30 luglio, 2017

30 luglio 1942 – La tubercolosi uccide Jimmy Blanton

Consumato dalla febbre e dal dolore giovedì 30 luglio 1942 nel letto di una triste camerata comune del sanatorio di Monrovia, in California, muore di tubercolosi il contrabbassista Jimmy Blanton. Per i frettolosi inservienti non è altro che un nero come tanti in un epoca in cui in molti Stati si discute ancora se questi strani esseri dalla pelle scura debbano godere o no dei diritti civili. Un modesto e anonimo funerale chiude la breve vita di un musicista destinato a lasciare un segno importante nella storia del jazz e del rock. Quando la tubercolosi se lo porta via ha ventun anni, ma ne dimostra di meno. Le foto dell’epoca mostrano la sua faccia da ragazzo quasi nascosta dietro a uno strumento imponente come il contrabbasso. Nato a St. Louis, nel Missouri, in una famiglia poverissima per passare il tempo si diverte a suonare strumenti a corda inventati da lui. Quando qualcuno gli fa conoscere il contrabbasso decide che quello strano strumento, così simile a quelli con cui gioca, sarà la sua vita. Istintivo e geniale, non ha ancora l’età per portare i pantaloni lunghi quando viene ingaggiato dall’orchestra Jeter-Pillar, una delle più famose della sua città. Nel 1939 il grande Duke Ellington lo ascolta per caso, ne resta affascinato e gli propone, nonostante abbia solo diciott’anni, di entrare nella sua orchestra. L’avventura con il Duke dura fino all’inverno del 1941 quando Jimmy scopre di doversi occupare di una compagna più esigente e più totalizzante del suo strumento: la tubercolosi. Nonostante la brevità della sua carriera Blanton ha un'influenza rilevante nell’evoluzione dell’utilizzo del contrabbasso che lui trasforma da strumento defilato d’accompagnamento in una “voce” importante dell’insieme strumentale. Leggendari restano la sicurezza del suo attacco, la potenza della sonorità e i suoi dialoghi strumentali con il solista o le varie sezioni. La sua lezione, raccolta e sviluppata dai maggiori contrabbassisti del jazz moderno influenzerà anche l’evoluzione del basso elettrico nel rock-jazz degli anni Settanta.

27 luglio, 2017

28 luglio 1979 - La fine degli Sham 69 e il crepuscolo del punk

Sabato 28 luglio 1979 un imponente servizio d’ordine presidia le strade che circondano il Rainbow di Londra. In quello che è considerato uno dei templi del rock britannico si esibiscono nell’ultimo concerto della loro breve vita gli Sham 69, una band di culto del movimento punk. Le forze dell’ordine sono state allertate fin dalla mattinata. Ogni concerto del gruppo guidato da Jimmy Pursey si trasforma in un campo di battaglia per opera degli skinheads, accesi, quanto imbarazzanti sostenitori degli Sham 69. Del resto non è immotivata la pessima fama, delle “teste rasate”, termine che in quel periodo ha una connotazione di estrema sinistra. Nati come risposta alle provocazioni fasciste del National Front contro i punk, in breve tempo si sono fatti la fama di violenti e attaccabrighe spesso senza motivo. «Se tutti i ragazzi rimarranno uniti, non saranno mai vinti» è il saluto con il quale gli Sham 69 si congedano dal pubblico del Rainbow. Ma non è solo la fine del concerto, né quella della band. La fiammata del punk, anarchica e nichilista, non ha sbocchi e si sta esaurendo. Le urla che salutano l’uscita di scena di Pursey, del batterista Mark “Doidie” Cain, del chitarrista Dave Parsons e del bassista Dave “Kermit” Treganna hanno il sapore dell’addio a una stagione esaltante, ma disperata. Eppure solo un anno prima Jimmy Pursey gettava a terra e calpestava il disco d’argento consegnatogli per le vendite di That’s life in segno di solidarietà con gli Angelic Upstarts, messi alla porta dalla Polydor, la sua casa discografica. Non è più tempo di premi. Le energie del punk si stanno spegnendo. Pursey, dopo un paio d’album da solista, tornerà nell’anonimato, come i ragazzi da lui descritti: «Il punk è un ragazzo che vive in palazzoni desolati della periferia. Non sa cosa fare. Non gli piace la noia e ogni tanto si diverte a sfasciare i vetri di qualche finestra con un mattone, poi torna a casa».

24 luglio, 2017

25 luglio 1965 – Quel rinnegato di Bob Dylan

Il concerto di Bob Dylan è l’evento più atteso dell’edizione del 1965 del Festival Folk di Newport. Due anni prima, infatti, quel giovane scontroso dalla voce nasale era stato salutato come il maggior protagonista di una nuova stagione del folk statunitense. Quasi a sancire la sua consacrazione, durante l’esecuzione del brano “Blowin’ in the wind” era stato raggiunto sul palco da Joan Baez, Peter Paul and Mary, i Freedom Singers e Pete Seeger, vale a dire tutti gli artisti più importanti di quel genere musicale. Il Festival di Newport lo aveva indicato al mondo come il profeta-cantore di una nuova rivoluzione giovanile. Nel 1965, però, è diverso. Son passati due lunghi anni dall’episodio e molte cose sono successe nel frattempo. Bob Dylan non è più quello del 1963. È andato più volte in Inghilterra e ha avuto una lunga serie di incontri e scambi artistici con i protagonisti della scena musicale inglese di quel periodo, in particolare con i Beatles ed Eric Burdon, il cantante degli Animals. Pian piano si è fatta strada in lui l’idea di abbandonare le sonorità acustiche del folk per dare nuova linfa alle sue composizioni. Nei primi mesi del 1965 è nato così l’album Higway 61 Revisited, nel quale il folk delle origini sembra annegare in una esplosiva miscela di rock e blues. Considerato anche nei decenni successivi uno dei migliori dischi del cantautore, con brani come Like a rolling stone, Desolation row o Ballad of a thin man, l’album ha, però, scavato un solco profondo tra Dylan e i “puristi” del folk. La sua decisione di accettare l’invito a esibirsi nel Festival Folk di Newport sembra quasi preludere a un ripensamento critico nei confronti delle sue ultime scelte, ma c’è chi lo aspetta al varco per fargli pagare caro quello che considera un “tradimento”. Il 25 luglio 1965, quando appare sul palco accompagnato dalla Paul Butterfield Blues Band tutti capiscono che Dylan ha deciso di tirare dritto e di non accettare imposizioni o richiami al passato. Lui è quello che è. Fin dalle prime note elettriche il pubblico si divide a metà: da una parte quelli che urlano, schiamazzano e lo chiamano “rinnegato”, dall’altra chi si appassiona alla trascinante carica delle nuove sonorità. Il cantautore, sordo alle contestazioni, mostra una grinta insospettabile, ben sostenuta dalla band di Paul Butterfield, che schiera musicisti di tutto rispetto come Elvin Bishop, Mike Bloomfield e Al Kooper Questo atteggiamento infastidisce ulteriormente i suoi detrattori che iniziano a premere sulle transenne. A nulla vale l’intervento pacificatore di altri artisti. Alcuni esagitati tentano anche di salire sul palco e vengono respinti a stento dal servizio d’ordine. Dylan sembra non vedere e non sentire nulla. Snocciola, una dopo l’altra le sue canzoni e, orrore!, anche quelle vecchie e più conosciute vengono presentate in una nuova versione elettrica, mentre nel pubblico continuano le discussioni e le minacce di scontro fisico tra chi lo invita a smettere e chi lo incita ad andare avanti. Come spesso accade, nessuno si rende conto di vivere un evento fondamentale della storia del rock. Quel concerto, infatti, verrà ricordato negli anni, oltre che come la prima grande svolta nella carriera di Bob Dylan, come il primo, coraggioso e riuscito tentativo di innovare le sonorità del nuovo folk statunitense. Dopo di lui altri artisti seguiranno la sua strada e lo stesso Festival Folk di Newport si aprirà alle strumentazioni elettriche. Verrà anche coniato un nome per il nuovo genere, folk rock, capace di salvare capra e cavoli (la capra della tradizione e i cavoli dell’innovazione). Dylan non si fermerà qui. Qualche mese dopo incontrerà gli Hawks di Robbie Robertson, dal cui nucleo nascerà la Band, il gruppo destinato ad affiancarlo per lungo tempo.

22 luglio, 2017

22 luglio 1967 - La prima volta dei Vanilla Fudge

Nel Village Theatre di New York la sera di venerdì 22 luglio 1967 non si respira. L’afa, il fumo delle sigarette e il calore dei corpi di centinaia di ragazze e ragazzi stordiscono più della musica diffusa dalle casse audio del locale. Sfidando la calura estiva in molti aspettano il concerto dei Byrds, annunciato come l’evento principale del fine settimana. Il cartellone della serata prevede l’esibizione di due gruppi di contorno: i Seeds e i Vanilla Fudge. Questi ultimi, sconosciuti ai più, sembrano destinati a fare le spese dell’impazienza degli spettatori, accaldati e ansiosi di applaudire la band principale. Un mormorìo insofferente accoglie il loro ingresso sulla scena. Sono quattro, Vince Martell alla chitarra, Carmine Appice alla batteria, Tim Bogert al basso e Mark Stein alle tastiere. Senza dire una parola iniziano a suonare una stralunata versione di You keep me hangin’ on, un brano "leggero" portato al successo dalle Supremes. Le note distorte delle tastiere e della chitarra, talora in leggera dissonanza, sorrette da una batteria che sembra suonare in controtempo, catturano l’attenzione del pubblico che, rapito, si lascia ipnotizzare dalla liquidità psichedelica della band. L’esibizione segna l’inizio delle fortune dei Vanilla Fudge. Scritturati dall’Atlantic, incuriosiranno i ragazzi di tutto il mondo con la loro musica, caratterizzata da un collage di citazioni classiche e rivisitazioni psichedeliche di canzoni famose. Nelle loro esecuzioni si ritrova di tutto: dai successi pop del momento ai Beatles, a Chopin, a Stravinsky. Il successo della band sarà breve, un paio d’anni o poco più. Nel 1970 i Vanilla Fudge si scioglieranno lasciando ai critici il compito di gingillarsi con un dubbio su quel frullato di suoni che caratterizzava le loro esecuzioni: un’intelligente contaminazione tra varie forme musicali filtrate attraverso la psichedelia o una furba e fortunata operazione commerciale?

20 luglio, 2017

21 luglio 1959 – Rossana Casale, una voce da jazz

Il 21 luglio 1959 nasce a New York Rossana Casale, una delle voci più interessanti del jazz e della musica leggera italiana degli ultimi anni. Dopo aver passato i primissimi anni della sua vita negli Stati Uniti torna in Italia e nel 1973 si iscrive al Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano dove studia percussioni, musica elettronica e, soltanto in un secondo momento, canto. Sta ancora frequentando i corsi quando inizia a lavorare come corista prima con Paola Orlandi, poi con Lella Esposito e successivamente con un quintetto vocale che la vede anche tra le promotrici. In pochi anni diventa molto popolare nell'ambiente musicale milanese per la sua voce limpida e quasi naturalmente impostata che fa da sfondo sonoro alle incisioni di un gran numero di cantanti, da Edoardo Bennato a Ron, a Riccardo Cocciante a Mina, a tanti altri. Forse in questo periodo nasce il contrasto interiore che non la porterà a scegliere mai definitivamente tra jazz e musica leggera. Il suo primo disco in proprio viene pubblicato nel 1983. Si tratta di Didin, una sorta di cantilenante gioco musicale realizzato in collaborazione con Alberto Fortis e prodotto da Flavio Premoli della PFM. Il discreto interesse del pubblico e l'invito della critica a osare di più la convincono a continuare. Dopo un mini-album premiato nel 1985 dalla critica con la Vela d'Argento, si presenta al Festival di Sanremo del 1986 con Brividi, un brano suggestivo ricco di spunti jazzistici. La canzone sanremese anticipa la pubblicazione del primo l'album di grande respiro, La via dei misteri, che contiene una straordinaria e rivelatrice versione di Sitting dock of the bay. Negli anni successivi alterna scorribande jazzistiche con l'impegno di cantante di musica leggera, quasi fosse indecisa su quale strada prendere. Nonostante la sua "voce da jazz" non molla mai del tutto l'ambiente della musica leggera che è spesso invidioso e riluttante a comprenderne appieno le potenzialità. Dopo la partecipazione a Umbria Jazz e alla Rassegna Jazz di Roma del 1987 abbandona le scene per approfondire la sua grande passione per i tempi dispari e lo swing. Il risultato dell'anno sabbatico è Incoerente jazz, un album inciso con alcuni tra i migliori jazzisti italiani. Negli anni successivi le sofisticate incursioni nella musica leggera si alterneranno con la produzione di piccoli gioielli di jazz classico cesellati in modo sapiente dalla sua voce.

15 luglio, 2017

15 luglio 1984 - Si ferma il grande cuore di Big Mama Thornton

In una Los Angeles assediata dal caldo il 15 luglio 1984 muore a cinquantasette anni la cantante blues Willie Mae Thornton, più conosciuta con l’appellativo di “Big Mama”. Il suo cuore si è fermato proprio alla vigilia della partenza del suo nuovo tour. Esuberante come un’adolescente, nonostante l’età e la mole, con la sua voce tonante lascia un segno indelebile nella storia della musica nera. Nata l’11 dicembre 1926 a Montgomery, in Alabama, è considerata, insieme a Koko Taylor, l'esponente femminile di maggior prestigio del blues del dopoguerra. Dopo aver fatto parte dell'Hot Harlem Revue, nel 1951, grazie alla protezione di Johnny Otis, pubblica i primi dischi di rhythm and blues con la band dello stesso Otis. Nel 1953 la critica la proclama “miglior interprete di rhythm and blues dell’anno” per la canzone Hound dog. In quel periodo registra anche il brano They call me Big Mama, il suo inno personale. Estrosa e anticonformista, fatica ad adattarsi al alle esigenze dell’industria discografica e non si cura di monetizzare il successo. Hound dog vende più di due milioni di copie, ma a lei non toccano che le briciole tanto che qualche anno dopo dichiarerà, candida: «Per quel disco mi hanno dato un assegno di cinquecento dollari, niente di più. Un po’ poco, vero?...». Alla fine degli anni Cinquanta, considerata ormai fuori moda, viene messa ai margini dei grandi circuiti, ma non se la prende più di tanto. Tira avanti suonando la batteria e l’armonica in piccoli gruppi della Baia di San Francisco e compone brani come Ball and chain destinato a far parte del repertorio di Janis Joplin. Negli anni Sessanta, riscoperta dai giovani eroi del folk elettrico, diventa un’artista di culto e conosce una nuova giovinezza lavorando con quasi tutti i grandi maestri del blues, da Muddy Waters a James Cotton, da Muddy Waters a Otis Spann e B.B. King. Alla fine degli anni Sessanta si accosta progressivamente al blues moderno di Chicago e fino alla sua morte continuerà a regalare al pubblico concerti e dischi indimenticabili, con l’energia di una ragazzina.

08 luglio, 2017

8 luglio 1966 - La bandiera USA nella polvere, i Rolling Stones nei guai

Nelle prime ore del pomeriggio di venerdì 8 luglio 1966 davanti all’albergo californiano che ospita i Rolling Stones, impegnati in un lungo tour statunitense, si nota un’insolita agitazione. La folla di ammiratori che staziona in cerca d’autografi è improvvisamente cresciuta di numero. Ansanti e sudati, decine di giornalisti, fotografi e operatori TV, cercano di farsi largo ed entrare. Da pochi minuti le agenzie di stampa hanno diffuso la notizia che gli Stones sono stati formalmente incriminati per oltraggio alla bandiera degli Stati Uniti e per una serie di reati minori collegati. I fatti cui si riferisce l’accusa risalgono a un paio di giorni prima quando, in un concerto a Syracuse, Mick Jagger, il cantante della band, ha trascinato a lungo sul palco una bandiera a stelle e strisce, calpestandola più volte tra gli applausi di migliaia di fans in delirio. Sono gli anni della guerra in Vietnam e con la bandiera non si scherza. In meno di ventiquattro ore è scattata la formalizzazione dell’accusa e da più parti si chiede l’immediata espulsione dei “cinque inglesi promotori di teppismo”. L’assedio dei giornalisti all’albergo sembra destinato a non sortire alcun effetto quando, improvvisamente, si affaccia nella hall il chitarrista Keith Richards. Dalla folla assiepata qualcuno urla: «Vi sentite orgogliosi di avere offeso un’intera nazione? Approfittate del vostro ruolo per corrompere la nostra gioventù, non lo sapete che per noi la bandiera è quasi una religione?» La frase ha l’effetto di uno sparo. Nel silenzio generale Keith risponde: «La nostra religione è la distruzione di tutte le religioni e di tutti i pregiudizi. Noi vogliamo la liberazione dell’uomo. Quando sentiamo i ragazzi gridare con noi, ci rendiamo conto di svolgere un vero e proprio servizio sociale...».

06 luglio, 2017

7 luglio 1977 – Steve Harley scioglie i Cockney Rebel

Il 7 luglio 1977, confermando le voci che da tempo circolano nell’ambiente musicale britannico, Steve Harley annuncia ufficialmente lo scioglimento dei Cockney Rebel e la sua intenzione di continuare come solista. Nato a Lewisham, Londra, il 27 febbraio 1951, Harley, che all'anagrafe si chiama Steven Nice, è il leader della band fin dal 1973, anno della sua formazione. Segnato nel fisico dalla poliomielite contratta da piccolo, terminati gli studi liceali, inizia a lavorare ma non rinuncia alla musica. Scrive canzoni e dà vita ai Cockney Rebel con il tastierista Milton Reame-James, il chitarrista e violinista Jean Paul Crocker, il bassista Paul Avron Jeffrey e il batterista Stuart Elliott. Pochi mesi dopo la band firma il suo primo contratto discografico con la EMI ed entusiasma la critica con The human menagerie, lo splendido album del debutto che contiene anche la sinfonica e decadente Sebastian, destinato a diventare uno dei brani più suggestivi del repertorio dal vivo di Steve. I successivi Judy teen e Mr. soft danno spazio alla faccia più commerciale del gruppo e Harley, considerato dai critici come una sorta di sintesi tra la gestualità di David Bowie e il carisma scenico dei Roxy Music, viene premiato “artista rivelazione” del 1974 dalla stampa britannica. Dopo l’album The psycomodo viene annunciato, a sorpresa, lo scioglimento della band. Si tratta, più che altro, di una scelta che denuncia il disagio esistenziale del leader. Lo scioglimento, infatti, dura lo spazio di un mattino. Di lì a poco lo stesso Harley annuncerà la ricostituzione del gruppo con il nome di Steve Harley & Cockney Rebel e con una formazione che, oltre al solito Elliott, comprende l’ex chitarrista dei Family Jim Cregan, il bassista George Ford e il tastierista Francis Monkman, già con i Curved Air, che verrà poi sostituito da Duncan MacKay. Nella sua nuova dimensione la band e soprattutto il suo leader faticano a convincere i vecchi fans, nonostante il buon successo commerciale delle prime incisioni. Nell’inverno del 1976 l’album Love's prima donna fa di nuovo gridare al miracolo, ma anche questa volta il successo mette in crisi Steve Harley. L'annuncio del definitivo scioglimento della band non suscita particolare scalpore. Negli anni successivi ci saranno periodici tentativi di rimettere insieme i cocci di una delle più promettenti esperienze del rock britannico degli ultimi anni Settanta, ma nonostante i buoni risultati commerciali non riusciranno più a ritrovare lo spirito originario.

6 luglio 1987 - La targa dei reduci nella spazzatura di Kris Kristofferson

L’ansia di “normalizzazione culturale” dell’America reaganiana nei primi giorni del luglio 1987 sceglie come bersaglio per i suoi strali uno dei personaggi più popolari dello star system: il cantautore e attore Kris Kristofferson, autore di canzoni come Me and Bobby McGee e interprete di film di successo come “Pat Garrett and Billy The Kid”, “Alice non abita più qui”, “È nata una stella” e “Convoy”. La campagna contro di lui, condotta da vari giornali popolari e da numerose reti televisive, si basa su un’accusa infamante come quella di aver gettato nella spazzatura una targa ricordo affertagli dai reduci della guerra del Vietnam. La campagna è subdola e mirata perché arriva a pochi giorni da un concerto svoltosi il 4 luglio, che ha visto Kristofferson insieme ad altri artisti come John Fogerty, l’ex cantante e chitarrista dei Creedence Clearwater Revival, Linda Ronstadt e Neil Diamond raccogliere fondi proprio per le famiglie dei reduci «mandati al macello in una sporca guerra e poi dimenticati». Non è piaciuta all’establishment reaganiano l’impostazione poco patriottica dell’evento più volte scandito da slogan contro tutte le guerre. A poche ore dal concerto le agenzie diffondono la notizia che la targa donatagli dai reduci per l’occasione, è stata ritrovata in un sacco dei rifiuti sotto casa sua. La campagna va avanti, martellante, per un paio di giorni finché il 6 luglio 1987 il biondo cantante e attore convoca una conferenza stampa e mostra la famosa targa ai giornalisti sostenendo che il “caso” è stato inventato. Visto che ne ha l'occasione, ribadisce poi che è sua intenzione impegnarsi a favore di «tutti i reduci della sporca guerra, anche di quelli vietnamiti».

04 luglio, 2017

5 luglio 1971 – Al Vigorelli fumogeni sui Led Zeppelin

Il 5 luglio 1971 al Vigorelli di Milano è in programma l'atteso concerto dei Led Zeppelin. La polizia, drammatizzando le annunciate contestazioni contro il costo del biglietto, ha schierato oltre duemila agenti in assetto antisommossa nel perimetro esterno dell'impianto. I modi spicci e brutali con i quali gli agenti hanno represso, fin dalle prime ore del pomeriggio, ogni accenno di protesta, hanno contribuito a creare un clima di nervosismo generale. Alle 22.40 i Led Zeppelin iniziano a suonare. Un centinaio di ragazzi senza biglietto trattenuti all'esterno inizia a urlare «PS-SS». Parte una carica violenta. I giovani si disperdono. Un gruppetto approfitta della confusione per sfondare un cancello incustodito. La polizia lancia verso di loro alcuni lacrimogeni che finiscono, ovviamente, dentro al Vigorelli. Il risultato è devastante. I diecimila spettatori, immersi nel fumo dei lacrimogeni, si ammassano verso il palco. I Led Zeppelin sospendono il concerto e Robert Plant invita tutti alla calma. Si riprende con Since I' been loving you, ma il fumo ha ormai raggiunto anche il palcoscenico. Robert Plant tossisce e Jimmy Page piange copiosamente. Altri dieci minuti di confusione poi la band attacca Whole lotta love, mentre dall'esterno la polizia lancia un'altra cascata di lacrimogeni sul lato destro della platea. La folla degli spettatori preme sempre di più verso il palco. Nel momento in cui parte l'assolo di batteria il palco piomba nel buio. Non arriva più energia elettrica. I Led Zeppelin si arrendono. Lasciano il palcoscenico mentre il pubblico cerca scampo verso il palco. La ressa è paurosa. Gli spettatori, soffocati dal fumo dei lacrimogeni, si accalcano verso le uscite. Presa tra due fuochi la polizia reagisce con veemenza. Gli scontri dureranno tutta la notte e si estenderanno ad altre zone della città. Nei giorni successivi Robert Plant, il cantante della band, accuserà di "barbarie" la polizia italiana, unica responsabile, a suo dire, degli incidenti.