23 dicembre, 2019

23 dicembre 1996 – Rina Ketty, un'italiana a Montmartre


Il 23 dicembre 1996 muore a Cannes Rina Ketty, al secolo Rina Picchetto, l’italiana arrivata per caso nella capitale francese e divenuta poi una stella luminosa della canzone. Sul luogo d'origine c'è un mistero. Per alcuni biografi Rina Ketty nasce il 1° marzo 1911 a Torino, per altri a Sarzana, al n° 6 di Via Emiliana. Dei suoi primi anni non si sa molto anche se la leggenda racconta di una fanciulla che alterna lezioni di “bel canto” con attività d’arte domestica destinate a fare di lei una perfetta ragazza da marito. Vero e falso si confondono fino a quando, all’inizio degli anni Trenta, parte per Parigi dove dovrebbe fermarsi giusto il tempo di fare visita alle zie lì emigrate. Il passaggio alla capitale francese ha l’effetto di una scossa elettrica. La ventenne Rina respira a pieni polmoni l’aria della capitale francese, si lascia catturare senza opporre alcuna resistenza dalle suggestioni della sua vita culturale e diventa una frequentatrice assidua di quella straordinaria mescola di musicisti, poeti, pittori, filosofi, scrittori e illusi vari che si autodefinisce Comune Libera di Montmartre. I suoi componenti non hanno una sede vera e propria, ma tanti luoghi di ritrovo quanti sono i locali che si affacciano sulle vie che innervano il quartiere di Montmartre. Uno di questi è il “Lapin à Gill”. Proprio qui, in una serata del 1932, l'italiana arrivata a Parigi per far visita alle zie trova il coraggio di far sentire la sua voce ai compagni d’avventura e al pubblico presente. Non canta canzoni intere, ma soltanto qualche ritornello di brani più in voga. Lei accenna e, quando non si ricorda le parole, gli amici l’aiutano a completare il brano. Nonostante l’approssimata esibizione il pubblico resta affascinato dalla personalità di quella ragazza e quell’accento italiano che ne caratterizza la dizione diventa un elemento aggiuntivo al suo fascino. Intrigante ed esotico è destinato a essere parte della sua cifra artistica. Quella sera a Montmartre Rina Picchetto diventa definitivamente Rina Ketty. Il buon successo riscosso dall’improvvisata esibizione al “Lapin à Gill” convince Rina Ketty delle sue potenzialità come cantante, ma soprattutto convince i proprietari dei vari locali di Montmartre la scritturano. La ragazza assembla un repertorio imperniato sulle canzoni più adatte alla sua voce e al suo stile nel quale spiccano brani di Paul Delmet, Gaston Couté, Théodore Botrel e Yvette Guilbert. Il più assiduo tra i musicisti che l’accompagnano è il fisarmonicista Jean Vaissade, un tipo che conosce bene gli umori del pubblico parigino e che consiglia a Rina di non modificare per niente il suo accento italiano. «È esotico e sentimentale al tempo stesso. Invece di nasconderlo dovresti metterlo maggiormente in evidenza con brani costruiti a questo scopo». Jean non è soltanto il suo consigliere artistico. Innamorato di lei fin dal primo incontro diventa ben presto il suo confidente, amico e infine amante. Grazie alla sua intuizione nasce il mito della “chanteuse italienne exotique et sentimentale”, la cantante italiana esotica e sentimentale, capace di far battere forte il cuore degli abitatori della notte parigina. Di locale in locale, di concerto in concerto la sua popolarità supera i confini di Montmartre per allargarsi all’intera capitale. Di lei si accorge anche la nascente industria discografica. Dopo un contratto firmato negli ultimi mesi del 1935 a partire dal 1936 inizia a frequentare con una certa assiduità le sale di registrazione. Tra le sue prime incisioni spicca un’originale e affascinante versione di Si tu reviens, un brano scritto nel 1935 da Saint-Giniez e Tiarko Richepin per Réda Caire e che verrà ripreso anche da Berthe Sylva. Per uno di quegli strani paradossi così caratteristici del mondo dello spettacolo quella canzone, che oggi è considerata una delle più significative del primo repertorio della cantante, passa quasi inosservata mentre ottengono un buon successo brani come La Madone aux fleurs o Près de Naples la jolie decisamente inferiori sia dal punto di vista musicale che da quello della qualità interpretativa. A partire dal 1937 Rina Ketty arricchisce il suo repertorio con alcune personali versioni francesi di successi italiani e internazionali, tra i quali spiccano Prière à la Madone, Sombreros et mantilles e, soprattutto quella Rien que mon coeur con la quale vince il Grand Prix du Disque del 1938. Nello stesso anno sposa il fisarmonicista Jean Vaissade, l’uomo che le è stato al fianco e al quale deve gran parte delle sue fortune. Nello stesso anno interpreta e pubblica in disco per la prestigiosa etichetta Pathé J'attendrai, il brano più famoso e, insieme, il più grande successo della sua carriera. Si tratta dell’adattamento di una canzone italiana scritta da Dino Olivieri, intitolata Tornerai che a sua volta trae ispirazione da un'aria della “Madama Butterfly” di Giacomo Puccini. La canzone ottiene un enorme successo tanto da essere ancora oggi considerata una delle più significative degli anni immediatamente precedenti la Seconda Guerra Mondiale. Il pubblico accorre numerosissimo ai suoi concerti e le sue esibizioni all’ABC, all'Européen e al Bobino entrano nella leggenda. È forse il miglior momento dell’intera carriera della cantante, che coltiva il suo accento italiano come un fiore prezioso da preservare dalla corruzione, e molti autori scrivono le canzoni in modo da far risaltare la sua dizione e il suo fraseggio elaborato. Nel giugno del 1939 Rina Ketty fa un'incursione nel repertorio classico con il brano Mon coeur soupire, un adattamento dell’aria "Voi che sapete" da “Le nozze di Figaro” di Mozart. Solo due anni dopo il matrimonio il suo rapporto con Jean Vaissade va in crisi e alla fine del 1940 i due si sono già separati definitivamente. Dopo lo scoppio della Seconda guerra mondiale l’Italia fascista occupa parte del territorio della Francia ormai prostrata dall’invasione nazista. Non sono tempi bellissimi per gli artisti di origine italiana e Rina Ketty vive un po’ in disparte limitando le sue esibizioni alla sola Svizzera. Nel 1945, dopo la Liberazione, rientra nel giro con un concerto all'Alhambra seguito da cinque mesi di tournée in Francia. I tempi però sono cambiati e nuovi personaggi femminili stanno conquistando il pubblico che un tempo era stato solo suo. Pur non toccando più i vertici di grazia raggiunti prima della guerra ottiene ancora un buon successo grazie a brani come Sérénade argentine, La samba tarentelle e La Roulotte des gitans. La Francia però le va stretta. Nel 1954 attraversa l’oceano per andare in Canada dove resta fino al 1965 quando, presa da nostalgia, torna sulle scene francesi. L’epoca dei trionfi è ormai lontana e lei, sia pur con qualche resistenza, pian piano si abitua al fatto che la musica non può più essere il suo principale interesse. Trova anche un nuovo amore in Jo Harman che diventa il suo secondo marito e si trasferisce a Cannes dove si occupa di restauri. Nel 1991 il ministro della cultura della Repubblica Francese Jack Lang le conferisce il titolo di Cavaliere dell'Ordine delle Arti e delle Lettere, la più importante onorificenza di Francia nel campo della cultura. Nel marzo 1996 appare per l’ultima volta sulla scena e nove mesi dopo il suo cuore cessa per sempre di battere all'ospedale delle Broussailles a Cannes.


22 dicembre, 2019

22 dicembre 1910 – Reunald, il cugino di Eldridge


Il 22 dicembre 1910 nasce a Indianapolis, nell’Indiana, il trombettista Reunald Jones sr. Il ragazzo cresce in una famiglia nella quale la musica è un po' il pane quotidiano, visto che il padre, insegnante al conservatorio, cerca di trasmettere ai figli la passione per il rigo musicale. Si può dire che il destino di Reunald e di gran parte della parentela sia segnato fin dalla nascita. Due suoi fratelli, pur senza restare nella storia, suoneranno professionalmente e il talentuoso cugino Roy Eldridge entrerà nelle enciclopedie come uno dei più grandi trombettisti che il jazz abbia mai conosciuto. Proprio quest'ultimo finirà per oscurare in parte la carriera di Jones, costretto spesso a non brillare di luce propria ma a essere considerato il "cugino di Eldridge". Eppure la sua è una carriera di tutto rispetto. Studia musica, ovviamente, fin da bambino e fa il suo debutto a Minneapolis suonando con varie formazioni locali prima di essere ingaggiato nel 1930 dall'orchestra di Speed Webb, la stessa che schiera in organico anche suo cugino Roy Eldridge. Nel corso degli anni Trenta e Quaranta suona con Charlie Johnson, Teddy Hill, Jimmie Lunceford, Fess Williams, Sam Wooding, Cluade Hopkins, Chick Webb, Willie Bryant, Don Redman e Duke Ellington, imponendosi come una tromba guida dall'attacco deciso e dalla sonorità brillante. Per gran parte degli anni Cinquanta resta uno dei punti cardine dell'orchestra di Count Basie. Passerà poi con Woody Herman e, successivamente, con la big band di George Shearing. Gli anni Sessanta lo vedranno al fianco di Nat King Cole e Phil Moore. Muore il 26 febbraio 1989.



20 dicembre, 2019

20 dicembre 1882 – Morte a Franz, viva Oberdan!

Il 20 dicembre 1882 muore impiccato Guglielmo Oberdan, un giovane irredentista triestino protagonista di un fallito attentato all’imperatore Francesco Giuseppe (Franz). Dopo la sua morte nasce un canto particolare. Si intitola Inno a Oberdan e le sue strofe inneggiano alla morte dell’imperatore austriaco. Pur potendo rientrare tra le canzoni e gli inni patriottici non gode però di particolari simpatie da parte del potere sabaudo. Fin dai primi anni della sua diffusione viene, infatti, guardato con sospetto per il sostanziale invito al regicidio in esso contenuto e per la violenta carica antimonarchica delle sue parole. Cancellato dai "Canzonieri patriottici" finisce per trovare posto in quelli repubblicani e anarchici. Molti sono i simboli che il potere costituito, così pronto a esaltare le gesta degli irredentisti quando servono alla propaganda, ritiene inaccettabili. Il primo è l'assoluta mancanza di riferimenti all'Italia unita, il secondo è l'idea della violenza regicida, patrimonio della tradizione anarco-repubblicana. In più la contrapposizione tra la monarchia austriaca («a morte») e la libertà viene vista come una sorta di condanna implicita del regime monarchico. Ripudiata dalle istituzioni, la canzone diventa patrimonio popolare e, nel periodo della resistenza trova nuove ragioni per essere intonata con spirito anti-tedesco (e antinazista). Ma chi era Oberdan? Guglielmo Oberdank (questo era il suo vero cognome), nasce a Trieste nel 1858. Dopo essersi diplomato nella città natale, nel 1877 se ne va a Vienna per frequentare gli studi di ingegneria. L'anno successivo viene chiamato alle armi e decide di fuggire. Raggiunge Roma dove continua gli studi universitari e, contemporaneamente, si impegna attivamente nelle campagne a sostegno dei movimenti irredentisti. Nel settembre 1882 viene annunciata la visita ufficiale dell'imperatore Francesco Giuseppe a Trieste per celebrare il quinto centenario della "dedizione" della città agli Asburgo. Oberdan decide di rientrare. Insieme all'istriano Donato Ragosa arriva a Trieste contando sulla protezione degli ambienti irredentisti e prepara un attentato all'imperatore. Il sottobosco irredentista, però, è largamente infiltrato da agenti sei servizi asburgici, collaborazionisti e delatori. Denunciato, viene catturato e trovato in possesso di due bombe. Il processo si conclude con la condanna a morte mediante impiccagione. Sua madre presenta una domanda di grazia sostenuta anche da numerosi intellettuali europei, tra i quali Victor Hugo e Giosuè Carducci, ma non cambia nulla. Il 20 dicembre 1882 dunque Oberdan viene impiccato. La campagna a favore della grazia ha allargato a dismisura la sua popolarità e in questo clima nasce anche la canzone Inno a Oberdan. Tra le versioni più drammatiche del brano c'è quella cantata da Milva nel 1965 al Piccolo Teatro di Milano per il ventesimo anniversario della Liberazione nello spettacolo "Canti della libertà" con la regia di Giorgio Streheler.

17 dicembre, 2019

18 dicembre 2001 - L'addio di Gilbert Bécaud

Il 18 dicembre 2001 Gilbert Bécaud muore di cancro a Parigi nella casa galleggiante sulla Senna che da molto tempo è diventata il suo rifugio. A noi lascia un patrimonio incalcolabile di musica, sentimenti ed emozioni, compresa un'inusuale e innovativa opera lirica, "L'Opéra d'Aran", presentata per la prima volta il 25 ottobre '62 al Teatro degli Champs-Elysées a Parigi. Si calcola siano quasi cinquecento le canzoni scritte da Gilbert Bécaud. Un patrimonio ingente che lascia ancora più impressionati se si pensa che lo chansonnier le ha scritte prendendo quasi sempre in prestito le parole dai suoi amici poeti. Sono loro la voce della sua musica, sono loro che ne articolano i pensieri, i concetti, i voli fantastici. Sono i poeti che regalano le parole giuste agli chansonnier. Il primo che fa parlare la sua musica di Bécaud si chiama Maurice Vidalin. È il 1947. Un anno dopo alla coppia si aggiunge Pierre Delanoë, un giovane autore scovato chissà dove dalla cantante Marie Bizet. All'inizio degli anni Cinquanta i poeti che lo affiancano diventano tre con l'arrivo di Louis Amade. Come uomo, prima ancora che come artista, per tutta la carriera ha guardato il mondo con occhi ben aperti e con la coscienza che la poesia, fin dall’antichità, non serve soltanto per cantare l’amore e le emozioni, ma anche per dare voce ai conflitti e alle tensioni della società. Istintivo e passionale non rinuncia mai a essere se stesso neppure nei momenti di maggior successo quando, per ragioni di mercato, i suoi discografici vorrebbero sfumare un po’ i lati più spigolosi del suo carattere. La musica e il pianoforte sono i compagni più fedeli che l’accompagnano fin dai primi anni della sua vita, iniziata il 24 ottobre 1927 in quel di Tolone. Bambino prodigio, François Silly, questo è il suo vero nome, inizia a studiare al Conservatorio di Nizza nel 1935 a soli nove anni affascinato dalla possibilità di carpire i segreti dei tasti bianchi e neri, ma è costretto a interrompere gli studi nel 1942 quando le vicende della guerra e dell’occupazione nazista spingono la sua famiglia a mollare tutto per rifugiarsi in Savoia. In quegli anni si matura in fretta, soprattutto se si vive in una famiglia in cui il primo figlio maschio, Jean Silly, è un combattente della Resistenza. Il piccolo François non è diverso dagli altri. Per sopravvivere cresce aggrappato al pianoforte e quando la guerra finisce e i nazisti se ne vanno lui corre a Parigi dove i locali notturni catalizzano la voglia di vivere delle nuove generazioni. Lì nella capitale François Silly diventa François Bécaud prendendo in prestito il cognome dell’uomo che ha accompagnato la madre dopo la fuga di un padre mai conosciuto veramente. Inizialmente non pensa di avere un talento particolare come cantante. Si immagina musicista di successo, compone canzoni, musiche da film e pigia sulla tastiera brani destinati ad accompagnare il chiacchiericcio del pubblico dei locali notturni. La voce, che per un po’ è quasi un complemento delle sue esibizioni, progressivamente diventa l’elemento distintivo della sua personalità. Il lungo tragitto verso la popolarità passa per il cantante Jacques Pills, l’uomo che gli offre un posto nelle sua orchestra e lo porta con sé in giro per il mondo. Nel corso di una tournée di particolare successo negli Usa il futuro Bécaud incontra Edith Piaf. La cantante più amata di Francia è affascinata dalla personalità del giovane e gli chiede di scrivere qualcosa per lei. Lui le regala Je t'ai dans la peau destinato a diventare rapidamente un successo, uno dei primi regalati ad altri. Nel 1952 Bécaud lascia per sempre il suo nome anagrafico. Muore François Silly e nasce Gilbert Bécaud, lo chansonnier dai modi gentili e dall’eleganza leggermente trasandata. Nello stesso anno nasce anche la bella amicizia che lo lega a un altro debuttante come lui, Charles Aznavour. I due, destinati a essere vissuti come rivali nell’immaginario popolare, in realtà collaboreranno e scriveranno canzoni insieme. Nel 1953 viene pubblicato il primo disco firmato Gilbert Bécaud. Le due canzoni sono Mes mains con il testo di Delanoë e Les Croix firmato Amade. Viene registrato il 2 febbraio, lo stesso giorno in cui nasce sua figlia Gaya. È l'inizio di un'avventura destinata a durare a lungo. Vestito sempre di blu con la cravatta a pois, che si dice non cambi mai per scaramanzia, e che viene dapprima accuratamente annodata, poi slacciata e maltrattata a seconda degli umori dei diversi momenti dell’esibizione, diventa uno dei primi idoli giovanili della storia della musica mondiale. La buona accoglienza che la critica riserva ai suoi dischi, i buoni risultati commerciali, i passaggi radiofonici e qualche concerto nei locali notturni non bastano ancora a far di Gilbert Bécaud un grande della musica francese. In quel periodo è più popolare negli Stati Uniti di quanto non lo sia in patria dove gli manca il vero, grande, travolgente successo dal vivo. L’occasione della vita arriva nel 1955 quando riapre l'Olympia e Bruno Coquatrix, il proprietario del celebre teatro parigino lo scrittura. È la svolta. Il 17 febbraio 1955 la sua esibizione all'Olympia viene "festeggiata" da quattromila fans urlanti che, trascinati dalla carica dell’esibizione, distruggono parte della sala. È un evento senza precedenti. La stampa si scatena, affibbiando all'artista soprannomi come "Monsieur Dynamite", "Le Champignon Atomique" e il più celebre, "Monsieur 100.000 Volts", che l’accompagnerà per tutta la vita. In quel periodo Bécaud è artefice in Francia di una rivoluzione musicale simile a quella che Domenico Modugno replicherà in Italia qualche anno: contrapporre al bel canto, all'interpretazione a fil di voce, l’espressività vocale libera da regole, il trasporto emotivo e la gestualità trascinante. È una lezione che lascia segni profondi e che innova fortemente l’intera scena musicale. All'inizio degli anni Sessanta arriva anche la consacrazione internazionale con Et maintenant, il brano più famoso della sua carriera scritto su un testo di Pierre Delanoë, che conoscerà oltre centocinquanta versioni diverse in quasi tutte le lingue del mondo. Infaticabile vagabondo supporta la propria popolarità con una serie incredibile di tournée in ogni angolo del mondo, Africa compresa, arrivando a totalizzare l'incredibile cifra di duecentocinquanta concerti in un anno. Nel 1974 viene insignito della Legion d'Onore, consegnatagli direttamente (contravvenendo la tradizione) sul palco dell'Olympia, cioè a casa sua, da un Louis Amade più emozionato di lui. Le sue canzoni sono entrate nel repertorio di un'infinità d'interpreti, compresi Bob Dylan e James Brown. Negli anni Settanta aggiunge ai poeti che lo circondano il nome del giovanissimo Pierre Grosz dal quale prende a prestito il testo della canzone Mais où sont-ils les jours heureux?. Gilbert Bécaud è un dominatore nato, un artista dotato di un carisma eccezionale, definito dalla critica e della stampa come «...un leone del palcoscenico... il più viscerale, sanguigno, passionale e caldo degli chansonnier che hanno segnato la scena francese del Secondo Dopoguerra...». In scena non si risparmia e soprattutto non si nasconde dietro ad alcuna maschera. Il suo stile così lontano dall’eleganza stucchevole dei cantanti di bella presenza non ammette mezze misure. Chi non lo ama lo vive con insofferenza. Sono molti ad amarlo, in Francia, nel mondo e anche in Italia dove a partire dalla fine degli anni Cinquanta comincia a essere una presenza costante e conosciuta. Con lo sviluppo della televisione diventa uno degli ospiti di riguardo dei varietà che, soprattutto il sabato sera, inchiodano il pubblico davanti al piccolo schermo in bianco e nero. L’alter ego della sua passionale esuberanza è un altro chansonnier. Si chiama Charles Aznavour. I due personaggi si presentano in modo completamente differente: irruente, espansivo e trascinante Bécaud, elegante, introverso e romantico Aznavour. Di fronte a due personalità così radicalmente opposte la stampa italiana si inventa una rivalità che non esiste. I due infatti sono legati da un’amicizia e una stima così profonde che all’inizio della carriera hanno addirittura unito la loro creatività. In Italia però la rivalità è funzionale alla costruzione dei personaggi per cui entrambi finiscono per adeguarsi alle esigenze degli uffici stampa. D’altronde siamo il paese dei dualismi come dimostrano le ricorrenti costruzioni di rivalità vere o inventate tra Coppi e Bartali, Lollobrigida e Loren o, per restare nella musica, Gianni Morandi e Claudio Villa. Il rapporto tra Gilbert Bécaud e il cinema è lungo e proficuo. Il grande schermo lo affascina e soprattutto ne stimola la vena creativa. Compone numerosissime colonne sonore e molti suoi brani di successo hanno fatto da sottofondo alle vicende di qualche storia cinematografica. È il caso, per esempio, di canzoni come Je t’ai dans la peau, Si si si la vie est belle, C’est merveilleux l’amour, Si je pouvais revivre un jour ma vie o La marche de Babette nate per il cinema e diventate parte della storia stessa della canzone francese. In qualche caso non disdegna di prestare il suo contributo anche come attore. La sua prima presenza sul grande schermo risale al 1947 quando il regista Paul Mesnier gli affida una particina nel ruolo di un pianista nel suo film “Kermesse rouge”. Il suo nome non figura neppure nei titoli di coda, ma Gilbert non se la prende. La stessa sorte tocca anche alla sua brevissima presenza scenica in “Boum sur Paris” diretto da Maurice de Canonge nel 1954 per il quale compone la canzone Je t’ai dans la peau, destinata a diventare un successo nell’interpretazione di Edith Piaf. Il primo ad affidargli un ruolo di rilievo è Marcel Carné che in “Le pays d’où je viens” del 1956, il film uscito in Italia con il titolo “Il fantastico Gilbert” lo chiama a interpretare sia il personaggio del timido e innamorato pianista Julien Barrière che quello del suo alter ego disinvolto e un po’ gaglioffo Eric Perceval. Il successo ottenuto dal film di Carné lo impone all’attenzione dei registi e soprattutto dei produttori intenzionati a sfruttare al meglio la sua popolarità come cantante. L’anno dopo veste i panni del tenero Jacques Merval in “Casino de Paris” di André Hunebelle, un film che viene ancora oggi considerato uno dei primi interessanti esempi di musical europeo capace di conquistare l’attenzione del pubblico statunitense. Nel 1959 interpreta il ruolo di Bernard Villiers nel film “Croquemitoufle” di Claude Barma e nel 1961 è un pilota in “Les petits matins”, un lungometraggio diretto da Jacqueline Audry e uscito nelle sale italiane con il titolo di “Una ragazza a rimorchio”. Nel 1963 interpreta se stesso in “Canzoni nel mondo”, un musicarello firmato da Vittorio Sala. Nel 1972 è Henry Lefevre in “Un uomo libero” di Robert Muller e due anni dopo torna a interpretare se stesso in “Tutta una vita” di Claude Lelouch. Gli anni Ottanta e Novanta lo vedono impegnato sul piano musicale a sperimentare nuovi confini e nuove mescole tra la canzone d’autore e la musica mediterranea. Pian piano, però, il suo impegno principale diventa quello di spegnere il fuoco di un cancro che gli morde le carni. Il 18 dicembre 2001 Gilbert Bécaud muore. Due mesi prima ha compiuto settantaquattro anni. Il suo corpo viene sepolto al Pére Lachaise di Parigi. La morte di Bécaud arriva in un periodo in cui il mondo è sull’orlo di una nuova devastante guerra dopo l’attentato dell’11 settembre alle Torri Gemelle di New York. Il 2001 resta così nella memoria come un anno difficile e complicato per tante ragioni. Per il mondo della musica è un anno bastardo, incattivito e inesorabile. Nel 2001, infatti, con Gilbert Bécaud se ne vanno l’ex Beatle George Harrison, Joey Ramone dei Ramones, Perry Como, Joe Henderson, Aaliyah, John Fahey, John Lee Hooker, "Papa" John Phillips e Bianca Halstead delle Betty Blowtorch, uno dei gruppi più significativi del rock cattivo al femminile.


17 dicembre 1925 - Walter Lee Bolden una batteria free-lance

Il 17 dicembre 1925 nasce ad Hartford, nel Connecticut, il batterista Walter Lee Bolden. Proprio nella sua città natale inizia a studiare percussione e composizione presso la Julius Hart's School of Music. Dopo varie esperienze con gruppi scolastici e inizia a picchiare su piatti e tamburi da professionista nel 1950 quando Stan Getz lo chiama a far parte del suo gruppo. Negli anni successivi suona con le band di Horace Silver, Howard McGhee, Mat Mathews e Teddy Charles. La vita e la disciplina di gruppo non lo attraggono tantissimo. Nel 1954 quando si stabilisce a New York sceglie di lavorare prevalentemente come free-lance, unendosi di tanto in tanto a piccole formazioni. Batterista molto efficace in accompagnamento, Bolden si richiama allo stile di Kenny Clarke e Max Roach. Ha inciso dischi con Gerry Mulligan, Stan Getz e Howard McGhee.

16 dicembre, 2019

16 dicembre 1907 - Bernard Flood, un irrequieto trombettista


Il 16 dicembre 1907 a Montgomery in Alabama nasce il trombettista Bernard Flood. Dopo aver studiato musica al Tuskegee Institute di Atlanta inizia a suonare professionalmente nel 1930 con la band di Bobby Neal. Nel corso di tutti gli anni Trenta la sua attività è particolarmente intensa. Nel 1931, infatti, entra a far parte dell’ensemble di Fess Williams che lascia nel 1933 per unirsi alla band di Teddy Hill. Dopo un’esperienza con Chick Webb e Luis Russell nel 1936 suona nel gruppo di Charlie Johnson e l’anno dopo si unisce alla band di Edgar Hayes. Nei primi mesi del 1939 Louis Armstrong gli chiede di entrare nell’organico della propria orchestra in sostituzione di Otis Johnson. Bernard accetta e ha così l’occasione di partecipare a diverse sedute di incisione per la Decca. Nel 1941 suona con Jimmy Reynold e dopo un ritorno di fiamma per l'orchestra di Armstrong durato dal 1942 al 1943, si unisce alla band di Louis Russell e successivamente entra a far parte della grande orchestra di Duke Ellington. La sua permanenza con il Duke non è lunghissima ma gli consente di partecipare alla storia serie delle registrazioni che si svolgono dal gennaio al marzo del 1946, compresa quella realizzata con l’unione delle orchestre di Duke Ellington e Woody Herman che produce, tra l’altro, la famosissima versione di The C Jam Blues incisa sui V-Disc. Irrequieto e instancabile sperimentatore chiusa l’esperienza con Ellington forma una propria orchestra che mantiene in attività per diversi anni con moltissimi cambiamenti d’organico. A partire dalla metà degli anni Cinquanta le evoluzioni del jazz non lo convincono per cui decide di smettere. Prima di ritirarsi dalle scene musicali però suona per qualche tempo insieme al tenorsassofonista Happy Cauldwell.


14 dicembre, 2019

14 dicembre 1963 – Dinah Washington, la regina del r & b


La sera del 14 dicembre 1963, nella sua casa di Detroit, la cantante Dinah Washington è tesa, stanca e terrorizzata dall'insonnia che la perseguita. Sta per iniziare una nuova tournée e, proprio per questo, si è sottoposta a una cura dimagrante che l'ha stroncata psicologicamente e fisicamente. Da un po' di tempo, però, ha trovato un modo efficace per combattere l'ansia: una buona dose di alcolici e un potente sonnifero. Un suo amico medico l'ha messa in guardia contro questa mistura, ma lei si è accorta che la fa dormire meglio. Anche questa volta segue il suo metodo, ma è l'ultima. La mistura micidiale l'uccide. Muore così, a trentanove anni, quella che è stata chiamata la Regina del rhythm & blues. Nata a Tuscaloosa, in Alabama, dove è registrata all'anagrafe con il nome di Ruth Jones, si trasferisce ancora bambina a Chicago con la famiglia. Le sue prime esperienze musicali hanno per sfondo gli interni della chiesa battista del South Side della sua città dove suona il pianoforte e canta nel coro gospel. Ben presto la sua attività si allarga al di fuori del quartiere e a soli sedici anni viene scritturata dalla grande cantante gospel Sallie Martin che la inserisce nel primo gruppo interamente femminile della storia del gospel. Nel 1943 Joe Glaser la ascoltata al Garrick's Bar di Chicago e la presenta a Lionel Hampton che la vuole nella sua orchestra. Da quel momento abbandona il suo vero nome e diventa Dinah Washington. Tre anni dopo lascia Hampton e inizia a muoversi da sola. Scritturata dalla Apollo pubblica i primi dischi di rhythm and blues. Il grande successo arriva, però, nel 1948, quando passa alla Mercury e pubblica una versione di West side baby che fa gridare al miracolo la critica. Negli anni Cinquanta diventa la Regina del rhythm & blues con un numero incalcolabile di presenze al vertice della classifica discografica di quel genere musicale. All'inizio degli anni Sessanta rinnova il repertorio e forma un duo di successo con Brook Benton. Alle soddisfazioni artistiche fa da contraltare una vita privata costellata da delusioni e problemi. Con sette matrimoni alla spalle e un difficile rapporto con i discografici, alla fine del 1962 è quasi tentata di lasciar perdere tutto. Ci ripensa nell'estate del 1963. Si prepara con cura al ritorno sulle scene, riprende a provare in sala e in palcoscenico, ma la tensione dell'attesa la soffoca. Tutto finisce la sera del 14 dicembre con l'aiuto dell'alcol e del sonnifero.



13 dicembre, 2019

13 dicembre 1920 - Jackie Davis, il pianista delle star


Il 13 dicembre 1920 nasce a Jacksonville, in Florida il tastierista Jackie Davis, uno dei più apprezzati organisti e pianisti jazz degli anni Cinuqnata e dei primi Sessanta. Talento precoce comincia a muovere le sue dita sui tasti bianchi e neri del pianoforte quando ha soltanto sette anni. Siccome i suoi genitori sono convinti che il talento non basti gli consentono di approfondire la preparazione alla Temple University. Dopo varie esperienze in vari gruppi jazz e dopo aver partecipato direttamente alla seconda guerra mondiale, nel 1946 viene congedato dal servizio militare e cominciò a formare gruppi in proprio. Buon leader è però un eccellente solista e un dotatissimo accompagnatore di cantanti. Proprio in questa veste viene chiamato a collaborare con celebrità come Ella Fitzgerald, Nat King Cole, Dinah Washington. Tra il 1957 e il 1958 suona col gruppo del sassofonista e cantante Louis Jordan. Il suo stile personale è facilmente riconoscibile, anche se risente all'organo dell'influenza di Wild Bill Davis e George Wright e, al pianoforte, di quella di Art Tatum.



12 dicembre, 2019

12 dicembre 1959 - Sheila E. la batterista di Prince


Il 12 dicembre 1959 a San Francisco, in California, nasce Sheila Escovedo. La ragazza respira la musica fin dal primo vagito, visto che è nipote del famoso percussionista Coke Escovedo, già con i Santana. Suo fratello poi è Peto Escovedo dei Con Funk Shun e anche il padre ha avuto il suo momento di gloria musicale negli anni Settanta dando vita alla band degli Azteca. Con una famiglia così il suo destino è segnato anche se invece di dedicarsi ai tipici strumenti “femminili” sorprende tutti scegliendo di pestare forte su tamburi, casse, piatti e percussioni. Dopo aver collaborato con numerosi musicisti come Lionel Ritchie, Billy Cobham, Marvin Gaye, Herbie Hancock e Jeffrey Osborne la batterista, percussionista e performer Sheila E., questo è il nome d’arte che si sceglie, diventa la pupilla di Prince che la inserisce nel suo clan. Nel 1984 pubblica il suo primo album Sheila E. in the glamorous life che entra nella classifica dei dischi più venduti, così come i singoli estratti Glamorous life e Belle of St. Mark. Il buon successo del debutto viene confermato l’anno dopo dall'album Sheila E. in romance 1600 e dal singolo Love bizarre. La lunga esperienza con Prince è destinata a concludersi negli anni Novanta quando deciderà di muoversi da sola.


11 dicembre, 2019

11 dicembre 1940 – Muore Eduardo ‘O Cacaglio


L’11 dicembre 1940 muore nella sua Napoli Eduardo Castaldo, cantante e intrattenitore soprannominato “Eduardo ‘o cacaglio” per la sua balbuzie che è molto accentuata quando parla ma che scompare magicamente quando canta. Nato a Napoli il 12 dicembre 1859 con la sua voce da tenore leggero si esibisce, a partire dal 1890 nelle trattorie della costiera napoletana, passando successivamente al ristorante Caso di Santa Lucia dove resta l’attrazione estiva fissa del locale fino al 1934. Nella stagione invernale, invece, se ne va “all’estero” in Sicilia per cantare in un elegante ritrovo di Taormina. Quando nel 1935, a settantasei anni, decide di ritirarsi, si esibisce per l’ultima volta in un affollato concerto d’addio a Napoli, la città dove muore cinque anni dopo.


10 dicembre, 2019

10 dicembre 1982 – “Only you” a cappella


Il 10 dicembre 1982 al vertice della classifica britannica dei singoli più venduti c’è una nuova versione di Only you, il brano che un anno prima aveva ottenuto un buon successo nell’interpretazione degli Yazoo, l’insolito duo formato da Alison Moyet con l'ex Depeche Mode Vince Clarke. La versione che occupa il primo posto delle classifiche britanniche nel 1983 è eseguita “a cappella”, cioè senza l’accompagnamento strumentale. Artefice di questa curiosa operazione sono i Flying Pickets, un insolito gruppo vocale britannico formato, all'inizio degli anni Ottanta, da Rick Lloyd, David Brett, Brian Hibbard, Red Stripe, Ken Gregson e Garth Williams. Il loro primo singolo di successo è proprio Only you. L’exploit non dura molto. Dopo il singolo When you're young and in love vedranno la loro popolarità ridursi alla stessa velocità con cui era cresciuta.



09 dicembre, 2019

9 dicembre 2002 – “Terra Maris” degli Indaco


Lunedì 9 dicembre 2002 a La Palma Club di Roma viene presentato rigorosamente dal vivo Terra Maris, il nuovo album degli Indaco, la band formata nel 1996 dall'incontro di Rodolfo Maltese, chitarrista del Banco del Mutuo Soccorso, con il polistrumentista Mario Pio Mancini e il percussionista Arnaldo Vacca. Una delle caratteristiche di questo gruppo è sempre stata quella di mettere in difficoltà gli amanti delle definizioni "strette" di stile, di coloro, cioè, cui piace incasellare in una sorta di schema qualunque esperienza musicale. Gli Indaco, da questo punto di vista, sono difficilmente definibili, visto che si muovono in un'area vasta di contaminazioni tra stili di confine, mescolando la world music, la new age, l'ambient, l’etno-rock e l’etno-jazz. Per Terra Maris, che è il quarto album della loro storia, approfittano della presenza di ospiti prestigiosi come Eugenio Bennato, Mauro Pagani, Daniele Sepe, Paolo Fresu, Andrea Parodi e altri, per spostare in avanti la loro ricerca. Il risultato sono undici brani di notevole intensità con un filo conduttore interno e parecchie variazioni stilistiche. La novità più rilevante è data dalla maggior presenza, rispetto al passato, di brani cantati, frutto dell'allargamento della formazione storica composta da Rodolfo Maltese, Mario Pio Mancini, Arnaldo Vacca, Pierluigi Calderoni, Luca Barberini e Carlo Mezzanotte alla voce particolare di Gabriella Aiello. Il risultato è un'opera decisamente più matura delle tre precedenti che non rinuncia a confrontarsi con le esperienze più interessanti del panorama musicale mediterraneo. Quattro brani lasciano il segno. Il primo è Amargura giocato sulle voci della Aiello e di Andrea Parodi, l'ex vocalist dei Tazenda oggi scomparso. Il secondo è la ballata Terza Qualità composta e interpretata da Eugenio Bennato, nelle cui atmosfere si coglie l'eco dell'esperienza dei Musicanova e il terzo è il sofisticato Aran debitore di parte della propria suggestione alla tromba di Paolo Fresu. Ultimo, ma solo in ordine d'esposizione, è un Norvegian wood lontanissima per ispirazione e per clima dall'originale dei Beatles. Come in un gioco di specchi gli Indaco nascondono Lennon e McCartney dietro alle evoluzioni di un etno-jazz originale e, talvolta, eccentrico. Chi cercasse i Beatles li può ritrovare soltanto verso il finale quando, come uscendo da un cilindro magico, l'esecuzione ritorna sui binari originali.




23 novembre, 2019

23 novembre 1985 – Joe Turner, grande non soltanto per la mole


Il 23 novembre 1985 un infarto chiude per sempre la carriera di Big Joe Turner una delle grandi voci del blues, considerato un “padre nobile” del rock and roll e del rhythm and blues. Ha settantaquattro anni e da almeno quaranta si muove a fatica a causa di un’acuta e dolorosa forma d’artrite, oltre che per la mole che gli è valsa il nomignolo di “Big Joe”. Canta quasi sempre da seduto appoggiandosi al suo bastone. Con la sua voce piena e dai toni baritonali è stato un esponente di primo piano del “blues di Kansas City”, quel genere in cui la vena triste e malinconica del blues rurale è stata soppiantata da un’atmosfera maliziosa e divertita che ha posto le basi per l’avvento del rhythm and blues. Negli anni Cinquanta, poi, è maestro e anticipatore del rock and roll. A lui si devono le prime versioni di brani entrati di prepotenza nella storia della musica di quel periodo come Corrine, Corrine, Flip flop and fly e Shake rattle and roll. Nato a Kansas City, nel Missouri, il 18 maggio 1911 come molti ragazzi neri arriva alla musica quasi per caso. Comincia, infatti, a cantare il blues con vari gruppi della sua città nei momenti liberi che gli lascia il lavoro. Verso la fine degli anni Venti coltiva qualche ambizione in più e inizia a collaborare con il pianista boogie Pete Johnson. La sua carriera prende decisamente il volo soltanto a partire dal 1938, quando si occupa di lui un grande talent scout come John Hammond che lo porta a New York e gli procura varie scritture. Ha molti amici tra i jazzisti con i quali coltiva saltuari rapporti di collaborazione che a volte sfociano in splendidi album come The bosses: Joe Turner – Count Basie, con l'orchestra di Count Basie, o The trumpet kings meet Joe Turner, con Dizzy Gillespie, Roy Eldridge, Harry Sweet Edison e Clark Terry. Alla fine degli anni Settanta, con l’avanzare dell’età e la sempre più ridotta capacità di movimento, riduce i suoi impegni, senza però rinunciare a coltivare nuovi progetti. Nell’estate del 1985 si torna a parlare di un suo possibile ritorno in sala di registrazione per una sorta di antologica carrellata sulla sua carriera insieme a molte star del rock. La morte improvvisa cancella il progetto.



06 ottobre, 2019

6 ottobre 1967 - Il funerale degli hippies


Il 6 ottobre 1967 tutte le comuni hippie situate nel circondario di San Francisco si radunano in città. Una moltitudine di ragazzi e ragazze vestiti a lutto si avvia in un lungo e silenzioso corteo che percorre le vie principali. Ai bordi delle strade percorse dalla singolare processione altri ragazzi distribuiscono volantini che spiegano ai passanti come tutte le comuni abbiano deciso di celebrare “la morte degli hippie”. Il movimento hippie fa il funerale a se stesso per protestare contro lo sfruttamento commerciale della sua immagine, delle sue idee e della sua stessa esistenza. «Questo mondo non ci piace. Siamo nati per cambiarlo e il consumismo ha scoperto che anche la nostra voglia di cambiamento può diventare merce. Per questo il movimento è morto e oggi lo accompagnamo nel suo ultimo viaggio». Basta guardarsi intorno per capire quali siano i fenomeni cui fanno riferimento i ragazzi delle comuni. Le vetrine di San Francisco, i bar, i ritrovi, tutto è stato colorato da fiori. La scritta "Peace and love" campeggia su un numero impressionante di oggetti e capi di vestiario in vendita. A partire dall'aprile di quell'anno la Greyhound, la più famosa compagnia statunitense di pullman, ha addirittura inaugurato un singolare giro turistico tra le varie comuni hippie di S. Francisco. «Adesso basta, non si possono vendere le idee». Un movimento culturale ed esistenziale nato dalla ribellione al consumismo sta diventando esso stesso oggetto di consumo. Al di là del gesto simbolico, il funerale segnerà davvero la fine di una fase nella storia degli hippies. Di lì a poco il movimento si spezzerà in due tronconi. Uno, sull'onda del "flower power", finirà per rifugiarsi sempre più in una sorta di individualismo di massa finalizzato alla felicità interiore e lontano dalle questioni sociali. L'altra scoprirà la politica e affiancherà l'impegno alle esperienze di vita comunitaria finendo poi per confluire nelle grandi battaglie pacifiste e per i diritti civili che di lì a poco infiammeranno gli States.



05 ottobre, 2019

5 ottobre 1973 – La sorprendente vitalità di Alvin Stardust

Il 5 ottobre 1973 viene pubblicato in Gran Bretagna il singolo My coo ca choo, un brano scatenato e divertente in linea con il glam rock che in quel periodo fa impazzire i giovanissimi consumatori di musica di quel paese. I teen-ager britannici lo accolgono entusiasticamente e in breve tempo lo portano ai vertici della classifica dei dischi più venduti. C’è, però, un giallo legato all’identità dell’interprete. La copertina del disco attribuisce l’esecuzione a un certo Alvin Stardust, un nome che nessuno ha mai sentito e di cui nessuno sa nulla. Per un po’ i giornali si divertono a ipotizzarne l’identità immaginando che si tratti dell’avventura solistica del cantante di uno dei tanti gruppi glam del periodo, finché la verità viene a galla. In realtà dietro allo pseudonimo si cela il ritorno sulle scene di un adolescente di… trentun anni. È Bernard Jewry, che, con il nome di Shane Fenton era stato, insieme al suo gruppo, i Fentones, uno dei principali esponenti del rock and roll britannico prima del ciclone Beatles. La rivelazione preoccupa non poco i dirigenti della sua casa discografica, perché temono che l’età di Alvin Stardust possa comprometterne l’immagine e la popolarità presso il pubblico dei più giovani. I timori non sono infondati. La moda del glam, fatta di brani dalla grande cantabilità e dai testi disimpegnati, è soprattutto una scelta generazionale che contrappone i gusti degli adolescenti al rock più impegnato e concettuale dei loro fratelli maggiori. Il meno preoccupato è lui. «Perché dovrei? A parte l’età, cosa mi divide da gruppi come gli Slade o gli Sweet? Il glam segna il ritorno del rock al divertimento puro, senza ideologie e senza tante complicazioni. Io sono così». Non ha torto. Per un paio d’anni quell’adolescente un po’ stagionato dominerà le classifiche di vendita, ma poi i suoi giovani fans cresceranno e con la crisi del glam dovrà rassegnarsi a tornare nell'ombra. La sua storia, però, non finirà lì. Nel 1981 l’etichetta alternativa Stiff, incuriosita dalla storia di questo strano dinosauro del rock britannico, lo richiamerà in servizio. Per la terza volta in vent'anni Bernard Jewry, ancora con il nome di Alvin Stardust, tornerà al successo con una serie di brani come Pretend, I feel like Buddy Holly e I wan't run away ispirati al rock and roll delle origini. Muore il 23 ottobre 2014.

12 agosto, 2019

12 agosto 1982 - Il cantante che parlava sulle note alte


Il sorriso ironico e la carica vitale di Joe Tex, uno dei personaggi più emblematici della black music degli anni Sessanta e Settanta, si spengono il 12 agosto 1982. Colpito da un attacco cardiaco il quarantanovenne soulman muore a Navasota, in Texas, pochi giorni dopo la conclusione della "Soul Clan Revue", un lungo tour che l’ha visto esibirsi in compagnia di Wilson Pickett, Solomon Burke, Don Convay e altri veterani del soul. Cresciuto in un sobborgo di Houston, Joe Tex, all’anagrafe Joseph Arrington jr, per sopravvivere si adatta a fare di tutto: lustrascarpe, venditore di giornali, ballerino e cantante. Non dà molto credito alla possibilità che quella di cantante possa essere la sua professione futura. Si fa conoscere come autore e scrive successi per Jerry Butler ed Etta James, ma la svolta nella sua carriera inizia nel 1964 quando un impresario di country, Buddy Killen, gli propone di registrare una versione di Baby you're right di James Brown. Dotato di una voce rauca e inadatta alle note alte Joe è costretto a eliminare le parti difficili delle canzoni introducendo brani di parlato sulla musica. Il risultato non gli piace. Se ne va, ma prima si fa promettere che l’incisione non verrà mai utilizzata. Bugiardo matricolato, Killen, convinto delle qualità del ragazzo, gli dice di sì ma poi autorizza la pubblicazione del brano in un singolo che in pochi giorni scala la classifica dei dischi più venduti. È il successo. Con i primi quarantamila dollari Joe regala una casa alla sua vecchia nonna. Sono gli anni del grande successo del soul e lui ne diviene uno degli interpreti più originali con brani come Hold what you've got, A sweet woman like you, You're right Ray Charles e, soprattutto I gotcha. All'apice del successo, però, abbandona la scena musicale per diventare predicatore della Chiesa dei Musulmani Neri, con il nome di Joseph Hazziez. Tornerà sulle scene nel 1975 dopo la morte di Elijah Muhammad, il capo dei Musulmani Neri. I tempi, però, sono ormai cambiati. Ottiene un buon successo con Ain’t gonna bump no more, ma non riuscirà più a ripetersi sui livelli precedenti.


05 agosto, 2019

5 agosto 1975 - Stevie Wonder, il ragazzo del ghetto diventa miliardario


C’è chi pensa sia una vergogna, chi invece sostiene che è la rivincita di un ragazzo nero non vedente contro il suo destino. In ogni caso la notizia è di quelle che sembrano nate apposta per far discutere. Il 5 agosto 1975 Stevie Wonder rinnova il contratto discografico con la Motown per sette anni. Per quel che riguarda l’entità finanziaria del contratto, non vengono emessi comunicati ufficiali, ma voci bene informate parlano di una cifra che si aggira intorno ai tredici milioni di dollari. È una somma da capogiro, un record per quegli anni, il più ricco contratto mai stipulato fino ad allora tra un artista e una casa discografica. Non resterà né l’unico, né il più alto, ma tredici milioni di dollari sono decisamente troppi, anche per un personaggio come Wonder cui sembrava che la vita non dovesse regalare nulla. Nato prematuro a Saginaw, nel Michigan, Steveland Morris, questo è il suo vero nome, perde l’uso della vista per il malfunzionamento della sua incubatrice. È l’ultimo di tre fratelli e la madre, Lula Hardway, giura a se stessa di non fargli pesare la sua condizione. Mantiene il giuramento anche quando il padre se ne va. Stringe i denti e con i tre figli si trasferisce a Breckenridge, uno dei quartieri più poveri di Detroit. Il piccolo Stevie passa il tempo con il gioco che più gli piace: la musica. Il suo primo strumento musicale è una batteria giocattolo con la quale batte il tempo delle canzoni della radio. I regali dei vicini arricchiscono la sua strumentazione. Il piccolo canterino anima con la sua voce il quartiere finché, un giorno, un altro ragazzo del ghetto, Gerald White parla di lui a suo fratello Ronnie, che canta nei Miracles di Smokey Robinson. “Fammi sentire quello che sai fare con la voce, ragazzo!” Quello che ascolta lo lascia di stucco. Lo porta negli studi della Motown per farlo ascoltare da Brian Holland. A dodici anni Stevie Wonder ottiene così il suo primo contratto discografico. D’ora in poi la sua famiglia non avrà più problemi economici.



23 luglio, 2019

23 luglio 1974 – Gene Ammons, un'esistenza complicata


Il 23 luglio 1974 il sassofonista Gene Ammons muore a Chicago, nell’Illinois, la città dove è nato il 14 aprile 1925. Figlio del celebre pianista di boogie-woogie Albert Ammons, ha vissuto una esistenza complicata dall'uso e soprattutto dall'abuso di stupefacenti che talvolta lo hanno costretto anche al silenzio. Cresciuto al fianco del padre in una Chicago che sta vivendo uno dei periodi musicalmente più interessanti della sua storia, Gene diventa uno dei protagonisti del rinnovamento della musica jazz. A diciassette anni è nell'orchestra di King Kolax e dal 1944 al 1947 fa parte integrante della Star Orchestra di Billy Eckstine, una delle formazioni più celebri d'America di quegli anni. Proprio in quel periodo il sassofono di Ammons inizia a innestarsi nel processo di rottura degli schemi tradizionali assimilando anche la lezione di Lester Young. Il suo stato di perenne tensione e d’irrequietezza, per molti versi non dissimile da quello che porta alla morte Parker, fa sì che nel 1948 Ammons lasci Eckstine e cominci a lavorare con piccoli gruppi indipendenti, più adatti al suo carattere volubile e all'insicurezza che la sua situazione psichica gli provoca. Nel 1949 sostituisce Stan Getz nel gruppo di Woody Herman, ma non resiste a lungo alla rigida disciplina dei quella band. L’anno dopo è con Sonny Stitt in una sorta tenor battle a due sassofoni. Le esibizioni dei due al Birdland di New York, una parte delle quali è stata registrata e pubblicata su disco, sono rimaste nell’immaginario dei cultori di jazz come emblematiche della componente più “folle” della stagione del bop. Per un tipo inquieto come Ammons, però, il linguaggio del be bop non è un punto d’arrivo, ma il passaggio verso nuove forme espressive che lo portano prima a sperimentare il cool jazz e poi nel territorio meno accidentato e più meticciato del rhythm & blues.



21 luglio, 2019

21 luglio 1981 – Snub Mosley, lo showman del trombone


Il 21 luglio 1981 muore a New York il trombonista Snub Mosley, all’anagrafe Lawrence Leo Mosely. Nato a Little Rock, nell'Arkansas, ha settantun anni. È adolescente e sta ancora studiando per migliorare la sua tecnica quando Alphonso Trent lo vuole nella sua orchestra. Il suo debutto professionale avviene proprio nella formazione di Trent a Dallas e prosegue con un'intera stagione all'Adolphus Hotel. Con la stessa band se ne va a Richmond dove, alla fine del 1928, registra i primi dischi. La sua presenza scenica e la capacità di divertire il pubblico ne fanno lievitare le azioni e, nel 1934, entra a far parte della formazione di Claude Hopkins. Non ci resta per molto perché non tardano a bussare alla sua porta personaggi leggendari del jazz di quel periodo come Fats Waller e Louis Armstrong. Snub non dice mai di no, ma non accetta contratti a lungo termine. Il suo sogno è quello di mettersi in proprio. Ci riesce nel 1936 quando dà finalmente vita a un'orchestra che porta il suo nome e che riesce a tenere unita per molti anni. Alla testa dei suoi strumentisti diventa l'attrazione di locali come il Woodmere Country Club e il Queen's Terrace di Long Island. Tra lui è il gruppo c'è amore vero, come emerge anche dalla cura con la quale prepara le numerose sedute di registrazione per la Decca nelle quali suona sia il suo trombone, stilisticamente influenzato da Tommy Dorsey, che come vocalist e anche come solista di slide-sax, un sassofono inventato da lui al quale è dedicato il brano The man with the funny little horn. Nel corso degli anni Quaranta e Cinquanta la sua popolarità si allarga anche al di fuori dei confini degli Stati Uniti, in Oriente e in Europa dove colpisce l'immaginazione del pubblico più per le doti di showman che per le sue qualità artistiche. Con la crisi delle big band si dedica alle orchestre-spettacolo, capaci di esaltarne le doti di simpatia e d'intrattenimento sulle note del suo brano più famoso: Snub's blues.



15 luglio, 2019

15 luglio 1978 – L’album più bello di Chuck Mangione

Il 15 luglio 1978 il trombettista Chuck Mangione si esibisce all'Hollywood Bowl in un concerto destinato a entrare nella storia del jazz rock. La performance, infatti, verrà pubblicata l’anno dopo nel doppio album An evening of magic - Live at the Hollywood Bowl che segnerà il punto più alto del successo di uno dei protagonisti dell'ultimo periodo dell'epoca d'oro del jazz rock. Anche se i grandi successi di vendite e i concerti affollati non lo lasciano prevedere, Mangione alimenta le ultime fiammate di un genere che alla fine degli anni Settanta sta già evolvendosi verso la “new age music” dopo aver toccato vertici altissimi grazie all’impegno di musicisti come, tra gli altri, Miles Davis, Herbie Hancock, Wayne Shorter, Chick Corea, Tony Williams, John McLaughlin, Donald Byrd. Chuck Mangione, all’anagrafe Charles Frank Mangione, nasce a Rochester, New York, il 29 novembre 1940. Suo padre è amico di musicisti come Art Blackey, Horace Silver e, soprattutto, di Dizzy Gillespie che regala al piccolo Chuck la sua prima tromba quando ha soltanto otto anni. Il ragazzo si innamora della musica. Diplomatosi alla Eastman School of Music, nel 1960 forma con suo fratello Gap i Jazz Brothers della cui formazione fanno parte musicisti come Ron Carter, Sal Nistico, Roy McCurdy e Jimmy Garrison. Cinque anni dopo, trasferitosi a New York, si unisce ai Jazz Messenger del vecchio amico di famiglia Art Blackey e suona con musicisti come Maynard Ferguson, Keith Jarrett, Chick Corea. Lasciati i Jazz Messenger forma, nel 1968, il Chuck Mangione Quartet e nel 1970 durante uno show televisivo dirige la Rochester Filarmonic Orchestra nell'esecuzione di Friends and love, una sua composizione che ottiene un grande successo di pubblico e che, pubblicata in un doppio album, diventa il suo primo successo discografico. La buona accoglienza riservata a questo disco spinge i discografici a proporgli di registrare un nuovo album con la Rochester Filarmonic Orchestra. Nasce così Together, un disco meno originale del predente ma benedetto da un analogo, se non superiore, successo commerciale. Da quel momento i successi discografici non si contano. L’onda lunga del jazz rock sostiene la sua esperienza, accompagnata da una genialità istintiva. Nel 1980 si mobiliterà per i terremotati dell’Irpinia con un concerto insieme al fratello Gap, Chick Corea e Dizzy Gillespie che verrà pubblicato l’anno dopo nell’album Tarantella.