Quello che viene chiamato "rock" non è soltanto un genere musicale. È uno stato d'animo, un modo d'essere che incrocia la musica, il cinema, la letteratura, il teatro e la creatività in genere compresa quella destinata alla produzione industriale. Per chi è nato negli anni Cinquanta e Sessanta è un sottofondo, una colonna sonora di ogni momento della vita, di pensieri e ricordi. Esiste da sempre e aiuta a vivere meglio...
Il 30 giugno 1953 esce dalla fabbrica di Flint, nel Michigan, una località non lontana da Detroit, il primo esemplare della Corvette. Lo guida Tony Kleiber, un dipendente della Chevrolet che passa alla storia come la prima persona che abbia guidato una Corvette di serie. Alla fine dell’anno saranno trecento le vetture prodotte, tutte di colore bianco latte. Nel dicembre del 1953 inizia il trasloco della produzione, destinata a essere trasferita nello stabilimento di St. Louis nel Missouri. In pochi immaginano che quel modello finirà per superare di molto il milione di esemplari venduti, mantenendo intatto il suo fascino fino alla nascita del nuovo millennio. Con la Corvette il sogno americano inizia a viaggiare su quattro ruote. Nell’immaginario collettivo questa vettura evoca Hollywood, le corse lungo la Route 66, i viaggi on the road, l’illusione di una potenza infinita accompagnata da una tecnologia innovativa che supera i confini del tempo. La sua storia inizia in quello stesso 1953 che vede la fine della Guerra di Corea e l’uscita del primo numero di Playboy. Sono gli anni che seguono il grande conflitto mondiale e molti soldati americani che avevano vissuto in Gran Bretagna in attesa del D-Day che avrebbe portato alla resa finale della Germania, sono tornati in patria accompagnati dal fascino veloce dei modelli sportivi inglesi: MG su tutti, ma anche Triumph, Austin-Healey e Jaguar. Il successo delle auto sportive d’oltreoceano stimola l’idea di una risposta americana. La sfida viene raccolta da due uomini, Harley Earl, responsabile dello Style Center della GM, oltre che l’ideatore delle enormi pinne della Cadillac, e Ed Cole, ingegnere capo della Chevrolet, appassionato di vetture sportive. In poche settimane i due costruiscono un modellino tridimensionale che nel giugno 1952 viene presentato alla direzione della General Motors. Il debutto in pubblico della Corvette avviene il 17 gennaio 1953 nel lussuoso salone da ballo del famoso Waldorf Astoria Hotel di New York, che ospitava il General Motors Motorama con vari modelli del gruppo, diretto da Charles Wilson. Il prototipo ottiene un grande successo e, sei mesi più tardi, il 30 giugno, il primo esemplare esce dalla fabbrica di Flint. Inizia così l’avventura della Corvette.
Il 29 giugno 2000 muore Germaine Montéro, uno dei personaggi chiave della nuova canzone popolare francese del Novecento. Un po’ spagnola, un po’ francese, ma soprattutto cittadina del mondo non ama troppo le distinzioni assolute né nella vita né nell’arte. Come molti altri personaggi di spicco del periodo d’oro degli chansonniers preferisce non farsi rinchiudere in un ruolo o in un ambito artistico troppo specifico. Non è un’eccezione, ma in sintonia con il periodo artistico nel quale vive. L’elemento centrale dell’epoca nella quale crescono e si affermano le mille sfaccettature della nuova canzone popolare francese del Novecento, infatti, è la sua interdisciplinarità. Teatro, cinema, canzone, poesia, letteratura e perfino la pittura e la scultura si mescolano in un mélange magico e prezioso che rende unico e irripetibile quel periodo. Sono anni nei quali nessun artista fa una cosa sola e tutti sono animati dalla convinzione che soltanto dalla contaminazione tra le varie forme d’arte possano nascere ed evolversi idee nuove. L’Ottocento delle specializzazioni e della separazione artistica figlia della separazione sociale viene superato da un nuovo secolo nel quale, come accadeva nel Rinascimento italiano, la curiosità vale più dello studio e la sperimentazione diventa una forma d’apprendimento per chiunque voglia incamminarsi sui sentieri dell’arte. Negli anni di quella che forse un po’ impropriamente viene chiamata “epopea degli chansonniers”, i poeti scrivono canzoni e film come Jacques Prévert o si sperimentano in qualità di registi teatrali come accade a Garcia Lorca. È un periodo speciale nel quale anche i pittori come Pierre Dumarchey, scrivono canzoni con il nome d’arte di Pierre Mac Orlan. I loro brani vengono poi cantanti da attori e attrici cui la prosa e la poesia sembrano più povere se non vanno a braccetto con la melodia. Germaine Montéro è figlia di questi tempi speciali. Attrice teatrale e cinematografica di grande talento si innamora perdutamente della canzone e quando serve non esita a tradire le altre sue passioni per seguirne le lusinghe e le suggestioni. Nasce il 22 ottobre 1909. Il nome con il quale viene registrata all’anagrafe è Germaine Berthe Caroline Heygel. Suo padre è originario dell’Alsazia, una regione tormentata e contesa per molto tempo tra Francia e Germania. Fin da piccola coltiva una grande passione per il teatro che la famiglia incoraggia. «Questa ragazza sembra nata nella Grecia classica! Nelle sue vene scorre lo stesso furore artistico dei grandi protagonisti della teatro ellenico...». Pronunciata da una delle tante insegnanti che ne accompagnano la crescita artistica la frase convince la famiglia della giovane Germaine che i sacrifici fatti per quella figlia folgorata dal teatro non sono vani. Serve allo scopo anche se è fondamentalmente falsa visto che nel teatro della Grecia classica le donne non avevano alcuno spazio. La sua prima esperienza da protagonista sul palcoscenico di un teatro vero con un pubblico altrettanto vero avviene alla fine degli anni Venti quando all’età di diciotto anni esordisce a Madrid in un lavoro scritto e diretto dal poeta Federico Garcia Lorca che stravede per quella giovane attrice dall’accento così singolare. Nella capitale iberica trova anche il nome d’arte spagnoleggiante di Germaine Montéro che per qualche anno utilizza in modo saltuario. A volte è Germaine Heygel, altre Germaine Montéro. Tornata in Francia si sente investita della missione di far conoscere i lavori teatrali di Federico Garcia Lorca. È lei la prima a rappresentare “Bodas de sangre”, “Yerma” e “La casa de Bernarda Alba”, le opere che compongono la famosa “trilogia” del poeta spagnolo che nella versione francese diventano, rispettivamente, “Noces de sang”, “Yerma” e “La maison de Bernarda Alba”. Pian piano Germaine Montéro diventa uno dei personaggi di spicco della tumultuosa scena artistica della Francia degli anni Trenta attraversata da grandi pulsioni intellettuali, dal sogno dell’interdisciplinarità e dall’idea ricorrente di togliere di mezzo i confini tra i popoli, causa non secondaria delle guerre. Per i suoi amici più impegnati lei rappresenta un po’ il simbolo vivente dell’eliminazione delle barriere tra i popoli con quel nome d’arte spagnolo, la nazionalità francese e il cognome che denuncia la provenienza alsaziana della sua famiglia. Nella stimolante Parigi degli anni Trenta l’attrice Germaine Montéro si lascia sedurre dalla musica. Non è un fugace amore a prima vista ma il frutto di una lunga e intensa frequentazione con gli ambienti più aperti dell’avanguardia parigina. Un ruolo decisivo nella sua maturazione hanno le esperienze vissute con la sua amica cantante e attrice Agnès Capri, fondatrice e protagonista insieme a Paul Nizan, Louis Aragon e Marx Ernst dell’Association des Artistes et Écrivains Révolutionnaires (Associazione degli Artisti e Scrittori Rivoluzionari). Agnès è una delle poche donne di spettacolo che possa vantarsi di essere riuscita nel difficile compito di scandalizzare la tollerante capitale francese. È accaduto in un giorno di Pasqua quando ha celebrato la ricorrenza religiosa con la recita sul palcoscenico dell’ABC del rabbioso Padre Nostro di Jacques Prévert («Padre nostro che sei nel cieli, restaci...»). Instancabile propugnatrice di una costante contaminazione tra le varie arti, nel 1938 apre un proprio locale in Rue Molière, Le Capricorne, che diventa rapidamente il punto d’incontro della composita schiera di artisti che compongono il Gruppo Ottobre, da Jacques Prévert a Michel Vaucaire a Joseph Kosma. Nel locale c’è un palcoscenico dove chiunque può salire e fare quello che gli frulla in testa: cantare, suonare, ballare, recitare o esibirsi in intriganti esercizi di destrezza. Proprio su quel palcoscenico Agnès Capri presenta per la prima volta al pubblico canzoni come Deux éscargots s’en vont à l’enterrement o La pêche à la baleine i cui testi, nati dalla geniale follia poetica di Jacques Prévert, scorrono sinuosi sulle melodie un po’ visionarie di Joseph Kosma. Qui una sera anche Germaine Montéro cede alla seduzione della musica e si esibisce per la prima volta come cantante lanciandosi in una personalissima interpretazione di un brano di Prévert. Ben presto le sue esibizioni diventano un appuntamento fisso mentre il repertorio comincia ad allargarsi anche al di fuori della limitata schiera di brani composti dalla coppia Prévert-Kosma per abbracciare versi e musiche di altri protagonisti del periodo, a partire da Aristide Bruant. Nelle serate al Capricorne di Rue Molière Germaine Montéro ha incontrato la canzone. È sbocciato un amore destinato a non spegnersi più e a lasciare segni importanti. Cantante poco disposta a cedere alle suggestioni commerciali predilige quei brani nei quali la poesia si mescola con la musica. Oltre ai già citati Prévert e Bruant, nella sua lunghissima discografia figurano canzoni di François Béranger, Léon Xanrof, Pierre Mac Orlan, Boris Vian, Léo Ferré, Mouloudji e tanti altri poeti-chansonniers. Sfruttando la perfetta conoscenza della lingua spagnola incide anche una serie di album dedicati alla canzone iberica popolare e colta dei primi anni del Novecento. Nonostante l’impegno e i successi in campo musicale Germaine Montéro, convinta che le passioni esclusive finiscano per impoverire la qualità artistica, non dimentica di essere un’attrice teatrale e nel corsoi della sua lunga carriera, oltre alle opere di Garcia Lorca, porta sui palcoscenici di Francia lavori di Paul Claudel, Luigi Pirandello e, soprattutto Bertold Brecht (indimenticabile è la sua interpretazione in “Madre coraggio” nel 1967 al fianco di Jean Villard). Non rinuncia neppure a sperimentarsi nel cinema dove debutta nel 1934 in una parte minore e con il suo vero nome nel film “Sapho” di Léonce Perret. Nel 1940 è la protagonista de “Il peccato di Rogelia Sanchez” di Carlo Borghesi e Roberto de Ribòn. Da quel momento anche nell’ambiente cinematografico il suo nome è uno dei pochi capaci di mettere d’accordo pubblico e critica. Nonostante il passare degli anni non abbandona la scena fino alla morte che la sorprende il 29 giugno 2000 a Saint-Romain-en-Viennois.
Il 28 giugno 1888 nasce a New Orleans, in Louisiana, Chicken Henry, uno dei personaggi più interessanti del jazz delle origini. Oscar Henry, questo è il suo vero nome, inizia a suonare il pianoforte quando ha dodici anni sotto la guida di Louise Adler, una delle più stimate insegnanti di New Orleans. Dopo aver frequentato vari corsi di perfezionamento presso la Straight University Chicken Henry fa il suo debutto professionale come pianista nei bordelli della sua città intorno al 1906. Deciso a fare del pianoforte la sua unica fonte di sostentamento nel 1913 si trasferisce a Chicago esibendosi in vari club del South Side. Proprio quando si parla di lui come di uno dei solisti di maggior talento nel 1919 resta coinvolto in un grave incidente nel quale perde l’uso di varie dita. Intenzionato a non abbandonare l’ambiente musicale è costretto ad abbandonare il pianoforte per il trombone. Continua a lavorare come trombonista a Chicago fino all’inizio degli anni Trenta anche se la sua capacità professionale non è neppure paragonabile a quella dimostrata al pianoforte. Nel 1932 rientra a New Orleans dove si esibisce in vari cabaret con numerosi gruppi tra cui quello di Paul Beaullieu. Nel 1935 assieme a Louis Nelson entra a far parte della W.P.A. Brass Band di Louis Dumaine. Il suo ultimo importante ingaggio è quello con la brass band di Kid Howard poi di lui si perdono le tracce.
Il 27 giugno 1924 nasce a Wépion, in Belgio, il pianista Jean Fanis. Suo padre e suo nonno hanno un laboratorio-bottega dove vendono e aggiustano ogni genere di tastiera. Per lui è quasi inevitabile cominciare già da bambino a pigiare con le dita sui tasti bianchi e neri. Dopo aver preso lezioni private di pianoforte va alla scuola di musica e al conservatorio di Namur dove lo sorprende lo scoppio della seconda guerra mondiale. Dopo lo sbarco degli alleati in Normandia e la liberazione dai tedeschi inizia a suonare in vari locali. All’Alpha club incontra il vibrafonista Sadi con il quale suona, insieme a Francy Boland e Chris Kellens nei club delle truppe statunitensi acquartierate in Belgio. Si reca poi con Sadi ad Anversa, dove abita con il batteri sta Rudy Frankel e dove incontra Jack Sels con il quale si trasferisce in Germania, sempre per suonare nei club dell'esercito a stelle e strisce. Obbligato da un disturbo alla vista a tornare in Belgio va a vivere a Bruxelles e a partire dal 1952 diventa il pianista fisso della Rose Noire, il club di jazz più noto della città. Nel 1956 decide di cambiare aria. Con il batterista Al Jones e il bassista Roger Vanhaverbeke forma un trio destinato a diventare anche il nucleo centrale del quintetto di Jack Sels e del quartetto di Sadi. A partire dagli anni Sessanta suona con quasi tutti i grandi protagonisti della scena jazz europea e statunitense non disdegnando di tanto in tanto di compiere qualche incursione nel pop e nel rock. A partire dal 1977 torna quasi esclusivamente al jazz come solista.
Il 26 giugno 1939, a Berceto in provincia di Parma nasce Marisa Terzi. Allieva del mastro Paolo Cavazzini mostre particolari doti vocali e una spiccata passione per il jazz. Nel 1956, a diciassette anni, vince il Festival del Jazz di Reggio Emilia con Moonlight in Vermont, un classico del repertorio di Backburn. La sua presenza scenica e le sue caratteristiche vocali ne fanno un’interprete ideale anche per le canzoni destinate al pubblico più giovane. Nel 1961 si fa apprezzare alla Sei Giorni della Canzone di Milano con il divertente brano La pazza nel pozzo. L’anno dopo conquista la seconda posizione nella classifica finale del Festival della Canzone Jazz di Saint Vincent con Gentleman scritta da Gian Carlo Testoni e Carlo Alberto Rossi. Proprio con quest’ultimo, abbandonata l’attività di cantante, inizia a collaborare assiduamente come autrice. Il sodalizio con Carlo Alberto Rossi non sarà soltanto limitato all’esperienza professionale e nel 1977 culminerà anche nel matrimonio. Tra le canzoni di successo che portano la sua firma ci sono brani come Se tu non fossi qui, Tu che non sorridi mai e tante altre, tra cui You are my love, registrata da Mina nell'album Finalmente ho conosciuto il Conte Dracula nel 1985.
Il 25 giugno 2004 inizia un'edizione particolarmente ricca di JazzAscona, la più importante manifestazione musicale europea dedicata al jazz tradizionale e classico e una delle principali del mondo. Da vent’anni nella seconda metà di giugno New Orleans è in Svizzera, a non più di una dozzina di chilometri dal confine italiano sulle sponde di un lago le cui onde appaiono indifferenti alle frontiere. Accade nella cittadina di Ascona dove da vent’anni confluiscono decine di migliaia di appassionati. Per la 20th Anniversary Celebration, l’edizione del 2004, gli organizzatori hanno fatto le cose in grande. Fino al 4 luglio il festival ospita trecento musicisti in circa duecento concerti. Ogni giorno le esibizioni iniziano alle 11 del mattino e terminano alle 5 del giorno dopo per un totale di centottanta ore ininterrotte di jazz. Cinque sono i palchi allestiti sul lungolago per una manifestazione che oltre a vari eventi speciali, offre imprevedibili sorprese, tipiche dei grandi raduni jazz. Non c’è divisione tra pubblico e artisti e la possibilità di intrattenersi con i musicisti prima e dopo i concerti non è un privilegio per pochi, ma la normalità. Gli artisti stessi, poi, vivono il festival nelle piazze ed è normale vederli salire sul palco per unirsi ai propri colleghi in appassionate jam session. Il programma del Ventennale è stato costruito con un occhio a tre elementi fondamentali: la tradizione, l’affezione e le passioni del pubblico e le nuove realtà. Il richiamo alla tradizione ha ispirato l’idea di richiamare molti musicisti “storici”, quelli che nelle prime edizioni hanno contribuito a costruire l’immagine del Festival, da Lillian Bouttée a Bob French, da The Wolverines a Storyville Shakers e Thomas L'Etienne. Per soddisfare le passioni delle migliaia di inguaribili innamorati ci sono poi alcuni dei grandi mattatori che hanno animato le esibizioni negli ultimi anni, da Leroy Jones a Ed Polcer, da Englebert Wrobel a Swing Cats e ancora Earl Conway e Marc Richard. Per il filone dedicato alle nuove realtà vanno in scena alcuni giovani musicisti che continuano a perpetuare la tradizione del jazz di New Orleans ma che, insieme, possiedono una versatilità tale da potersi destreggiare con tutti i generi musicali. Tra questi spiccano i nomi di Niki Harris, Barbara Morrison, Herlin Riley, Joan Faulkner e Isla Eckinger. L’Italia sarà rappresentata da Dado Moroni. Non mancano alcune figure leggendarie del jazz americano che regalano ad Ascona un pezzettino del loro genio, come Plas Johnson, Rhoda Scott, Warren Vaché, Wendell Brunious, Eddie Locke o il già citato Bob French. Il ventesimo compleanno è infine l'occasione per il Festival di rendere omaggio a tre giganti della storia del jazz, di cui nel 2004 ricorre il centenario della nascita: Count Basie, Fats Waller e Coleman Hawkins. Proprio l’omaggio alle carriere dei tre giganti è il filo conduttore dei dieci giorni del festival
Dopo la parentesi drammatica della seconda guerra mondiale il 24 giugno 1950 inizia in Brasile la quarta edizione del campionato mondiale di calcio. Alla manifestazione, che dura fino al 16 luglio, partecipa per la prima volta l’Inghilterra, che, considerandosi maestra in questo sport, ha sempre rifiutato confronti ufficiali con paesi ritenuti calcisticamente sottosviluppati. La presunzione, però, non paga e gli inglesi vengono subito eliminati dopo un’umiliante sconfitta con gli Stati Uniti. All’Italia campione in carica non va meglio. Perde all’esordio con la Svezia per 3 a 2 e chiude la sua avventura con un’inutile successo per 2 a 0 con il Paraguay. Il mondiale, dopo una drammatica partita con i padroni di casa del Brasile, viene vinto dall’Uruguay.
Il 23 giugno 1965 i Beatles arrivano in Italia. Quando i quattro ragazzi di Liverpool sbarcano alla Stazione Centrale di Milano ci sono tremila ragazzi e ragazze ad accoglierli. L’accompagnatore ufficiale del gruppo è il giovane Gianni Minà e l’organizzatore del tour è Leo Weatcher. La band tiene complessivamente otto concerti, uno pomeridiano e uno serale che si svolgono il 24 giugno al Vigorelli di Milano, il 26 giugno al Palasport di Genova e il 27 e il 28 giugno al teatro Adriano di Roma. In ciascuna di queste esibizioni i Beatles suonano per poco più di mezz’ora preceduti da una lunga serie di artisti italiani. Nel concerto milanese prima dei Fab Four salgono sul palco Le Ombre, i New Dada, Angela, Guidone e gli Amici, Fausto Leali con i Novelty e Peppino di Capri accompagnato per l’occasione dai Giovani Giovani, il gruppo di Pino Donaggio. Nonostante il successo del tour la televisione italiana non darà spazio ai Beatles fino al 25 marzo 1966 quando, dopo molte resistenze, andrà finalmente in onda un miniconcerto di mezz'ora. Le ostilità tra innovatorie conservatori non finiranno lì perché la decisione rinfocolerà le polemiche di una parte dell'opinione pubblica che protesterà per il «..cattivo esempio dato da questi ragazzi dai capelli lunghi. ..»
Il 22 giugno 1949 nasce al Briosco in quel di Milano, il cantautore Francesco Magni. La sua carriera musicale inizia negli anni Settanta quando la poetica delle sue prime composizioni cattura l'attenzione di Nanni Svampa, che le incide e le pubblica per la Durium nell’album Al dì d'incoeau (1977). Con Moni Ovadia, talent scout e leader del Gruppo Folk Internazionale pubblica poi nel 1978 l'ironico e divertente album Il paese dei bugiardi. La grande notorietà arriva poi quando partecipa al Festival di Sanremo del 1980 con la divertente Voglio l'erba voglio cui segue l’album Cocò, una raccolta di moderne favole venate di humor popolare. Dopo i singoli Dracula-Canzone d'amore del 1981 e Magnetico Tic del 1983 si avvicina alla musica indiana realizzando l’album Sai Mama. Nel 1995 pubblica l’album Amami di meno amati di più e nel nuovo millennio è ancora sulla breccia con l’album Scigula.
«Canto perché amo Brecht e il comunismo». La frase, buttata lì da Marianne Faithfull nel corso di un'intervista a Marinella Venegoni de La Stampa e pubblicata il 21 aprile 2000 è di quelle destinate a colpire, a dare una forte emozione e a lasciare un segno. La cantante in quel periodo è in Italia per esibirsi a Ravenna nei "Sette peccati capitali" e la sua performance, diffusa in diretta dal Terzo canale di Radiorai, ottiene critiche lusinghiere. E così anche finalmente anche i media italiani, non tutti per la verità, cancellano l'immagine fastidiosa di quella cantante biondina, in genere definita "musa dei Rolling Stones" e destinata a far parlare più le cronache mondane e quelle giudiziarie che i critici musicali. La biondina non ancora diciottenne che cantava con la vocina tenera e la protezione dei Rolling Stones As tears go by e partecipava al Festival di Sanremo per ripetere distrattamente C'è chi spera insieme a Riki Maiocchi è morta da tempo. Non esiste più. È stata seppellita insieme alla vita disordinata degli anni in cui i produttori facevano di lei quello che volevano. Era l'epoca degli eccessi e dell'amicizia con sostanze pericolose che più d'una volta l'a portano a sfiorare la morte. Il meccanismo la stritola. Ha poco più di vent'anni quando lascia le scene per entrare in un circuito virtuoso e perverso di disintossicazioni, case di cura e ricadute. Ne riemerge a trenta, ma è profondamente cambiata. Con la biondina è morta anche la vocina di un tempo, trasformatasi un timbro roco e sensuale che l'ha costretta ad abbassare di un ottava la partitura di Anna nei "Sette peccati capitali" di Berthold Brecht e Kurt Weill. Eppure in quasi tutti i servizi che presentano l'appuntamento di Ravenna, l'immagine di Marianne Faithfull era coperta da quella dell'esile ragazza bionda degli anni Sessanta destinata, più che altro, a soddisfare le esigenze sessuali delle nascenti star del rock. C'è poi chi ha trovato modo di polemizzare anche con la scelta di abbassare di un ottava la partitura, forse ignorando che già Lotte Lenya, considerata una delle più grandi interpreti della brechtiana Anna, nel 1955 l'aveva abbassata di un quarto. Anche se l'Italia lo scopre solo in quel momento, sono anni che Marianne Faithfull interpreta Brecht e, soprattutto, sono anni che guarda con occhio distaccato il mondo del music business e che risponde in modo provocatorio alle domande stupide: «Il punk? Ricordo soltanto che Sid Vicious e io avevamo lo stesso spacciatore…». Quando riemerge dal tunnel della disperazione e degli eccessi stanno finendo gli anni Settanta. Il suo personaggio non piace ai "padroni della musica", ma soprattutto non piace ai produttori la sua pretesa di avere un cervello. Lei non molla. Nel 1979 pubblica con l’etichetta indipendente Island lo splendido album Broken english nel quale rielabora alcuni scritti di Ulrike Meinhof, non per affinità politica ma perché vorrebbe che tutti capissero come a volte non si diventa terroristi per scelta, ma per bisogno d'amore: «Sono gli stessi blocchi emotivi che ti rendono tossicomane a farti diventare terrorista». I testi delle canzoni (nel disco c'è anche una trascinante versione elettrica della lennoniana Working class hero) non piacciono però alla EMI, distributrice della Island, che boicotta l'album e ne penalizza il successo. Marianne non s’arrende e continua per la sua strada. Cerca e trova la collaborazione di vecchi e nuovi amici come la coppia Jagger-Richards e Tom Waits, ma i ristretti confini della musica pop non le bastano più. Si innamora di Brecht e attraverso i suoi lavori scopre il comunismo, la voglia di cambiare le cose e di combattere le ingiustizie. L'impegno sociale le procura nuovi problemi. Da tempo, infatti, si è trasferita negli Stati Uniti e le autorità di quel paese, così indulgenti nei confronti dei suoi eccessi esistenziali, fanno fatica a tollerare l'impegno sociale e politico. Vengono rispolverate le sue vecchie storie di droga e una lunghissima serie di microreati connessi. In breve tempo si ritrova tra le mani un foglio di via che le intima di tornare immediatamente nella natìa Gran Bretagna. Di nuovo accorrono in suo aiuto gli amici veri, artisti e non, che, inventando sempre nuove ragioni per ottenere dilazioni e rinvii, le consentono nel 1989 di realizzare il suo sogno: cantare le musiche di Berthold Brecht e Kurt Weill nella St. Ann’s Cathedral di Brooklyn. Da quel momento Brecht entra nella vita personale e artistica della cantante in modo totalizzante e ne condiziona non solo il repertorio, ma anche l'impostazione vocale. Nel giugno del 2000 anche l'Italia la scopre. Merito dell'intervista di Marinella Venegoni che supera anche i limiti della nuova immagine e propone, finalmente sotto la luce giusta, un personaggio che ha attraversato spesso da vittima e qualche volta da protagonista gli ultimi quarant'anni della scena musicale internazionale. Lo fa evitando le tinte acide del rotocalco e con un grande rispetto per l'artista e la persona, cercando e fornendo informazioni in una sorta di scambio alla pari.
È il 20 giugno 1964 quando il "Nuovo Canzoniere Italiano" mette in scena al teatro Caio Melisso di Spoleto nell'ambito del Festival dei Due Mondi lo spettacolo "Bella ciao". La scaletta prevede che Michele L. Straniero (la elle è un vezzo che indica il secondo nome, Luciano) intoni Gorizia, un brano nato nelle trincee della prima guerra mondiale, raccolto da Cesare Bermani e dedicato alla battaglia di Gorizia dell'agosto del 1916, costata la vita a quasi centomila soldati tra austriaci e italiani. L'esecuzione fila via liscia fino ai versi «Traditori signori ufficiali/che la guerra l'avete voluta/scannatori di carne venduta/e rovina della gioventù», al termine dei quali scoppia un pandemonio o, come racconta trent'anni dopo lo stesso Straniero «un tumulto provocato da chi esige l'interruzione dello spettacolo... I dissenzienti non vogliono intendere ragioni. Gorizia non si tocca, la Grande Guerra nemmeno. Questi qui sono una banda di comunisti, il Festival è caduto in mano ai rossi, bisogna farli tacere e cacciarli via. Un facinoroso particolarmente acceso tenta la scalata al palco: ma Giovanna Marini, già alta e imponente di suo come una matrona romana, lo ferma di botto levandogli sul capo la sua superba e preziosa mandòla. In un palco Giorgio Bocca - tra i sostenitori più convinti - ribatte da par suo ad una "carampana" che squittisce dissenso. Dal fondo della sala una voce stentorea proclama: "Signori ufficiali, attenti!"». La storia non si fermerà lì. Due giorni dopo, infatti, Straniero e i suoi compagni d'avventura verranno denunciati per vilipendio delle Forze Armate.
Il 19 giugno 1950 da madre italiana e padre inglese nasce a Roma nel quartiere San Giovanni Raymond John Lovelock destinato a diventare con il nome di Ray Lovelock, il "biondino" per eccellenza, uno dei personaggi più amati dalle adolescenti degli ultimi anni Sessanta e di primo piano del cinema di genere italiano degli anni Settanta. La sua popolarità nasce quando presta corpo e volto alla pubblicità di un motorino in un “Carosello”, come si chiamano all’epoca i cortometraggi pubblicitari televisivi inseriti nell’omonimo spazio serale nel quale la televisione italiana a canale unico confina i messaggi commerciali. Il ragazzo ha ambizioni artistiche ma non ha ancora scelto la sua strada tra cinema, televisione e musica. Nel 1967, anno in cui fa il suo esordio cinematografico con il western all’italiana “Se sei vivo spara”, tenta anche la strada della carriera musicale. Con la chitarra, i blue jeans e il ciuffo biondo che gli cade sulla fronte si presenta sul palco del Piper per un’esibizione che sembra aprirgli le porte della musica pop. Al termine del concerto, infatti, il manager di una casa discografica, seriamente colpito dalle sue ballate country rock in inglese, lo mette sotto contratto per tre anni. Proprio in quel periodo, però, la vita di Ray Lovelock svolta decisamente verso il cinema e la musica resterà per sempre un hobby o un elemento di ulteriore caratterizzazione delle sue performance sullo schermo come accade in “Le regine” di Tonino Cervi nel quale canta accompagnandosi con la chitarra brani folk o in “Pronto ad uccidere” di Franco Prosperi dove canta il tema principale I’m startin’ tomorrow. Muore a Trevi il 10 novembre 2017.
Il 18 giugno 1982 a Londra, sotto il Blackfriars Bridge, il Ponte dei Frati Neri, viene trovato impiccato il banchiere italiano Roberto Calvi. La sua morte suscita scalpore sia per le modalità che per il personaggio. Roberto Calvi, infatti, è uno dei personaggi chiave della finanza degli anni Settanta. Divenuto presidente del Banco Ambrosiano nel 1975 in breve tempo si ritrova a capo di un impero grazie anche si suoi legami con la loggia massonica P2 e ai collegamenti con lo IOR, la banca del Vaticano guidata da monsignor Paul Marcinkus. La sua attività economica e finanziaria diventa uno snodo importante non soltanto per il riciclaggio dei soldi sporchi della criminalità organizzata, ma anche per operazioni internazionali “coperte”: dalla fornitura di armi all’Argentina nella guerra contro la Gran Bretagna per le Falkland-Malvine, al sostegno della dittatura di Somoza e al finanziamento del sindacato cattolico polacco Solidarnosc. Il meccanismo finanziario su cui si regge l’impero, costituito da una lunga serie di società di comodo, finisce per incrinarsi e nel 1981 Calvi viene arrestato. Dopo la scarcerazione fugge all’estero convinto di poter raddrizzare la situazione minacciando di raccontare la verità sulle vicende che lo hanno visto protagonista. Il tentativo finisce a Londra con il ritrovamento del suo corpo penzolante impiccato sotto un ponte del Tamigi.
È il 17 giugno 1970 e ai Campionati Mondiali di calcio che si svolgono in Messico è in programma la semifinale tra Italia e Germania. Gli azzurri hanno superato senza brillare il proprio girone di qualificazione ma poi hanno battuto con merito i padroni di casa del Messico. La semifinale è destinata a passare alla storia dei mondiali come una delle più belle partite mai disputate, anche se non manca chi sostiene che si sia trattato di una partita esaltante solo da punto di vista passionale e non sotto l’aspetto della tecnica calcistica. Uno dei sostenitori di questa tesi è Gianni Brera che su “Il Giorno” del 18 giugno 1970 scrive: «…Il calcio giocato è stato quasi tutto confuso e scadente, se dobbiamo giudicarlo sotto l’aspetto tecnico-tattico. Sotto l’aspetto agonistico, quindi anche sentimentale, una vera squisitezza, tanto è vero che i messicani non la finiscono di laudare (in quanto di calcio poco ne san masticare, pori nan)…». La partita si svolge sul tappeto erboso dello stadio “Azteca” di Città del Messico. L’Italia dopo otto minuti va in vantaggio con un tiro dal limite dell’area di Boninsegna. Per una squadra dalla difesa robusta e impostata sulla capacità di giocare di rimessa come l’Italia è un gol pesante che può valere l’accesso alla finale. Gli azzurri si difendono con ordine per tutto l’incontro, ma quando ormai stanno assaporando il successo finiscono per capitolare. Il pareggio arriva proprio allo scadere grazie a un intervento acrobatico di Schnellinger. Si va così ai supplementari che iniziano subito male. Nel primo tempo supplementare, infatti, Poletti, subentrato a Rosato, si fa tradire dall’emozione e consente a Müller di segnare il 2 a 1 con un tocco “di rapina”. I tedeschi non hanno nemmeno il tempo di esultare che, quattro minuti dopo Burgnich supera di sinistro il portiere Maier con un tiro da una decina di metri. Passano altri sei minuti e un’azione sulla sinistra di Domenghini mette il pallone sui piedi di Riva che, in area, dopo una finta ai danni dell’avversario diretto segna con un preciso diagonale. Il primo tempo supplementare finisce dunque con l’Italia in vantaggio per 3 a 2. Cinque minuti dopo l’inizio del secondo tempo supplementare, il solito Müller, servito di testa da Seeler, pareggia i conti. Non è finita. Passano soltanto due minuti e Rivera, raccolto in mezzo all’area avversaria un cross rasoterra di Boninsegna, fissa definitivamente il punteggio sul 4 a 3. Gli azzurri vanno in finale e l’Italia scende in strada a festeggiare.
Il 16 giugno 1952 nasce Montreal in Canada il cantante Gino Vannelli. Questo canadese di origine italiana con la voce da tenore leggero, tra la seconda metà degli anni Settanta e i primi anni Ottanta diventa uno degli interpreti di maggior successo negli Stati Uniti. Alla sua popolarità non sono estranei il fascino latino e soprattutto un’astuta scelta dei brani del suo repertorio, arrangiati dal fratello Joe. Talento precoce viene scritturato negli anni del liceo dalla RCA anche se il primo successo arriva nel 1973 quando pubblica per la A&M l'album Crazy life, realizzato sotto le attente cure di Herb Alpert. È l’inizio di un grande exploit commerciale segnato da album come Powerful people nel 1974, Storm at sunup nel 1975, The gist of the Gemini nel 1976, A pauper in Paradise nel 1977, Brother to brother nel 1978 e Nightwalker nel 1981. Uno dei musicisti della sua band, il batterista Graham Lear si unisce poi ai Santana. Nel lungo brano A pauper in Paradise, della durata di sedici minuti e inserito nell'album omonimo, Gino si fa accompagnare dalla Royal Philarmonic Orchestra. All’inizio degli anni Ottanta, dopo la pubblicazione dell'antologico The best of il suo personaggio inizia a logorarsi. Lui non si preoccupa più di tanto. Torna in Canada e dirada concerti e dischi centrando ancora qualche importante risultato commerciale come accade nel 1985 con il successo mondiale di Black Cars.
Il 15 giugno 2006 muore a Lecco la cantante Betty Curtis. Il suo vero nome è Roberta Corti. Nata il 21 marzo 1936, a Milano, ancor giovanissima alla fine degli anni Quaranta si esibisce nei locali notturni della Lombardia con vari gruppi jazz. Scoperta da Teddy Reno nel 1955 viene etichettata come “urlatrice melodica” dopo il successo ottenuto con le canzoni Con tutto il cuor, versione italiana di With all my heart e La pioggia cadrà, versione italiana di Le jour où la pluie viendra di Gilbert Bécaud. Dopo aver sposato Claudio Celli, uno dei componenti del Quartetto Radar, partecipa al Festival di Sanremo del 1959 portando in finale tutte e tre le canzoni affidatele: Nessuno in coppia con Wilma De Angelis, Una marcia in fa cantata insieme a Johnny Dorelli e riproposta da un duo formato da Gino Latilla e Claudio Villa, e Un bacio sulla bocca con Claudio Villa. L'anno dopo torna sul palcoscenico sanremese con Amore senza sole in coppia con Johnny Dorelli e Non sei felice con Mina. Nel 1961 vince il Festival di Sanremo con Al di là in coppia con Luciano Tajoli e il Festival di Napoli con Tu si' 'a malincunia insieme ad Aurelio Fierro. Sul palcoscenico sanremese presenta anche il brano Libellule con Joe Sentieri. Nel 1962 torna a Sanremo con Buongiorno amore in coppia con Johnny Dorelli e Il cielo cammina insieme a Luciano Tajoli. Nello stesso anno resta al vertice della classifica per diciotto settimane, con la versione italiana di Chariot di Petula Clark, consolidando poi la sua fama di cantante da classifica con Wini Wini del 1963 e Invece no, un brano presentato al Festival di Sanremo del 1965 in coppia con la stessa Petula Clark. Nella sua lunga e fortunata carriera pubblica centinaia di dischi e si ritaglia un ruolo importante nella storia della canzone italiana. Tra le sue canzoni sono da ricordare Midi midinette, Napoli shock, Al chiar di luna porto fortuna e Baby lover. Muore a 70 anni in una clinica di Lecco il 15 giugno 2006, dopo una lunga malattia.
Il 14 giugno 1994, due mesi dopo la sua ultima esibizione pubblica si spegne a Parigi Mouloudji. Figlio dell’Africa e dell’Europa, amico di Prévert, Sartre, Robert Desnos e Raymond Quenot, Mouloudji, è uno degli chansonnier più impegnati sul piano sociale e politico e partecipa da protagonista al rinnovamento della canzone d’autore francese del dopoguerra. Artista a tutto tondo è attore di cinema e teatro, autore, pittore e, ovviamente, cantante. Il grande pubblico lo ascolta cantare la sua prima canzone nel film “Jenny, la regina della notte” di Marcel Carné. Ha soltanto quattordici anni e tante cosa da raccontare. Il rapporto con il cinema non verrà più meno, mentre quello con la musica per molto tempo sarà limitato alle esibizioni dal vivo o poco più. Nonostante le affermazioni in campo cinematografico il mondo della canzone, cioè quel complicato sistema di interessi, diritti, locali ed edizioni che ieri come oggi controlla e regola gli interessi economici di questo settore, non lo ama. Ci vogliono anni prima che l’industria discografica francese decida di mettere su disco la carica provocatoria e sfrontata delle sue canzoni. Popolarissimo nei locali parigini più alternativi, amato da un pubblico non numerosissimo ma fedele e affezionato riesce a pubblicare il suo primo disco quando ha quasi trent’anni. Pur essendo autore di brani importanti destinati a regalare il successo ad altri protagonisti della scena musicale francese quasi per uno scherzo della sorte resta nella memoria collettiva per un brano non suo, Le déserteur di Boris Vian, di cui è stato il primo e il più apprezzato interprete. Mouloudji, il cui nome completo è Marcel Mouloudji, nasce a Parigi il 16 settembre 1922, Suo padre è un muratore emigrato algerino arrivato nella capitale francese dalla regione di Cabila, più precisamente da Sidi Aïch, per lavorare in cantieri dove costruisce case che quelli come lui probabilmente non abiteranno mai. Quando s’è accorto che le cose andavano così s’è iscritto al partito comunista nella speranza di cambiarle. A Parigi ha anche conosciuto una donna dalla pelle bianca come il latte che arriva dalla Bretagna e non si perde una messa nella chiesa cattolica del suo quartiere. Dall’unione tra due realtà così diverse nasce Mouloudji, simbolo vivente dell’inutilità delle barriere tra popoli diversi. La sua infanzia trascorre nelle strade del XIX arrondissement della capitale francese dove con il fratello André raggranella qualche soldino ingegnandosi ogni giorno a inventare un lavoretto o cantando canzoni per i passanti. Mentre i ragazzi crescono la madre oltre alla chiesa comincia a frequentare un po’ troppo l’alcol finendo per scivolare lentamente nella follia. Il punto di riferimento del piccolo Mouloudji diventa allora il padre che qualche volta lo porta con sé anche alle manifestazioni da lui vissute con passione perché, come confesserà anni dopo, gli sembrano ogni volta una grande festa. Proprio in questi ambienti nel 1935 conosce Sylvain Atkine, personaggio chiave del Gruppo Ottobre, una delle strutture più importanti dell’esperienza del teatro politico francese. La vitalità dell’ambiente teatrale lo affascina e pian piano la recitazione sostituisce i giochi e le avventure di strada. A tredici anni è considerato un po’ la mascotte da protagonisti di primo piano della teatro francese come Jean-Louis Barralt o Roger Blin. In quell’ambiente scopre anche la poesia e la letteratura grazie all’impegno di maestri come Marcel Duhamel e Charles Dullin. Grazie allo studio e soprattutto alla tenacia, nel 1936 a soli quattordici anni debutta sul palcoscenico interpretando “Le Tableau des Merveilles” un lavoro ispirato a Cervantes e adattato in francese da Jacques Prévert. Proprio grazie a Prévert nello stesso anno fa il suo debutto nel cinema partecipando al film “Jenny, la regina della notte” di Marcel Carné. Due anni dopo la sua interpretazione del personaggio di Macroy nel film “Gli scomparsi di Saint-Agil” di Christian-Jacque entusiasma pubblico e critica. A sedici anni è già una piccola vedette del cinema francese. La fine del Fronte Popolare, l’occupazione nazista della Francia e la nascita del governo collaborazionista e la seconda guerra mondiale costringono il giovane comunista Mouloudji a trovare ogni giorno nuovi trucchi per sopravvivere e lavorare senza dare troppo nell’occhio. Per un ragazzo intorno ai vent’anni non è uno scherzo ma lui ce la fa un po’ mettendo a frutto gli insegnamenti della strada ma soprattutto grazie alla rete di solidarietà messa in campo dal mondo dello spettacolo per resistere. Se suo fratello lo salva dal reclutamento forzato nelle strutture di lavoro obbligatorio, l’appoggio di Francis Lemarque gli consente di esibirsi come cantante, spesso sotto nomi diversi, nei ritrovi parigini più legati alla Resistenza, dal Boeuf sur le Toit al reticolo di ritrovi di Saint-Germain-des-Prés. Le vicende vissute in quel periodo vengono raccolte in una sorta di diario che, pubblicato, nel 1945 con il titolo di “Enrico” riceverà il prestigioso Prix de la Pléiade. Proprio nel 1943, cioè nel periodo in cui vive in semi-clandestinità, Mouloudji conosce una donna destinata ad avere un ruolo fondamentale nella sua vita. Si chiama Louise Fouquet, ma nell’ambiente è conosciuta come Lola. Diventa sua moglie e poi sua agente, ruolo che rivestirà per molti anni fino al 1969 quando le loro strade torneranno a dividersi. A poco più di vent’anni ha già raccolto consensi nel teatro, nel cinema, nella letteratura e anche nella pittura, ma non nella musica che put continuando a essere l’attività artistica più amata da Mouloudji, è anche quella che gli dà meno soddisfazioni. Nonostante tutto lui non demorde e nel dopoguerra si esibisce nei cabaret parigini con un repertorio nel quale le sue canzoni si mescolano a quelle di Boris Vian e alle poesie in musica di Prévert. Il successo, gli applausi e la popolarità cinematografica finiscono per convincere l’industria discografica a dargli fiducia. Il 19 gennaio 1951, nell’anno delle sue ventotto primavere, entra per la prima volta in uno studio d’incisione accompagnato dall’instabile ensemble di Philippe-Gérard. In quel giorno vengono registrati brani destinati a una lunga vita come Rue de lappe, Si tu t’imagines e Barbara. Il primo a capire le potenzialità di Mouloudji è quel geniaccio della scena parigina che risponde al nome di Jacques Canetti, già direttore della scalcinata Radio Cité, scopritore di talenti e condottiero indiscusso del cabaret Les Trois Baudets, che lo scrittura e lo accompagna verso il successo. È proprio Canetti a convincerlo a registrare il brano Comme un p’tit coquelicot con il quale vince il Grand Prix de Disque nel 1953. Nonostante il successo Mouloudji non abbandona l’impegno politico e, in quegli anni che vedono i francesi impantanati nella guerra d’Indocina, mette le sue canzoni e la sua voce al servizio della causa antimilitarista. Nel 1954 incide Le déserteur, la canzone di Boris Vian ancora oggi considerata tra i brani più vivi del movimento contro ogni guerra. Lui la canta sul palco del Theatre de l’Oeuvre mello stesso giorno in cui la guerra dell’Indocina si conclude con la sconfitta francese a Dien Bien Phu. La sua esibizione provoca uno scandalo. Censurata e messa al bando dalle radio allineate con il governo riesce comunque a essere diffusa dalle antenne di Europe 1. Da quel momento il suo nome resta per sempre legato a questo brano sia per chi lo seguirà con simpatia e passione nella sua carriera che per il potere politico e per l’industria discografica che non perderanno occasione per censurarlo ed emarginarlo. Negli anni Sessanta pensa anche di abbandonare e nel 1966 apre un negozio da parrucchiere, ma nonostante tutto non smetterà mai di cantare. Non si arrende nemmeno nel 1992 quando, a settant’anni, perde per una malattia parte della voce. Imposta diversamente il suo canto e continua imperterrito fino al mese d’aprile del 1994 quando tiene il suo ultimo concerto nei pressi di Nancy.
Il 13 giugno 1946 Umberto di Savoia lascia l’Italia. Tra le migliaia di emigrati costretti a lasciare il loro paese per cercare fortuna all’estero c’è, ovviamente in condizioni ben diverse, anche la famiglia Savoia, cui gli italiani non hanno perdonato l’acquiescenza verso il fascismo, le inique leggi razziali e, soprattutto, lo sbandamento e l’ingloriosa fuga dopo l’8 settembre, che aveva lasciato allo sbando gran parte del paese, caduto nelle mani degli occupanti tedeschi. Il 9 maggio 1946 Vittorio Emanuele III si imbarca sull’incrociatore Duca degli Abruzzi per andarsene in volontario esilio, dopo aver firmato l’atto di abdicazione in favore del figlio Umberto II, nell’estremo tentativo di salvare il destino della monarchia. Morirà un anno dopo ad Alessandria d’Egitto. Per l’istituzione monarchica non c’è, però, più niente da fare. Il 2 giugno si svolge il referendum istituzionale e il 54% degli elettori si pronuncia a favore della Repubblica. Umberto di Savoia lascia definitivamente l’Italia il 13 giugno partendo dall’aeroporto di Ciampino con destinazione Cascais, in Portogallo. Il 28 giugno l’Assemblea Costituente, con un gesto simbolico di riconciliazione tra le due fazioni che si sono confrontate con toni molto aspri nella campagna referendaria appena conclusa, elegge a capo provvisorio dello Stato un monarchico napoletano moderato, Enrico De Nicola.
L’11 giugno 1930 nasce a New York il trombettista Johnny Glasel. Comincia a studiare musica da ragazzo perfezionandosi alla Yale School Of Music e, successivamente, all’Università della stessa Yale. Le sue prime esperienze con il mondo del jazz risalgono all'immediato dopoguerra quando entra a far parte della Scarsdale Jazz Band, un gruppo formato da studenti e diretto da Bob Wilber che prende il nome dall'omonimo quartiere di New York. Con questo gruppo, del quale fanno parte elementi del valore di Ed Hubble, Bob Mielke, Dick Wellstood, Glasel registra, ad appena 15 anni di età, i suoi primi dischi per la Riverside, tra cui China Boy che contiene un suo notevole intervento solistico. All'inizio degli anni Cinquanta si riconverte alla musica classica lavorando regolarmente con la New Haven Symphony Orchestra e con vari gruppi di musica da camera. A riportarlo al jazz è ancora una volta Bob Wilber, che lo inserisce in The Six, il gruppo con cui suona al Jimmy Ryan's, il celebre cabaret di New York. Nel 1956 viene ingaggiato dall'orchestra di Glenn Miller, all'epoca diretta da Ray McKinley. Alla fine di quell’anno forma una propria orchestra con la quale si esibisce in vari locali di New York, avvalendosi della collaborazione del pianista-arrangiatore Dick Cary. Verso la fine degli anni Cinquanta suona con l'orchestra di Bill Russo, ma progressivamente i suoi interessi si spostano verso la composizione di musiche per film e riviste.
Il 10 giugno 1926 muore in circostanze drammatiche Antoni Gaudì, il progettista della Sagrada Familia di Barcellona, l’uomo che è stato chiamato “l’architetto di Dio”. Antoni Plàcid Guillem Gaudì y Cornet, questo è il suo nome completo, nasce il 25 giugno del 1852 a Reus, vicino a Tarragona, da Francisco Gaudì e Antonia Cornet y Beltran. Discendente di calderai negli anni successivi affermerà che le sue capacità, la sua inventiva e la sua fantasia non sono altro che la proiezione della tradizione della famiglia perché proprio i calderai sono artigiani capaci di vedere un oggetto tridimensionale da una lastra di metallo. Dopo aver frequentato il collegio dei Padri Scolopi di Reus passa alla Facoltà di Scienze dell'Università di Barcellona e a ventidue anni viene ammesso alla Scuola Superiore di Architettura di Barcellona, dove acquisisce una preparazione tecnica e storica basata sull'analisi dei monumenti antichi e dove si diploma nel 1878. Contemporaneamente frequenta corsi di estetica e filosofia, interessandosi anche di teatro, musica, biologia e medicina. In quegli anni inizia a sperimentare e studiare le forme romaniche e rinascimentali, gli ornamenti moreschi e i temi dell'architettura navale. Non si limita però agli studi. Per le modeste condizioni economiche della famiglia cerca di mantenersi lavorando negli studi di alcuni architetti come Juan Martorell, da cui attinge la predilezione per lo stile goticheggiante, Francisco Del Villar, il primo progettista del Tempio della Sagrada Familia, e con Josep Fontserè y Mestres il realizzatore del Parco della Cittadella, un giardino pubblico costruito sul sito dell'antica cittadella fortificata demolita nel 1854. La sua carriera di architetto è caratterizzata dall'elaborazione di forme straordinarie e imprevedibili, realizzate utilizzando i più diversi materiali (mattone, pietra, ceramica, vetro, ferro), da cui sa trarre il massimo delle possibilità espressive. La sua prima costruzione è la casa Vincens a Barcellona del 1878, cui segue il palazzo Guëll, sempre nella capitale catalana, oggi in parte modificato. Nel 1883 inizia sempre a Barcellona i lavori della chiesa della Sagrada Familia, commissionatagli dall’Associación Espiritual de Devotos de San José, considerata l’apogeo del suo genio e rimasto incompiuto. Proprio la costruzione di questa cattedrale diventa il sogno e l’incubo della sua esistenza al punto che decide di vivere direttamente all'interno del cantiere, conducendo una vita quasi da barbone. Il 7 giugno del 1926 viene investito da un tram. Nessuno lo riconosce e il suo aspetto randagio e trascurato porta i soccorritori a credere di trovarsi di fronte a un povero vagabondo. Lo raccolgono e lo trasportano all'ospedale della Santa Croce, un ospizio per i mendicanti fondato dai ricchi borghesi della Catalogna. Proprio lì lo trova il giorno dopo il cappellano della Sagrada Familia. Le ferite riportate nell’incidente sono gravi e il 10 giugno Antoni Gaudì muore. I suoi funerali, tenutisi in forma ufficiale, vedono la partecipazione di migliaia di Barcellonesi che dal quel momento iniziano a chiamarlo “l'architetto di Dio”. Le sue spoglie vengono tumulate in una cripta nella Sagrada Familia.
Il 9 giugno 1991 Keith Wozencroft, un rappresentante di dischi della EMI, è particolarmente loquace e allegro. Al commesso del negozio di Oxford che gliene chiede la ragione risponde: «Sto per cambiare settore, mi mettono a caccia di nuovi talenti». Il commesso risponde: «Davvero? Pensa che fortuna, io suono in un gruppo. Ci chiamiamo On A Freeday e raggranelliamo qualche soldo intrattenendo la gente nei locali della zona. Io sono il bassista». Poi gli consegna un demo. Wozencroft ascolta le registrazioni, più che dai suoni dei ragazzi rimane colpito da quella che chiama “la loro intelligenza musicale” e si dà da fare. Trova nuovi ingaggi e cerca di far conoscere la band nel giro dei locali e degli addetti ai lavori. In breve tempo il gruppo viene scritturato dalla EMI. Il commesso di Oxford che fa il bassista per hobby si chiama Colin Greenwood. Un anno dopo il la band pubblica il suo primo disco. È un EP che si intitola Drill e, cedendo alle insistenze di manager e discografici i ragazzi hanno accettato di cambiare nome. Gli On A Freeday vengono ribattezzati Radiohead prendendo in prestito titolo di una canzone dei Talking Heads incisa nell'album True Stories. Inizia così la storia di una delle rockband più geniali dell’ultimo decennio del Novecento.
Il 6 giugno 2003 arriva nei negozi l'album Lontano dei Sud Sound System, uno dei gruppi storici della dancehall italiana. I ragazzi sono divenuti popolari con brani che raccontano come «È l'ignoranza che crea la violenza… è l'ignoranza che crea l'intolleranza» o anche «te dicenu: "o con nui o contru de nui"/per primu c'è lu statu ca te ole omologatu cu tutte le leggi soi» (ti dicono "o con noi o contro di noi"/per primo devi essere omologato allo stato e alle sue leggi). Salentini e impegnati da sempre a rompere quel “recinto di indifferenza” che circonda gli strati marginali della società i Sud Sound System non hanno armi che le regole auree dell'hip hop: sparare le parole come fossero proiettili. Dopo aver portato con successo nei teatri d'Italia "Acido Fenico - Ballata per Mimmo Carunchio camorrista" sono tornati in sala di registrazione per questo album che ha il peso delle opere destinate a lasciare un segno. Tredici brani curati in proprio con una lunga serie di collaborazioni e musicalmente sospesi in un luogo ideale tra la Giamaica e il Salento. Fin dal primo ascolto suona diverso dal passato, meno "colloso" e più solido. Un svolta? «Non direi - risponde Nando Popu - piuttosto c'è la lettura di una realtà cruda, difficile e drammatica. L'abbiamo realizzato mentre il mondo stava entrando in una nuova fase della guerra infinita. Ci sono i nostri umori di quel periodo, c'è l'Iraq, la Palestina, ci sono i popoli aggrediti del mondo…». In un brano parlate di "N'aura Crociata" (Un'altra crociata)… «Si. Noi siamo del Salento, nelle nostre vene scorre il sangue dell'oriente e dell'occidente. Noi siamo il frutto fisico di quell'equilibrio. E visto che siamo anche oriente, la guerra all'Iraq, ai popoli di quell'area è una guerra contro una parte di noi stessi. Non parlo solo in senso figurato. Il nostro stesso paese è, insieme, oriente e occidente soltanto che ormai la storia, la cultura, le radici, vengono rimosse. Le nuove generazioni sono figlie di una televisione che ha distrutto con violenza la nostra stessa storia. Quando l'informazione sostituisce la cultura c'è qualcosa che non va.». Anche il recupero del dialetto fa parte del vostro progetto? «Beh, il dialetto o meglio la lingua salentina, è stata all'inizio una scelta quasi obbligata, perché lo usavamo cantando nelle feste tra amici. Poi è diventata una scelta vera. Ma il pubblico ci capisce da Monaco a Palermo e anche in Giamaica perché la musica è un linguaggio universale». Il brano che dà il titolo all'album riprende il tema della saldatura tra Oriente e Occidente ed è in italiano perché «in dialetto salentino non si può coniugare un brano sul futuro».
Accompagnati dalle note di Un’estate italiana, il brano scelto come “canzone ufficiale” dell’evento e interpretato da Edoardo Bennato e Gianna Nannini, l’8 giugno 1990 iniziano in Italia i Campionati Mondiali di calcio. Centododici sono le squadre che hanno partecipato alle qualificazioni e ventiquattro quelle che danno vita alla fase finale negli stadi delle maggiori città italiane ristrutturati per l’occasione. Proprio sull’entità degli investimenti strutturali e sui relativi sperperi si sono scatenate nei mesi precedenti violente polemiche destinate a durare per anni. La nazionale italiana esordisce a Roma battendo l’Austria con un gol di Totò Schillaci, che diventerà il capocannoniere del torneo. Gli azzurri vincono anche le successive partite contro Stati Uniti (1 a 0) e Cecoslovacchia (2 a 0). Quest’ultimo incontro vede l’esordio mondiale di Roberto Baggio. Negli ottavi di finale l’Italia supera l’Uruguay con un gol di Schillaci e uno di Serena. Sempre Schillaci è l’autore della rete che elimina l’Eire nei quarti e apre le porte alla semifinale con l’Argentina. Contro i campioni in carica alla rete di Schillaci risponde un colpo da maestro di Maradona che, dopo aver attirato su di sé tre uomini, rifinisce per la deviazione in gol di Caniggia. Terminata in parità anche dopo i tempi supplementari, la partita si risolve ai calci di rigore, che sanciscono l’accesso dell’Argentina alla finale. Il 7 luglio l’Italia vince la finale per il terzo posto a Napoli contro l’Inghilterra con il punteggio di 2 a 1, mentre la Germania Ovest vince il titolo mondiale allo Stadio Olimpico battendo gli argentini con un contestatissimo rigore realizzato da Brehme.
Il 7 giugno 1987 il cantante Bruno Pallesi muore a Milano, la città che gli aveva dato i natali il 1° gennaio 1921. Dopo essersi fatto le ossa nelle balere milanesi e nelle feste studentesche nel 1939 ottiene il suo primo successo con Yo te quiero. Il suo primo estimatore è Natalino Otto che, nel 1944, lo aiuta a entrare nell'orchestra del maestro Carlo Zeme. In breve tempo diventa popolarissimo alla radio con brani come Da te era bello restar, Pino solitario, Amore amore amor, Chattanooga e Serenata a Vallechiara. A partire dalla seconda metà degli anni Quaranta affianca all’attività di cantante anche quella di paroliere. Nel 1955 partecipa al Festival di Sanremo presentando Cantilena del trainante, Che fai tu luna in ciel e Sentiero tutte in coppia con Jula De Palma, e Canto nella valle, in duo con Nuccia Bongiovanni e replicata da Natalino Otto, che si piazza al terzo posto. Ormai più impegnato come autore che come cantante, nel 1960 partecipa sia al Festival di Milano con Non voglio perderti che alla Sei Giorni della Canzone con Voglio. Abbandona poi le scene e lavora soltanto come autore. Nel 1975 gli viene affidata anche l’organizzazione del Festival di Sanremo.
Il 5 giugno 1954 nasce a Somers Point, in New Jersey, il batterista Peter Erskine. Il suo primo incontro con la musica avviene da bambino quando il padre, un affermato psichiatra che da giovane aveva suonato il contrabbasso, lo iscrive a uno dei corsi estivi diretti da Stan Kenton. Peter continua per diverso tempo a frequentarli studiando con Alan Dawson e Dee Barton. Negli anni successivi entra a far parte dell'orchestra di Stan Kenton, che affianca anche come insegnante nei seminari. Quando l’esperienza al fianco di Kenton arriva alla fine per qualche tempo si offre come batterista free lance suonando tra gli altri con Joe Farrell e Freddie Hubbard e a partire dal 1975 entra a far parte della big band di Maynard Ferguson, con la quale registra anche una fortunatissima versione di Gonna Fly Now, il tema del film “Rocky”. Chiusa l’esperienza con Ferguson nel 1978 diventa il batterista dei Weather Report, il più famoso gruppo di jazz-rock. Il suo affiatamento con il bassista Jaco Pastorius è ritenuto l’elemento fondamentale del successo della band. Successivamente suona anche con Mike Brecker, Mike Mainieri, Don Grolnick e Eddie Gomez negli Steps Ahead.
Il 4 giugno 1955 a Focette, in Versilia, si inaugura la Bussola. Il compito di fare da intrattenitori è affidato a Renato Carosone e alla sua mitica orchestra. Il locale, di proprietà di Sergio Bernardini, è destinato a diventare uno dei templi della musica leggera italiana. Carosone, che sta vivendo in quel periodo uno dei migliori momenti della sua carriera, attira migliaia di ammiratori per un’inaugurazione che si trasforma in uno dei più importanti avvenimenti mondani dell’anno. Ci resta per l’intera stagione estiva con un compenso, tutt’altro che disprezzabile per l’epoca, di 160.000 lire a sera. Il cantante napoletano resterà molto legato al locale di Bernardini tanto da sceglierlo per il suo ritorno nel 1975, quindici anni dopo il suo addio alle scene. La Bussola diventa uno dei locali alla moda, punto d’incontro per i vecchi e i nuovi ricchi dell’Italia del boom. Anche i componenti dello staff del locale diventano famosi come le star della musica, soprattutto il direttore di sala Aldo Bellandi, lo chef Carletto Pirovano e l’amministratore Antonio Favilla. Nell’arco di un decennio sul palco della Bussola passano quasi tutti i grandi protagonisti della musica leggera italiana e internazionale, da Louis Armstrong a Neil Sedaka, dai Platters ad Adriano Celentano, da Peppino Di Capri a Don Marino Barreto jr., a Milva, Ella Fitzgerald, Domenico Modugno, Gilbert Bécaud e tantissimi altri, compresa Mina che proprio qui muove i suoi primi passi verso la gloria.
Il 3 giugno 1935 a Philadelphia, in Pennsylvania, nasce Theodore Curson, destinato a lasciare un’impronta significativa come trombettista con il nome di Ted Curson. I primi passi in musica li muove sotto la guida di Jimmy Heath. In quel periodo incontra anche Miles Davis che dopo averlo ascoltato lo incoraggia a proseguire. A vent’anni se ne va a New York dove si fa conoscere nell’ambiente del jazz e suona con personaggi di spicco come Mal Waldron, Red Garland, Philly Joe Jones, Cecil Taylor. Nel 1959 Charlie Mingus lo vuole con sé in quella che i critici considerano forse la miglior formazione raccolta dal grande bassista le cui idee vengono assecondate e sviluppate dalle geniali intuizioni di Eric Dolphy. Più tardi entra a far parte del gruppo di Max Roach e poi di quello di Bill Barron e solo dopo molti tentativi riesce finalmente a riunire una formazione sotto suo nome. Negli anni Sessanta suona con quasi tutti i grandi protagonisti del jazz internazionale, da Chris Woods ad Andrew Hill, da Lee Konitz a Kenny Barron, da Nick Brignola ad Arne Dommerus a molti altri. Scrive anche colonne sonore per il cinema e la TV e registra vari dischi con Cecil Taylor, Charlie Mingus, Kenny Barron, Archie Shepp, oltre che con formazioni sotto suo nome. Di chiara ispirazione hard bop appare come un curioso e instancabile ricercatore nel rispetto della tradizione jazzistica segnalandosi come uno dei più interessanti trombettisti della seconda metà del Novecento. Muore il 4 novembre 2012.
Il 2 giugno 1937 nasce a Le Locle, in Svizzera, il batterista e percussionista Pierre Favre. A quindici anni inizia a studiare la batteria e soltanto due anni dopo è già un professionista. Dopo aver lavorato in varie orchestre europee, nel 1956 entra come percussionista nell'Orchestra radiofonica di Basilea. Uscitone, nel 1960 si trasferisce a Parigi come free-lance e l’anno dopo suona a Roma con l'American Jazz Ensemble di Bill Smith e John Eaton. Nel 1962 si unisce alla big band di Max Greger. Successivamente suona con grandi jazzisti come George Gruntz, Barney Wilen, Bud Powell, Chet Baker, Lou Bennett, Benny Bailey e tanti altri. Contemporaneamente all’attività orchestrale inizia a sviluppare una propria nuova concezione percussiva nella linea degli improvvisatori europei di quel periodo collaborando con personaggi come Manfred Schoof, Michel Portal e altri. Dalla fine degli anni Sessanta registra anche in proprio pur proseguendo la propria collaborazione con musicisti come John Tchicai, Ole Thilo, Leon Francioli con cui forma anche un duo, Jean-Charles Capon, Mal Waldron, Eje Thetin, Terumasha Hino, Masahiko Sato e Giorgio Azzolini. Negli anni Settanta comincia a esibirsi in concerti per sole percussioni, registrando anche vari album, uno dei quali in duo con Andrea Centazzo. Insieme a Chick Corea, Ornette Coleman, Gary Burton, Eubie Blake e altri, partecipa al "Solo Now Night" al Berliner Jazz Tage. In quel periodo i suoi interessi musicali iniziano a dirigersi sempre più verso le musiche etniche, in particolare Africa, India e Brasile, oltre che verso la musica classica europea. Favre inizia anche a studiare pianoforte e composizione componendo musica e trasformando il suo set di percussioni in un unico e indipendente strumento dotato di un proprio universo espressivo. Nel 1994 crea i Singing Drums con Paul Motian, Nana Vasconcelos e Fredy Studer.
Venerdì 1 giugno 2001 inizia il Festival Ferré di San Benedetto del Tronto. Il compito di aprire la kermesse è affidato al poeta e musicista Jean Ferrat, un tipo schivo che non può essere considerato un abituale frequentatore dei palcoscenici italiani. La serata che inaugura la settima edizione della manifestazione dedicata allo scomparso Leo Ferré è ispirata all'Âme des poetes. Chi meglio di lui, uno dei "mostri sacri" della canzone francese che ha messo in musica le liriche di Aragon, Apollinaire e tanti altri, può rappresentare lo stretto legame che esiste tra la canzone d'autore e la poesia? La prima serata della manifestazione, articolata in due giorni intensi di iniziative, si svolge in quella stessa Sala Consigliare del Palazzo Comunale di San Benedetto del Tronto dove la manifestazione è iniziata. Era il 1994 e gli organizzatori, celebrando il Memorial Ferré a un anno dalla morte del grande poeta e cantautore francese, giurarono di ritrovarsi ogni anno. Nell'anno 2001 c’è anche Jean Ferrat. Lo affiancano sei artisti italiani e francesi, ciascuno dei quali contribuisce ad aggiungere una piccola perla al programma della serata. "Parigi e le sue canzoni" è, invece, il filo conduttore del secondo appuntamento del Festival con un'altra ospite di riguardo. Sabato 2 giugno al Teatro Calabresi è infatti, di scena Isabelle Aubret, che Jean Ferrat ha soprannominato "Isabelle bleu et Isabelle blanche" per sottolineare le due facce del suo temperamento artistico. La cantante presenta al pubblico di San Benedetto il recital che per sei settimane ha infiammato i cuori dei frequentatori del Bobino di Parigi. Il già ricco programma della serata viene poi ulteriormente impreziosito dalla presenza dei Têtes de Bois che propongono alcuni brani di Ferré nelle versioni e negli arrangiamenti che li hanno resi famosi. A otto anni dalla sua morte Leo Ferré, l'anarchico poeta e cantautore torna a rivivere in una manifestazione che va al di là del ricordo di chi lo ha amato. In molti sottolineano che gli sarebbe piaciuta l'impostazione data dagli organizzatori al Festival di San Benedetto del Tronto. È decisamente in sintonia con il suo spirito. Non ci sono inutili celebrazioni, ma vita, poesia e canzoni. Lo spettacolo si mescola con le citazioni, allo stesso modo in cui la musica si mescola abilmente con la poesia. L'impianto organizzativo, le stesse manifestazioni sono decisamente prive della spocchiosa supponenza con la quale spesso si tenta di manipolare gli artisti scomparsi. Attraverso la presenza di protagonisti della canzone d'autore francese e dei molti che si sono innamorati del suo lavoro, Leo Ferré rivive così ogni anno nella musica e nella poesia che sono più forti e più duraturi del semplice e rituale ricordo.