
Il 24 novembre 1991 è giovedì, un giorno banale per morire. Eppure proprio di giovedì, consumato da una lunga agonia, muore di AIDS Farrokh Bulsara, nato a Zanzibar nel 1946, in arte Freddie Mercury, uno dei simboli degli anni Ottanta, emblema rutilante dei Queen. Qualche tempo prima alla domanda «Come vorresti essere ricordato dai posteri, dal mondo dello spettacolo?», aveva risposto «Oh, non lo so. Non ci ho pensato... non so, morto e andato. No, non ci ho pensato e non ci penso... mio dio, ma quando sarò morto si ricorderanno di me? Non voglio pensarci, dipende da voi. Credo che quando sarò morto non m’importerà gran che, anzi a me non fregherà proprio più niente». La sua morte diventa un simbolo della battaglia contro la terribile malattia che, nell'immaginario collettivo, "uccide la diversità". Lo diventa suo malgrado, amplificando e, in parte, sublimando le incertezze e le contraddizioni della sua vicenda personale e artistica. «La nostra è una guerra contro un nemico implacabile. Non c'è tempo per le incertezze né per le giustificazioni: chi non c'è è un disertore» tuona Elizabeth Taylor, uno dei primi personaggi del mondo dello spettacolo a impegnarsi concretamente contro l'AIDS. E nella prima ondata di mobilitazione Freddy non c'è. Né lui, né il suo gruppo vivono la passione politica o l'impegno sociale. Pur essendo musicalmente nati negli anni Settanta interpretano con largo anticipo la cultura degli anni Ottanta, del disimpegno, della fuga dai valori condivisi e della ricerca estetizzante. All'epoca dell'esplosione del punk, nel 1977, i Queen sono l'incarnazione di tutto ciò che il movimento disprezza pubblicamente. Nel 1984 finiscono addirittura nella "lista nera" compilata dalle Nazioni Unite degli artisti che, fregandosene della lotta contro l'apartheid, accettano di suonare in Sudafrica. Per ben otto sere consecutive suonano a Sun City, la Las Vegas della nazione simbolo del razzismo, città che per altri loro colleghi è divenuta invece il simbolo di una battaglia planetaria contro la discriminazione razziale. Non c'è premeditazione, ma semplice disinteresse per tutto ciò che accade fuori dalla loro ristretta visuale. Professionali, senza opinioni e buoni venditori di se stessi diventano una sorta di band esemplare per il music business e anche l'omosessualità di Freddie lungi dall'essere proclamata come una bandiera di libertà viene vissuta come un fatto privato e personale come si conviene alle "persone per bene". Pur essendo campioni di vendite sono però poco amati dalla critica che considera la loro storia musicale sostanzialmente finita nel 1975 con la pubblicazione di A night at the Opera, l'album di Bohemian Rhapsody, una sorta di manifesto musicale che mescola in modo geniale hard rock, pomposità barocca e melodramma. Pochi mesi prima della morte di Mercury l'idea di un gruppo ormai arrivato alla frutta è divenuta più generale. Ciascuno dei componenti sembra più impegnato nei propri progetti individuali per far pensare a un nuovo colpo d'ala. Lo stesso Freddie coltiva con attenzione le potenzialità della sua straordinaria voce, uno strumento capace di valorizzare canzoncine di cui, senza la sua interpretazione, non rimarrebbe neppure il ricordo. In questa situazione si inserisce la morte di Freddy. Una fine straziante, che lo accomuna a moltissimi altri, e lo trasforma in un simbolo della lotta contro l'AIDS. È la catarsi. La sua mai rivendicata omosessualità si fa bandiera e il suo calvario finale diventano l'emblema di un impegno internazionale contro un morbo che ha fra i suoi più stretti e fedeli complici la discriminazione. In pochi mesi viene organizzato nello stadio di Wembley a Londra “A concert for life - Tribute to Freddie Mercury”, un grande concerto i cui proventi sono destinati a finanziare la ricerca contro l'AIDS. Centinaia di milioni di spettatori assistono all'evento, rimandato in settanta nazioni diverse, compreso anche quel Sudafrica, finalmente uscito (e non grazie ai Queen) dal lungo tunnel dell'apartheid. La vera anima dell'evento è da ricercare nel gruppo di personaggi del mondo dello spettacolo da anni impegnati su questo fronte e che hanno un'agguerrita testimonial proprio nell'attrice Elizabeth Taylor. Nessuno si nega all'invito. Sul palco allestito nello stadio di Wembley sfila l'élite della musica pop internazionale di quel periodo, dai Metallica agli Extreme, dall'ideatore di Live Aid Bob Geldof agli Spinal Tap, dai Def Leppard ai Guns N’ Roses, dall'italiano Zucchero agli irlandesi U2 in collegamento via satellite da Sacramento in California. Particolarmente emozionanti sono le esecuzioni delle canzoni di Freddie Mercury da parte di una lunga serie di amici, a partire da George Michael che canta Year of 39 da solo, These are days of our lives con Lisa Stanfield e Somebody to love insieme al London Community Gospel Choir. David Bowie esegue Under pressure in coppia con Annie Lennox mentre Elton John dedica all'amico scomparso le commoventi versioni di Bohemian rhapsody con l'aiuto di Axl Rose e, soprattutto, di The show must go on, il brano che i Queen giurano solennemente di non eseguire più dopo la morte del loro leader. La morte di Freddy esalta la solidarietà ma anche il music business che, ancor più di quando era in vita, ne sfrutta voce, immagine, registrazioni e inediti al di là di ogni immaginazione come accade con il miliardario remix di Living on my own, una disinvolta operazione commerciale priva di rispetto ma molto redditizia. Il music business oggi lo ricorda con un'alluvione di iniziative commerciali che non aggiungono nulla al suo valore artistico. C’è chi preferisce ricordarlo per quello che era: un'artista con luci e ombre, una voce unica, ma soprattutto un uomo, una persona, uno fatto di carne e ossa come noi che è morto di AIDS dopo un lungo calvario di sofferenze.
Il 23 novembre 1950 nasce il sassofonista Richard Raux. Creolo, passa l'infanzia nel Madagascar, un luogo dove la musica si abbevera alle tradizioni africane, indiane e cinesi. Questa ricchezza sonora dominata dal ritmo influenzerà tutta la sua ispirazione come e più dei dischi di Parker e di Coltrane. A tredici anni è il batterista della migliore orchestra malgascia di jazz, diretta da Jeannot Rabéson, ma il suo sogno è quello di imparare a suonare il sassofono. Si mette di impegno e ce la fa. Frequenta per due anni i corsi di sassofono e composizione al conservatorio (anche se in epoche successive si farà passare per un autodidatta) e alla fine degli anni Sessanta è a Parigi dove si esibisce in un trio al Gill's Club e successivamente suona nei Magma, la formazione di Christian Vander. Non rinuncia, però, a qualche esperienza in proprio come gli Stuff, una band di cui fanno parte, oltre a Vander, Paco Charleri e Claude Engel. Entrerà poi nel progetto Faarmadin poi negli Hamsa e poi in tanti altri progetti che si muoveranno verso il suo obiettivo: liberare la musica jazz dal peccato originale dell'influenza statunitense. Negli anni Settanta così spiega i suoi progetti: «Vorrei dare al pubblico l'equivalente della soul music, ma nel senso più universale, non solo ristretta all'anima nera americana». Nel suo sogno musicale c'è spazio per l'Africa e l'oriente e soprattutto per le suggestioni della musica indiana che si sforza di rendere comprensibile al grande pubblico. Ecco perché ama Shepp ma esprime riserve sul free jazz il cui tempo irregolare non lo convince affatto.















Il primo e più eclatante scandalo della cosiddetta "Dolce Vita" è lo spogliarello del Rugantino. La sera del 5 novembre 1958 per festeggiare il ventiquattresimo compleanno della contessa Olghina di Robilant, l’amico Peter Howard offre una cena a centocinquanta persone presso il ristorante ‘Rugantino’. All’appuntamento sono presenti molti protagonisti delle notti romane. È notte fonda quando Anita Ekberg, sorretta da un numero imprecisato di drink ad alta gradazione alcolica, si lancia in un cha-cha-cha caratterizzato da scivoloni e dalla difficoltà di coordinare il movimento delle gambe con il resto del corpo. Nell’atmosfera surriscaldata l’eccitazione dei presenti tocca il culmine quando la ballerina turca Aiché Nanà comincia a sfilarsi, uno dopo l’altro, i vestiti. Prima cade a terra l’abito, poi le calze, seguite dal reggiseno. Al momento dell’irruzione della polizia nel locale, la Nanà indossa ancora le mutandine. Tutti i presenti vengono identificati e molti finiscono la serata in questura. Nonostante alcune diffide poco convinte, molti giornali, a partire dall’Espresso, pubblicano le piccanti fotografie dell’esibizione, sia pur coperte nei punti strategici da macchie nere. Per l’episodio verranno rinviati a giudizio con l’accusa di atti osceni in luogo pubblico, oltre alla spogliarellista e al suo fidanzato Sergio Pastore, due principi, un marchese, tre musicisti dell’orchestra e il gestore del ristorante. L’Italia esce a passo di cha-cha-cha dagli anni Cinquanta. 