di influenza stravinskiana, e al be bop. L’esperimento viene chiamato “advance jazz” o “progressive jazz” e i brani più significativi come Tone poem in four movements, March of the boys e Sitterburg suite composti e arrangiati da lui. Sempre in quegli anni si avvicina anche al be bop partecipando, tra l'altro, a una seduta di incisione organizzata da Ross Russell. Successivamente lavora come arrangiatore e compositore negli studios della Paramount a Los Angeles. Tra gli arrangiamenti di quel periodo sono da ricordare There's no you e Tonsillectomy. Lavora poi a New York suonando occasionalmente il piano con il batterista Buddy Rich e con il pianista Freddy Slack e scrivendo composizioni per pianoforte e balletti. Muore l'8 gennaio 1997.


16 gennaio, 2020

16 gennaio 2004 – Il Big Day Out australiano è “tutto esaurito”

A dispetto dei profeti di crisi la stagione dei grandi rockfestival mondiali del 2004 inizia sotto il segno del "tutto esaurito". Per la prima volta dopo tredici anni di storia il "Big Day Out", la kermesse itinerante australiana che segna da tempo l'inizio ufficiale dei raduni rock, annuncia di non avere più biglietti a disposizione per alcune delle date previste. Il Festival inizia ad Auckland, in Nuova Zelanda, il 16 gennaio e termina a Perth, in Australia, il 1° febbraio. I biglietti, in vendita anche online costano la non certo modica cifra di circa 100 dollari australiani. Il cartellone, pressoché completo, prevede l'esibizione di: Metallica, Strokes, Hoodoo Gurus, Muse, Dandy Warhols, Darkness, Flaming Lips, Jet, Magic Dirt, Something For Kate, Mars Volta, Basement Jaxx, Afrika Bambaataa, Datsuns, Kings Of Leon, Peaches, Black Eyed Peas, Aphex Twin, Luke Vibert, Gerling, Lostprophets, Salmonella Dub, Thursday, David Holmes, Miniscule Of Sound, Trey, Audio Bullys, Felix Da House Cat, Poison The Well, King Kapisi, P-Money And Scribe, Butterfly Effect, Downsyde, Friendly, Scribe, Sleepy Jackson, Blood Duster, Pnau, Pee Wee Ferris, Skulker, Sonicanimation, 1200 Techniques, Blindspott, Concord Dawn, DJ Philippa, Elemeno P, Goodshirt, Mareko, Mint Chicks, D4.

14 gennaio, 2020

15 gennaio 1974 – Roy Bargy, il pianista di Whiteman


Il 15 gennaio 1974 muore il pianista e arrangiatore Roy Bargy che negli anni Venti e Trenta è stato uno dei più popolari strumentisti dell'orchestra di Paul Whiteman. Nato intorno al 1900 anche se sulla sua data di nascita non ci sono certezze, dal settembre del 1920 al dicembre del 1922 è direttore musicale e pianista della Benson Orchestra of Chicago, con la quale si esibisce al Marigold Gardens e al Trianon Ballroom di Chicago. Dopo un lungo periodo come pianista in teatri, alberghi e locali notturni, a partire dal 1928 si unisce all’orchestra di Paul Whiteman con la quale resta per dieci anni suonando al fianco di Bix Beiderbecke, Frankie Trumbauer, Eddie Lang, Joe Venuti e altre stelle del firmamento jazzistico. Dai primi anni Quaranta si dedica maggiormente all’attività di organizzatore e direttore di orchestre per spettacoli alla radio.


14 gennaio 1941 - Lolo Bellonzi, dalla fanfara al jazz


Il 14 gennaio 1941 nasce a Nizza il batterista Lolo Bellonzi, all’anagrafe registrato con il nome di Charles. A sette anni picchia sul tamburo di una banda paesana, quella che tecnicamente si chiama “fanfara”. Fino a tredici anni è quella la sua scuola principale. Studia anche la fisarmonica, ma il fascino che esercitano su di lui le percussioni è irresistibile. Nel 1956 grazie anche ai consigli di Barney Wilen, comincia a dedicarsi al jazz. Alla fine degli anni Cinquanta suona sulla Costa Azzurra con vari gruppi anche se la musica è più un hobby che un mestiere. La svolta nella sua vita arriva nel 1960 quando rompe gli indugi e va a Parigi per diventare un batterista a tempo pieno. Nella capitale suona con molti musicisti statunitensi in club che hanno fatto la storia del jazz, come il Tabou, il Cameleon, il Chat-qui-Pêche, il Club Saint-Germain o il Mars Club. Fa anche parte del quintetto di Georges Arvanitas. Suona poi al Blue Note con Bud Powell, Johnny Griffin, Dexter Gordon, Lou Bennett, Kenny Drew e molti altri. Dal 1965 al 1968 è il batterista del trio di Martial Solal con cui si esibisce in numerosi concerti. In seguito lascia il jazz e diventa il batterista del cantante Claude Nougaro ma non è un addio definitivo perchè a partire dal 1979 riprende la sua attività nel campo del jazz suonando con Kay Winding, Harry Edison e con il trio di Maurice Vander.


13 gennaio, 2020

13 gennaio 1963 – Sonny Clark,il pianista frenetico


Il 13 gennaio 1963 un infarto chiude a soli trentadue anni la carriera di Conrad Yeatis Clark, in arte Sonny Clark, uno dei migliori talenti pianistici del jazz di quel periodo. Nato a Herminie, in Pennsylvania, il 21 luglio 1931 inizia a studiare pianoforte a quattro anni. All’impegno sui tasti bianchi e neri si affiancano poi alcuni corsi di contrabbasso e vibrafono per “curiosità culturale”. Nel 1940 si trasferisce con la famiglia a Pittsburgh e nel 1947 inizia a esibirsi in pubblico come pianista. Alla morte della madre si trasferisce a Los Angeles, in California, ospite di una zia. Qui comincia a farsi conoscere lavorando con Wardell Gray, Teddy Edwards, Jack Sheldon e Harold Land. Si trasferisce poi a San Francisco, dove entra a far parte di un gruppo guidato da Oscar Pettiford. Tra il 1953 e il 1956, per due anni e mezzo entra far parte del quartetto del clarinettista Buddy De Franco sostituendo Kenny Drew. Proprio con il clarinettista, tra il gennaio e il febbraio 1954, effettua anche una tournée in Europa. Chiusa quell’esperienza nel 1956 suona con i Lighthouse All Stars del contrabbassista Howard Rumsey e nel 1957 si trasferisce a New York come accompagnatore della cantante Dinah Washington. In quel periodo lavora attivamente anche in sala di incisione soprattutto per la etichetta Blue Note che lo ingaggia e come solista e come strumentista di studio. Vedono così la luce sei album a suo nome con partner quali Philly Joe Jones, Hank Mobley, Louis Hayes, Art Farmer, Paul Chambers, John Coltrane, Jackie McLean, Billy Higgins. Nello stesso periodo registra moltissimi brani al fianco di Sonny Rollins, Clifford Jordan, Curtis Fuller, John Jenkins, Johnny Griffin, Dexter Gordon, Ike Quebec e altri. A queste vanno poi aggiunte anche le registrazioni realizzate per altre case discografiche. L’intensa e frenetica attività si interrompe nel 1962, quando Clark, che da tempo era diventato un po’ troppo amico di sostanze stupefacenti viene ricoverato in ospedale perchè evidenzia i sintomi di un’infezione. Nei primi giorni del 1963, dopo alcuni mesi di degenza, viene dimesso. Tornato a casa viene colto da un infarto. A poco più di trent’anni il nome di Sonny Clark si aggiunge così alla lunga lista di giovani talenti morti prematuramente.




02 gennaio, 2020

2 gennaio 1958 - Fischi alla Callas


Il 2 gennaio 1958 la stagione lirica del Teatro dell’Opera di Roma dovrebbe aprirsi con un evento straordinario. Il cartellone prevede, infatti, la messa in scena della “Norma” di Bellini nell’interpretazione del soprano Maria Callas da poco insignita del titolo di Commendatore della Repubblica. Da tempo i biglietti per la serata sono introvabili e fin dalle prime ore del pomeriggio appassionati e curiosi si accalcano davanti all’entrata degli artisti nella speranza di vedere la ‘divina’ Callas. Quando si apre il sipario la platea e i palchi sono gremiti e ai giornalisti non sfugge la presenza, in prima fila, del Presidente della Repubblica Italiana Giovanni Gronchi. La serata sembra procedere tranquilla e senza problemi, quando, sull’ultima nota di Casta diva, la voce della Callas si appanna improvvisamente. Dalla platea e dai palchi si alza un mormorio di disapprovazione accompagnato da qualche fischio. Per il resto tutto scivola via senza scosse fino alla conclusione del primo atto, cui dovrebbero seguire quaranta minuti di intervallo. Nel foyer i giornalisti si aggirano tra gli spettatori a caccia di dichiarazioni sulla ‘stecca’ della Callas. In particolare si tenta, invano, di cogliere qualche commento sulle labbra del presidente Gronchi. Al termine dell’intervallo il pubblico rientra in sala, ma il sipario resta chiuso. Passano altri venticinque minuti ma non succede niente. La cantante, offesa e irritata per il trattamento riservatole dal pubblico, è chiusa nel suo camerino e non risponde a nessuno. Dopo molte sollecitazioni apre la porta e, con faccia dura, annuncia: «Signori, questa sera, Norma finisce qui».


01 gennaio, 2020

1° gennaio 1953 – Un’overdose uccide Hank Williams


Il 1° gennaio 1953 muore d’overdose a soli 29 anni Hank Williams, il più popolare interprete di country degli anni Quaranta, da tutti considerato l'erede delle potenzialità artistiche creative di Jimmie Rodgers autore di brani destinati a diventare classici come Jambalaya, Honky tonk blues, There'll be no teardrops tonight, You win again e Long gone lonesome blues. La morte stronca la sua carriera alla vigilia della rivoluzione del rock and roll. Nasce a Mount Olive, in Alabama, il 17 settembre 1923. Suo padre è un invalido di guerra, la madre un'organista di chiesa. Gli regalano la sua prima chitarra quando è ancora bambino e a undici anni suona già alle serate da ballo del sabato sera in un cantiere ferroviario. L'anno dopo suona agli angoli delle strade insieme a un cantante nero, vendeva noccioline e lucidava scarpe. Nel 1937, a quattordici anni dopo aver vinto un concorso viene assunto da una radio locale per esibirsi un paio di volte la settimana. Inizia così a girare i paesi dell'Alabama con un gruppo country su un furgone guidato dalla madre, che gli fa anche da manager. Nel 1944 arriva a Nashville. Ha ventun anni ma è già considerato un veterano del circuito country. Nel 1947 incide il primo disco e nel giro d’un paio d’anni domina le classifiche dei dischi più venduti. La stagione del suo successo è brevissima perché, tormentato da fortissimi dolori alla schiena, diventa sempre più dipendente dall'alcool e da sostanze stupefacenti. Nel 1952 ha già alle spalle un divorzio e un licenziamento. Rimasto solo come un cane muore nel primo giorno dell’anno. Dopo la morte le sue canzoni tornano ai vertici delle classifiche regalando ricchezza a chi l’aveva appena licenziato.


29 dicembre, 2019

29 dicembre 1947 – Cozy Powell, un batterista migratore


Il 29 dicembre 1947 vede la luce Cozy Powell, uno dei personaggi più singolari del rock degli anni Settanta e Ottanta. Batterista eclettico e dotato di notevole personalità attraversa la storia di alcune tra le più importanti band di quel periodo senza fermarsi mai, inseguendo sempre nuovi progetti. C’è chi l’ha definito «... un migratore per scelta e per indole alla ricerca di un luogo nuovo da cui ripartire». Per lui le regole del music business e anche il successo sembra non interessarlo se lo ostacola nella realizzazione dei suoi progetti. Il suo debutto avviene alla metà degli anni Sessanta con i Sorceres, una band destinata a godere di una discreta popolarità negli anni successivi con il nome di Youngblood. Proprio quando i suoi compagni stanno per cogliere i primi successi Powell migra e si unisce ai Big Betha, un gruppo senza storia che avrà vita breve. Nel 1971 è il batterista del Jeff Beck Group con cui realizza i due album come Rough and ready e The Jeff Beck Group destinati a restare nella storia del rock di quel periodo, ma l’anno dopo se ne va per formare i Bedlam, una band che lascia dopo un solo album per seguire un nuovo progetto. Dà vita ai Cozy Powell's Hammer e pubblica due singoli di successo prodotti da Micky Most, uno dei migliori produttori britannici. Nel 1975 forma una nuova band, gli Strange Brew. Finito? Tutt’altro. Gli Strange Brew non sopravvivono neppure una stagione perché Cozy accetta l'offerta dell'ex chitarrista dei Deep Purple Ritchie Blackmore di dar vita ai Rainbow. In questo gruppo sembra finalmente aver trovato la sua dimensione, ma, improvvisamente, nel 1980 se ne va per dar man forte al chitarrista Michael Shenker, che ha appena lasciato gli Scorpions. Collabora all'album Pictures at eleven di Robert Plant , ma non rinuncia alla realizzazione di alcuni progetti in proprio. La sua anima da giramondo lo porta poi negli Whitesnake di David Coverdale e in una singolare avventura con Keith Emerson e Greg Lake, con i quali forma lo strano trio Emerson Lake & Powell. Nel 1989 si unisce ai Black Sabbath, che lascia dopo breve tempo per vagabondare ancora tra le più diverse esperienze e collaborazioni. Muore all'età di cinquanta anni il 5 aprile 1998 per un incidente automobilistico.

14 dicembre, 2019

14 dicembre 1963 – Dinah Washington, la regina del r & b


La sera del 14 dicembre 1963, nella sua casa di Detroit, la cantante Dinah Washington è tesa, stanca e terrorizzata dall'insonnia che la perseguita. Sta per iniziare una nuova tournée e, proprio per questo, si è sottoposta a una cura dimagrante che l'ha stroncata psicologicamente e fisicamente. Da un po' di tempo, però, ha trovato un modo efficace per combattere l'ansia: una buona dose di alcolici e un potente sonnifero. Un suo amico medico l'ha messa in guardia contro questa mistura, ma lei si è accorta che la fa dormire meglio. Anche questa volta segue il suo metodo, ma è l'ultima. La mistura micidiale l'uccide. Muore così, a trentanove anni, quella che è stata chiamata la Regina del rhythm & blues. Nata a Tuscaloosa, in Alabama, dove è registrata all'anagrafe con il nome di Ruth Jones, si trasferisce ancora bambina a Chicago con la famiglia. Le sue prime esperienze musicali hanno per sfondo gli interni della chiesa battista del South Side della sua città dove suona il pianoforte e canta nel coro gospel. Ben presto la sua attività si allarga al di fuori del quartiere e a soli sedici anni viene scritturata dalla grande cantante gospel Sallie Martin che la inserisce nel primo gruppo interamente femminile della storia del gospel. Nel 1943 Joe Glaser la ascoltata al Garrick's Bar di Chicago e la presenta a Lionel Hampton che la vuole nella sua orchestra. Da quel momento abbandona il suo vero nome e diventa Dinah Washington. Tre anni dopo lascia Hampton e inizia a muoversi da sola. Scritturata dalla Apollo pubblica i primi dischi di rhythm and blues. Il grande successo arriva, però, nel 1948, quando passa alla Mercury e pubblica una versione di West side baby che fa gridare al miracolo la critica. Negli anni Cinquanta diventa la Regina del rhythm & blues con un numero incalcolabile di presenze al vertice della classifica discografica di quel genere musicale. All'inizio degli anni Sessanta rinnova il repertorio e forma un duo di successo con Brook Benton. Alle soddisfazioni artistiche fa da contraltare una vita privata costellata da delusioni e problemi. Con sette matrimoni alla spalle e un difficile rapporto con i discografici, alla fine del 1962 è quasi tentata di lasciar perdere tutto. Ci ripensa nell'estate del 1963. Si prepara con cura al ritorno sulle scene, riprende a provare in sala e in palcoscenico, ma la tensione dell'attesa la soffoca. Tutto finisce la sera del 14 dicembre con l'aiuto dell'alcol e del sonnifero.



09 dicembre, 2019

9 dicembre 2002 – “Terra Maris” degli Indaco


Lunedì 9 dicembre 2002 a La Palma Club di Roma viene presentato rigorosamente dal vivo Terra Maris, il nuovo album degli Indaco, la band formata nel 1996 dall'incontro di Rodolfo Maltese, chitarrista del Banco del Mutuo Soccorso, con il polistrumentista Mario Pio Mancini e il percussionista Arnaldo Vacca. Una delle caratteristiche di questo gruppo è sempre stata quella di mettere in difficoltà gli amanti delle definizioni "strette" di stile, di coloro, cioè, cui piace incasellare in una sorta di schema qualunque esperienza musicale. Gli Indaco, da questo punto di vista, sono difficilmente definibili, visto che si muovono in un'area vasta di contaminazioni tra stili di confine, mescolando la world music, la new age, l'ambient, l’etno-rock e l’etno-jazz. Per Terra Maris, che è il quarto album della loro storia, approfittano della presenza di ospiti prestigiosi come Eugenio Bennato, Mauro Pagani, Daniele Sepe, Paolo Fresu, Andrea Parodi e altri, per spostare in avanti la loro ricerca. Il risultato sono undici brani di notevole intensità con un filo conduttore interno e parecchie variazioni stilistiche. La novità più rilevante è data dalla maggior presenza, rispetto al passato, di brani cantati, frutto dell'allargamento della formazione storica composta da Rodolfo Maltese, Mario Pio Mancini, Arnaldo Vacca, Pierluigi Calderoni, Luca Barberini e Carlo Mezzanotte alla voce particolare di Gabriella Aiello. Il risultato è un'opera decisamente più matura delle tre precedenti che non rinuncia a confrontarsi con le esperienze più interessanti del panorama musicale mediterraneo. Quattro brani lasciano il segno. Il primo è Amargura giocato sulle voci della Aiello e di Andrea Parodi, l'ex vocalist dei Tazenda oggi scomparso. Il secondo è la ballata Terza Qualità composta e interpretata da Eugenio Bennato, nelle cui atmosfere si coglie l'eco dell'esperienza dei Musicanova e il terzo è il sofisticato Aran debitore di parte della propria suggestione alla tromba di Paolo Fresu. Ultimo, ma solo in ordine d'esposizione, è un Norvegian wood lontanissima per ispirazione e per clima dall'originale dei Beatles. Come in un gioco di specchi gli Indaco nascondono Lennon e McCartney dietro alle evoluzioni di un etno-jazz originale e, talvolta, eccentrico. Chi cercasse i Beatles li può ritrovare soltanto verso il finale quando, come uscendo da un cilindro magico, l'esecuzione ritorna sui binari originali.




23 novembre, 2019

23 novembre 1985 – Joe Turner, grande non soltanto per la mole


Il 23 novembre 1985 un infarto chiude per sempre la carriera di Big Joe Turner una delle grandi voci del blues, considerato un “padre nobile” del rock and roll e del rhythm and blues. Ha settantaquattro anni e da almeno quaranta si muove a fatica a causa di un’acuta e dolorosa forma d’artrite, oltre che per la mole che gli è valsa il nomignolo di “Big Joe”. Canta quasi sempre da seduto appoggiandosi al suo bastone. Con la sua voce piena e dai toni baritonali è stato un esponente di primo piano del “blues di Kansas City”, quel genere in cui la vena triste e malinconica del blues rurale è stata soppiantata da un’atmosfera maliziosa e divertita che ha posto le basi per l’avvento del rhythm and blues. Negli anni Cinquanta, poi, è maestro e anticipatore del rock and roll. A lui si devono le prime versioni di brani entrati di prepotenza nella storia della musica di quel periodo come Corrine, Corrine, Flip flop and fly e Shake rattle and roll. Nato a Kansas City, nel Missouri, il 18 maggio 1911 come molti ragazzi neri arriva alla musica quasi per caso. Comincia, infatti, a cantare il blues con vari gruppi della sua città nei momenti liberi che gli lascia il lavoro. Verso la fine degli anni Venti coltiva qualche ambizione in più e inizia a collaborare con il pianista boogie Pete Johnson. La sua carriera prende decisamente il volo soltanto a partire dal 1938, quando si occupa di lui un grande talent scout come John Hammond che lo porta a New York e gli procura varie scritture. Ha molti amici tra i jazzisti con i quali coltiva saltuari rapporti di collaborazione che a volte sfociano in splendidi album come The bosses: Joe Turner – Count Basie, con l'orchestra di Count Basie, o The trumpet kings meet Joe Turner, con Dizzy Gillespie, Roy Eldridge, Harry Sweet Edison e Clark Terry. Alla fine degli anni Settanta, con l’avanzare dell’età e la sempre più ridotta capacità di movimento, riduce i suoi impegni, senza però rinunciare a coltivare nuovi progetti. Nell’estate del 1985 si torna a parlare di un suo possibile ritorno in sala di registrazione per una sorta di antologica carrellata sulla sua carriera insieme a molte star del rock. La morte improvvisa cancella il progetto.



06 ottobre, 2019

6 ottobre 1967 - Il funerale degli hippies


Il 6 ottobre 1967 tutte le comuni hippie situate nel circondario di San Francisco si radunano in città. Una moltitudine di ragazzi e ragazze vestiti a lutto si avvia in un lungo e silenzioso corteo che percorre le vie principali. Ai bordi delle strade percorse dalla singolare processione altri ragazzi distribuiscono volantini che spiegano ai passanti come tutte le comuni abbiano deciso di celebrare “la morte degli hippie”. Il movimento hippie fa il funerale a se stesso per protestare contro lo sfruttamento commerciale della sua immagine, delle sue idee e della sua stessa esistenza. «Questo mondo non ci piace. Siamo nati per cambiarlo e il consumismo ha scoperto che anche la nostra voglia di cambiamento può diventare merce. Per questo il movimento è morto e oggi lo accompagnamo nel suo ultimo viaggio». Basta guardarsi intorno per capire quali siano i fenomeni cui fanno riferimento i ragazzi delle comuni. Le vetrine di San Francisco, i bar, i ritrovi, tutto è stato colorato da fiori. La scritta "Peace and love" campeggia su un numero impressionante di oggetti e capi di vestiario in vendita. A partire dall'aprile di quell'anno la Greyhound, la più famosa compagnia statunitense di pullman, ha addirittura inaugurato un singolare giro turistico tra le varie comuni hippie di S. Francisco. «Adesso basta, non si possono vendere le idee». Un movimento culturale ed esistenziale nato dalla ribellione al consumismo sta diventando esso stesso oggetto di consumo. Al di là del gesto simbolico, il funerale segnerà davvero la fine di una fase nella storia degli hippies. Di lì a poco il movimento si spezzerà in due tronconi. Uno, sull'onda del "flower power", finirà per rifugiarsi sempre più in una sorta di individualismo di massa finalizzato alla felicità interiore e lontano dalle questioni sociali. L'altra scoprirà la politica e affiancherà l'impegno alle esperienze di vita comunitaria finendo poi per confluire nelle grandi battaglie pacifiste e per i diritti civili che di lì a poco infiammeranno gli States.



05 ottobre, 2019

5 ottobre 1973 – La sorprendente vitalità di Alvin Stardust

Il 5 ottobre 1973 viene pubblicato in Gran Bretagna il singolo My coo ca choo, un brano scatenato e divertente in linea con il glam rock che in quel periodo fa impazzire i giovanissimi consumatori di musica di quel paese. I teen-ager britannici lo accolgono entusiasticamente e in breve tempo lo portano ai vertici della classifica dei dischi più venduti. C’è, però, un giallo legato all’identità dell’interprete. La copertina del disco attribuisce l’esecuzione a un certo Alvin Stardust, un nome che nessuno ha mai sentito e di cui nessuno sa nulla. Per un po’ i giornali si divertono a ipotizzarne l’identità immaginando che si tratti dell’avventura solistica del cantante di uno dei tanti gruppi glam del periodo, finché la verità viene a galla. In realtà dietro allo pseudonimo si cela il ritorno sulle scene di un adolescente di… trentun anni. È Bernard Jewry, che, con il nome di Shane Fenton era stato, insieme al suo gruppo, i Fentones, uno dei principali esponenti del rock and roll britannico prima del ciclone Beatles. La rivelazione preoccupa non poco i dirigenti della sua casa discografica, perché temono che l’età di Alvin Stardust possa comprometterne l’immagine e la popolarità presso il pubblico dei più giovani. I timori non sono infondati. La moda del glam, fatta di brani dalla grande cantabilità e dai testi disimpegnati, è soprattutto una scelta generazionale che contrappone i gusti degli adolescenti al rock più impegnato e concettuale dei loro fratelli maggiori. Il meno preoccupato è lui. «Perché dovrei? A parte l’età, cosa mi divide da gruppi come gli Slade o gli Sweet? Il glam segna il ritorno del rock al divertimento puro, senza ideologie e senza tante complicazioni. Io sono così». Non ha torto. Per un paio d’anni quell’adolescente un po’ stagionato dominerà le classifiche di vendita, ma poi i suoi giovani fans cresceranno e con la crisi del glam dovrà rassegnarsi a tornare nell'ombra. La sua storia, però, non finirà lì. Nel 1981 l’etichetta alternativa Stiff, incuriosita dalla storia di questo strano dinosauro del rock britannico, lo richiamerà in servizio. Per la terza volta in vent'anni Bernard Jewry, ancora con il nome di Alvin Stardust, tornerà al successo con una serie di brani come Pretend, I feel like Buddy Holly e I wan't run away ispirati al rock and roll delle origini. Muore il 23 ottobre 2014.