
Il 2 dicembre 1990 muore Sergio Corbucci, un grande creatore di pellicole di successo. La sua morte avviene a Roma la stessa città in cui è nato il 6 dicembre 1927. Non ha ancora vent’anni quando entra in contatto con il mondo del cinema lavorando come giornalista. Le sue prime esperienze sul campo iniziano nei primi anni Cinquanta quando diventa aiuto di un celebre artigiano del cinema dell’epoca come il regista Aldo Vergano. Varie sceneggiature prevalentemente di commedie precedono il suo debutto alla regia nel 1951 con il drammone Salvate mia figlia. Dotato di un buon intuito e di un notevole eclettismo si cimenta con successo nei generi più disparati. Il primo grande successo arriva nel 1961, con I due marescialli, una commedia degli equivoci interpretata da Totò e Vittorio De Sica. Tra i principali protagonisti della stagione del western all’italiana ottiene negli anni successivi grandi successi dirigendo attori come Giancarlo Giannini, le coppie Renato Pozzetto – Adriano Celentano, Vittorio Gassman – Paolo Villaggio e Bud Spencer Terence Hill, Nino Manfredi, Marcello Mastroianni, Laura Antonelli, Enrico Montesano e molti altri. Con i suoi amici Sergio Leone e Duccio Tessari è stato considerato uno dei migliori esponenti del western all’italiana, genere nel quale gioca a rovesciare gli stereotipi fissando nuove regole destinate a essere superate dalla pellicola successiva. Se in Django la scelta è quella di portare all’estremo la concezione dell’antieroe, in Johnny Oro del 1966 porta nella storia un branco di cattivissimi apaches rompendo la convenzione tacita dei western all’italiana che esclude di ricalcare la contrapposizione tutta statunitense tra “indiani e cow boy”. L’anno dopo si ripete con Navajo Joe un film che ha per protagonista un indiano interpretato dal quasi debuttante Burt Reynolds. Il gusto per l’azzardo narrativo lo porta a far vincere il cattivo e morire il buono ne Il grande silenzio del 1969 mentre le scommesse sui personaggi lo spingono a far debuttare la rockstar francese Johnny Halliday nel ruolo da protagonista ne Gli specialisti, sempre del 1969.















Con la sua testa bionda, l’aria dissociata da adolescente imprigionata in un corpo adulto, la geniale e scostante presenza scenica e una voce capace di arrampicarsi in pericolose evoluzioni senza farsi male torna il 15 novembre 2005 torna in Italia Scout Nibblet. La cantante, batterista e chitarrista britannica con la sua disarmante follia e i suoi brani dalle atmosfere scarne e aggressive ha conquistato anche un personaggio difficile come lo scontroso Steve Albini, uno dei guru del rock indipendente statunitense. Proprio lui, già produttore di gruppi come i Pixies o i Nirvana, ha prodotto il suo terzo album Kidnapped by Neptune arrivato nei negozi nei primi mesi del 2005, due anni dopo il buon successo di I Am. L’irrequieta artista è attesa da un tour italiano che inizia il 15 novembre a Bologna e prosegue il 16 a Roma, il 17 a Napoli, il 19 a Cavriago e il 20 a Milano. Non è la prima volta che la ragazza arriva dalle nostre parti, visto che pochi mesi prima fa ha aperto le date del tour dei Kills ma quello era solo un assaggio, una specie di anteprima, una scusa per mettere in mostra la merce senza concedere troppo ai potenziali acquirenti. Questa volta arriva in proprio con una spalla d’eccezione come Todd Trainer, il batterista degli Shellac. Ogni concerto fa storia a sé, come un’opera unica, perché da sempre Scout Nibblet è abituata a seguire l’ispirazione del momento senza ripetersi mai. È il suo stile, una linea da cui non ha derogato mai, neppure nella produzione discografica dove dopo il successo di I Am invece di ripetersi ha preferito spostare più in là la sua ricerca camminando su nuove strade ricche di sensualità e di allusioni sonore attraversando territori inesplorati dove il lirismo del rock fa l’amore con la poesia. Come talvolta succede di fronte alla genialità la critica si è divisa di fronte a questa «…bambina isterica in un corpo di donna che… guarda fisso nel vuoto e urla, percuotendo un grosso tamburo oppure sussurra con un filo di voce delle minimali e molto poetiche ninne-nanne…» e, alla fine un po’ «…affascina, e un po’ fa paura». Chi guarda al di là delle apparenze scopre che sotto quella parrucca bionda c’è un’artista geniale che si inserisce a pieno titolo allo stesso filone cui appartengono Cat Power o le CocoRosie e non lascia mai indifferenti. Chi non l’ama ne è spaventato. Il suo stile e i suoi brani intimoriscono soltanto chi non sa accettare la follia creativa in un’epoca in cui la musica di plastica sembra obnubilare le coscienze. Chi non si ferma alla superficie si innamora perdutamente di questa giovane autrice dai mille talenti dotata di una voce che rapisce e di grandi performance strumentali. Batteria, pianoforte, chitarra, basso e altre diavolerie sonore non hanno segreti per questa ragazza capace di suonare ogni cosa ritenga indispensabile alla sua espressione artistica. C’è una band al completo nascosta in quella figura piccola, da fatina, che ammicca allusiva nascosta dalla sua inseparabile parrucca bionda. Ogni suo concerto è un’avventura sonora e sensoriale. La forza del suo stile nelle esibizioni dal vivo è in un’apparente semplicità che prima cattura l’attenzione e poi si snoda progressivamente passando dalla più nuda linearità alla distorsione più intricata, accarezzando, mordendo, graffiando l’anima di chi ascolta. Ogni concerto è un camaleontico mosaico di suoni ed emozioni in cui Scout Nibblet si muove come un serpentello nella stagione della muta, cambiando pelle, colore e atteggiamento. È anche un gioco di potere crudele e affascinante al tempo stesso in cui l’artista è la predatrice e lo spettatore la preda. Il viso angelico e la voce magnetica hanno la stessa funzione del canto delle sirene nella mitologia greca. Servono a disarmare l’anima di chi ascolta, sgretolarne le difese, ripulirla dal sedime dell’abitudine per consentire l’ingresso in universo artistico ricco di contraddizioni e distonie che si muove sull’onda di un rock graffiante, irrequieto, incapace di restare tranquillo nella sua definizione. È come specchiarsi in uno stagno apparentemente tranquillo e scoprire che l’immagine rimandata è confusa, alterata, quasi distorta e proprio nella sua diversità dal reale trova una nuova sublimazione. 
