21 agosto, 2020

21 agosto 1964 - L’ultimo western italiano prima della rivoluzione di Leone


Il 21 agosto 1964 a Milano viene proiettato per la prima volta “Le pistole non discutono”. Il film, diretto da un abile artigiano delle pellicole d’avventura come Mario Caiano, è il secondo western dopo “Duello nel Texas” prodotto dalla Jolly Film di Arrigo Colombo e Giorgio Papi che hanno come partner la spagnola Trio Film e la tedesca Constantin. L’impegno economico è notevole. Il costo preventivato è di duecentoquaranta milioni di lire, trenta dei quali rappresentano il cachet concordato con il “vecchio” cow boy statunitense “prestato” da Hollywood Rod Cameron. Sono tanti soldi, ma la società di produzione romana pensa di poter ottimizzare l'investimento utilizzando le scene e i macchinari per girare un altro lungometraggio. Si tratta di un western a basso costo diretto da Sergio Leone il cui obiettivo principale è quello di arrotondare gli incassi della Jolly Film. In realtà il destino ha in serbo una sorpresa. Il film di Leone, uscito nelle sale circa un mese dopo il film di Caiano con il titolo “Per un pugno di dollari”, segna l’inizio del “western all’italiana”, un genere destinato a lasciare un segno importante nella storia del cinema. “Le pistole non discutono”, invece, resta nella memoria collettiva come “l’ultimo western prima di Leone”, cioè l’ultimo esempio di una produzione italiana di film western “d’imitazione americana”. Nonostante la fama che lo circonda “Le pistole non discutono”, è un film decisamente meno “americano” di quanto si possa ritenere. Non è poi così strano visto che nel cinema, come in ogni ambito culturale, nulla nasce all’improvviso e la genialità del singolo in genere accelera e sintetizza processi che sono già in atto. Il western all’italiana non fa eccezione. Se Sergio Leone può essere considerato il primo a definire in modo compiuto i “codici di genere”, altri in quegli stessi mesi concorrono a fissarne contorni e ambiti, come Sergio Bergonzelli con “Jim, il primo” o Sergio Corbucci con il suo “Minnesota Clay”. In questo quadro il film diretto da Mario Caiano nonostante il suo impianto decisamente tradizionale come il protagonista anziano alla John Wayne o l’arrivo della cavalleria nel finale dovrebbe essere rivalutato. Anch’esso, infatti, contiene innovazioni che in qualche modo anticipano alcune caratteristiche del western all’italiana. È il caso, per esempio, della figura di Billy, il bandito paranoico che legge la Bibbia, più vicino ai cattivi senza sfumature degli “attori di parola” del cinema mitologico italiano cui si sono ispirati Leone e i suoi epigoni che ai complicati cattivi hollywoodiani. Decisamente più in linea con il western all’italiana che con la tradizione “americana” appare poi l’ostentazione delle ferite, con il sangue rosso vivido, nelle sequenze della morte di Billy colpito dal coltello di Santero o della cauterizzazione della ferita di George. In linea con questa impostazione appare anche la violenza esibita nel massacro finale dei banditi messicani.

18 agosto, 2020

18 agosto 1977 - Addio per sempre, Elvis

Gli esperti della polizia calcolano in più di settantacinquemila il numero dei fans che il 18 agosto 1977, giorno dei funerali di Elvis Presley, circondano Graceland, la favolosa villa di Memphis nella quale il re del rock and roll ha vissuto fino agli ultimi giorni della sua vita in una situazione di alienante, pur se dorata, solitudine. Quella che è accorsa a dargli l’ultimo saluto è una folla disperata e piangente, non aliena da gesti di isteria, che mette in difficoltà anche il nutritissimo servizio d’ordine. A parte i soliti contusi e gli innumerevoli svenimenti, il bollettino della giornata contempla anche due morti, due ragazze travolte da un’automobile sbucata da chissà dove e piombata improvvisamente sulla folla. Tutta questa gente preme sui cordoni di sicurezza. Non capisce perché non può partecipare ai funerali. È costretta a viverli a distanza di sicurezza, ai margini della cerimonia ufficiale, cui sono stati ammesse solo centocinquanta sceltissime persone. La salma di Elvis Presley viene inumata nel cimitero di Forest Hill a Memphis. Il quarantaduenne re del rock and roll è morto due giorni prima, all’alba del 16 agosto, stroncato da un collasso cardiaco dopo essere stato trovato dalla sua compagna Ginger Alden privo di sensi e con il viso affondato nella moquette del corridoio che porta in bagno. Immediatamente trasportato al Baptist Memorial Hospital di Memphis è spirato intorno all’una e mezza del pomeriggio. Con lui se ne va uno dei simboli della grande rivoluzione musicale degli anni Cinquanta, nata con l’esplosione del rock and roll. Il Presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter, esprimendo il suo cordoglio per la scomparsa, dichiara «La morte di Elvis Presley priva il nostro paese di una parte importante della sua cultura. Egli è stato unico ed irripetibile... La sua musica e la sua personalità hanno saputo fondere il country dei bianchi con il blues dei neri cambiando per sempre la cultura del popolo americano».

15 agosto, 2020

15 agosto 1927 - Katyna Ranieri, la voce italiana della notte degli Oscar

Il 15 agosto 1927 nasce a Follonica, in provincia di Grosseto, Caterina Ranieri destinata a diventare, con il nome d’arte di Katina Ranieri, una delle cantanti italiane più popolari al di fuori dei nostri confini. Muove i primi passi nel mondo della musica nei primi anni del dopoguerra esibendosi con varie orchestre delle Forze Armate Americane e nel teatro di rivista. Nel 1953 partecipa al Festival di Sanremo con cinque canzoni: Acque amare, No Pierrot, Domandatelo, La pianola stonata e Il passerotto. L’anno dopo torna alla rassegna sanremese con Rose, Sotto l’ombrello in duo con Giorgio Consolini e Canzone da due soldi che si piazza al secondo posto. Sempre nel 1954 partecipa al Festival di Napoli presentando cinque brani: Serenata embè, Speranza, Canta cu me, Pulecenella e Mannaggia ‘o soricillo. Anche il cinema si accorge di lei e la scrittura per un paio di film musicali. L’unione con il maestro Ritz Ortolani nell’Italia bigotta dell’epoca le procura l’accusa di bigamia e una serie di guai professionali e giudiziari. Si trasferisce pertanto negli Stati Uniti dove, nel 1964, diventa la prima e, per ora, unica cantante italiana a esibirsi nella notte degli Oscar. Nel 1974 registra dal vivo l'album Lui lui lui, che contiene brani di colonne sonore composte da suo marito Ritz Ortolani e nel 1980 partecipa al festival dei Due Mondi di Spoleto con un recital dedicato alle canzoni di Kurt Weill. Tra le sue interpretazioni di maggior successo ci sono, oltre a quelle citate, canzoni come More, L'amore è una cosa meravigliosa, ’A frangesa, Scapricciatiello, Lily Kangy, Je m’en fous, Hello happiness e Mi vida. Muore a Roma il 2 settembre 2018.

13 agosto, 2020

13 agosto 1914 - Ivon Debie, il pianista di Django Reinhardt

Il 13 agosto 1914 a St. Jans-Molenbeek, nei pressi di Bruxelles, nasce Ivon Debie, l'unico pianista del mondo a suonare in assolo con Django Reinhardt. Dopo aver studiato privatamente il pianoforte per cinque anni, all'età di diciassette dà vita alla sua prima orchestra con un gruppo di appassionati. L’esperienza lo stimola a continuare su quella strada anche se non gli dà ancora la possibilità di guadagnare a sufficienza. Dal 1937 al 1940 di giorno lavora come contabile mentre di notte dirige una band che pian piano si conquista una discreta popolarità tanto da diventare l’orchestra di Fud Candrix tornato a casa dopo aver partecipato all’inutile tentativo di resistere allo strapotere delle truppe tedesche nei primi mesi di quella che sarebbe poi passata alla storia come la Seconda Guerra Mondiale. Nel 1941 Debie inizia anche a frequentare il conservatorio di Bruxelles mentre gli occupanti tedeschi offrono ai componenti dell'orchestra Candrix due alternative: o lavorare nelle fabbriche in Germania o suonare con l'orchestra a Berlino. Trascorsi a Berlino alcuni mesi, l'orchestra Candrix torna a Bruxelles dove incide quattro dischi con Django Reinhardt. Il 16 aprile 1942 Debie accompagna Django Reinhardt in quattro “a solo” di violino e chitarra (Vous et Moi, Distraction, Studio 24, Blues en mineur) e poi forma una sua orchestra, suonando saltuariamente anche con Stan Brenders. Dopo la guerra forma vari gruppi, da un piccolo combo con Toots Thielemans nel 1946, a una grande orchestra di diciotto elementi che suona per l'esercito americano. Nel 1958 diventa direttore artistico della RCA del Belgio, dove lavorerà fino all’agosto 1979 quando si ritira definitivamente dalle scene musicali.

10 agosto, 2020

10 agosto 1957 – Pasquale Jovino, il cantante e chitarrista che ha entusiasmato il mondo muore in miseria

Il 10 agosto 1957 al Morvillo, l’ospedale dei poveri di Napoli muore a quasi novantadue anni, in miseria e dimenticato, da tutti il cantante e chitarrista Pasquale Jovino. Popolarissimo in Europa all'inizio del secolo nell'ambiente musicale napoletano è conosciuto anche con il soprannome di Pasquale ‘O Piattaro. Prima di dedicarsi a tempo pieno alla musica, infatti, lavora come garzone in una bottega dove si decorano piatti. Un giorno, sorpreso dalle sue qualità vocali, il maestro Vergine decide di dargli i primi rudimenti di musica e tecnica vocale. Nei pomeriggi in casa del celebre maestro gli è compagno di studi un altro giovane di belle speranze che risponde al nome di Enrico Caruso. Pasquale non termina il corso. Scritturato da un gruppo folcloristico se ne va in Germania. Finita la tournée non torna a Napoli, ma resta a Berlino dove per quattro anni sbarca il lunario cantando canzoni napoletane in vari locali. Sono i primi anni del Novecento e il suo spirito curioso e vagabondo si lascia trasportare dalle varie compagnie teatrali. La sua voce risuona in Russia, in Ungheria e nelle due Americhe. Tornato in Europa ricomincia da capo accettando scritture nelle bettole di Marsiglia. Ancora una volta, però, la fortuna lo assiste. Notato da un impresario viene scritturato per una rivista che resta per sei mesi in cartellone alle Folies Bergère di Parigi. Nel 1910, a quarantacinque anni, decide di tornare a casa. Da quel momento la sua voce diventa il sottofondo musicale dei migliori caffè concerto e ristoranti di Napoli e Posillipo. Leggendaria resta la sua interpretazione di un classico come 'O guarracino, eseguito ogni volta con l'aggiunta di un finale diverso ispirato dal momento, dall'ambiente o dagli interlocutori. Si ritira dalle scene nel 1945, ormai settantacinquenne. Stanco, malato e senza una lira il cantante che ha fatto impazzire il pubblico di due continenti vive i suoi ultimi dodici anni tra gli stenti e la miseria più nera.

03 agosto, 2020

3 agosto 1963 – L’ultima volta dei Beatles al Cavern

Il 3 agosto 1963, in una confusione indescrivibile di corpi sudati e con l'accompagnamento continuo delle urla assordanti dei ragazzi che accompagnano ogni loro brano, i Beatles si esibiscono nel locale che li ha visti nascere, crescere e diventare grandi: il Cavern Club di Liverpool. «Con questa fanno duecentosettantaquattro!» urla Paul McCartney aprendo le danze. I quattro ragazzi sono ormai popolarissimi in tutto il Regno Unito e la loro fama si sta allargando a macchia d’olio anche fuori dai confini britannici. A corroborare il loro buon umore c’è anche la notizia, arrivata poche ore prima dell’esibizione al Cavern del primo, timido, ingresso della loro From me to you nella classifica statunitense. Una folla indescrivibile li aspetta dalle prime ore del pomeriggio. Si può dire che tutta la popolazione di Liverpool al di sotto dei vent’anni occupi da ore le vie che portano al locale. L’affollamento crea non pochi problemi ai responsabili dell’ordine pubblico che temono incidenti e malori, anche perché il Cavern può contenere al massimo delle sua capienza reale, poco più di un centinaio di persone. In realtà la manifestazione di massa è molto diversa da quelle che stanno caratterizzando le esibizioni dei Beatles in tutto il territorio britannico. Più che uno dei tanti episodi di “Beatlemania”, in questo caso si può parlare di un entusiastico omaggio da parte dei giovani di Liverpool a quattro ragazzi come loro che ce l’hanno fatta a diventare famosi. Lo si vede fin dall’arrivo di George, Ringo, John e Paul. La folla li riconosce, li chiama per nome, scambia impressioni, ma non li soffoca. La stretta del pubblico è amichevole, rispettosa e affettuosa al tempo stesso, piena di ricordi e, per molti, di episodi di vita vissuta. Quando i Beatles iniziano a suonare tutti sanno di assistere a un evento che non si ripeterà più: troppo piccolo il Cavern per i quattro, troppo pericoloso sfidare oltre la sorte. Quello che si compie sotto gli occhi dei pochi fortunati che sono riusciti a entrare nel locale è una sorta di rito. I Beatles tornano per l’ultima volta nel locale da cui è partita la loro storia e i giovani della loro città li salutano per l'ultima volta perché sanno che le vicende dei quattro sono destinate a portarli lontano per sempre. È una cerimonia di ringraziamento e, insieme, di commiato, quella che si svolge al Cavern Club il 3 agosto 1963. Se ne rendono conto tutti, primi fra tutti i Beatles che, al termine della loro esibizione non sprecano tante parole. Si inchinano e salutano: «Ciao ragazzi. Ci vediamo!»

01 agosto, 2020

1° agosto 1987 - Il ritorno al vertice di Bob Seger

Il 1 agosto 1987 Shakedown, tema conduttore del film "Beverly Hills Cop II" riporta al vertice della classifica il quarantaduenne Bob Seger, uno dei più grandi talenti del rock statunitense. L'exploit è del tutto casuale. Il brano, infatti, è stato scritto per Glenn Frey che, però, colpito da una laringite, si è fatto sostituire dal vecchio leone, reduce dal buon successo dell'album Like a rock. Il primo posto in classifica, al di là del valore reale del brano, premia un artista spesso messo ai margini del music business per le sue idee politiche radicali e per l'eccessiva passione per l'alcool e sostanze varie. Fin da giovanissimo inizia a frequentare l'ambiente del rock and roll con garage-bands come i Town ed i Decibel, diventando poi il tastierista degli Omens di Doug Brown. Il suo primo exploit risale alla metà degli anni Sessanta quando con lo pseudonimo di Beach Bumps regala agli hippie una dissacrante versione del brano militarista Ballad of the green berets. Forma quindi i Last Heard con gli ex componenti degli Omens, impegnandosi a fondo nel movimento pacifista. In questo, che è il periodo più fertile e interessante della sua carriera, pubblica brani come la famosa 2+2, una canzone contro la guerra del Vietnam, e Ramblin' gamblin' man, entrambe inserite nel suo primo album. Considerato uno scomodo e poco manovrabile rompiscatole fatica a trovare spazio sulla scena musicale. Più volte decide di abbandonare la musica, ma fortunatamente si fa sempre convincere a tornare sui suoi passi. Negli anni Settanta vive il periodo smagliante con la Silver Bullet Band, testimoniato da splendidi album come Live Bullet, Night moves e Stranger in town. Nel 1980 pubblica Against the wind, probabilmente il suo miglior album in assoluto. Tra alti e bassi resiste al passare del tempo anche grazie alla stima di artisti come Bruce Springsteen che gli danno una mano a sopravvivere. Il successo di Shakedown lo aiuta a continuare.


29 luglio, 2020

29 luglio 1948 - I cerchi olimpici sulle rovine di Londra

Il 29 luglio 1948 iniziano i Giochi Olimpici di Londra. Per il comitato olimpico è la quattordicesima edizione perché si sceglie di contare anche una XII e una XIII Olimpiade che non hanno avuto luogo. Nelle intenzioni originarie la loro organizzazione sarebbe toccata a Tokyo e Roma, ma la follia degli uomini ha voluto diversamente. Quando si deve scegliere la nazione deputata a ospitare la manifestazione, viene scartata la candidatura della neutrale e prospera Svizzera perché il mito olimpico, per rivivere, ha bisogno di un emblema di sofferenza e resurrezione. La Londra del 1948, con i suoi palazzi ancora sventrati è un simbolo più significativo delle verdi e quiete vallate elvetiche. Si ricomincia con quello che c’è, non si possono costruire nuovi impianti. Gli inglesi si arrangiano rattoppando Wembley e gli altri stadi, per gli sport acquatici può bastare il Tamigi e per il ciclismo ci si accontenta degli ampi viali del parco di Windsor. È un’Olimpiade povera ma dignitosa, come i tempi che le popolazioni dell’Europa stanno vivendo. I 4.311 atleti provenienti da cinquantanove nazioni sono ospitati in collegi, capannoni militari e camere di vecchi ospedali da guerra. Quasi a sottolineare l’aria di nuova fratellanza tra i popoli i concorrenti della nazioni con maggior disponibilità, dividono con gli atleti dei paesi meno fortunati le scorte alimentari. C’è, comunque, chi fa le cose in grande. La squadra statunitense arriva a Londra con una dispensa forte di cinquemila bistecche e quindicimila tavolette di cioccolato, mentre gli olandesi e i danesi possono contare su una mezzo milione di uova. Gli italiani sbarcano sulle coste britanniche con scorte di pasta, pomodoro e parmigiano, prodotti tipici di quella che ancora non viene chiamata “dieta mediterranea”. Tutti, comunque, possono contare sulla collaborazione dei pescatori inglesi che distribuiscono gratis agli atleti, nei giorni delle Olimpiadi, più di duemila tonnellate di pesce. La cerimonia d’apertura si svolge nello stadio di Wembley davanti a ottantamila spettatori. Fa molto caldo, la temperatura tocca punte superiori ai 40 gradi centigradi, ma è un caso perché nei giorni successivi pioverà sempre. Nel cuore degli inglesi permangono le ruggini e le ferite di una guerra troppo recente per essere dimenticata e la delegazione italiana viene spesso bersagliata da fischi e varie manifestazioni di ostilità. Il tifo non è mai dalla nostra parte, qualunque sia l’avversario. Tra le nazioni sconfitte, a differenza di Germania e Giappone, che sono state escluse dalle competizioni, l’Italia può partecipare per decisione di Winston Churchill, il quale è convinto che il nostro paese abbia già pagato a sufficienza i propri errori. Quando il re Giorgio VI apre i Giochi si librano nel cielo settemila colombe mentre un coro intona Non nobis Domine, un inno il cui testo porta la firma di Rudyard Kipling, l’autore de “Il libro della jungla”. Il giuramento olimpico viene pronunciato da un eroe di guerra, Donald Finley, quarantenne ostacolista e colonnello della RAF. L’Italia ha investito settantasei milioni di lire in una spedizione che comprende centottantotto uomini, diciannove donne e ottantotto dirigenti. Il nostro bottino finale sarà di otto medaglie d’oro, undici d’argento e sette di bronzo.

28 luglio, 2020

28 luglio 1979 – Il sogno della 2-Tone

Il 28 luglio 1979 con il singolo Gangsters degli Specials per la prima volta le classifiche britanniche ospitano un disco della 2-Tone, la casa discografica autogestita dalla band, il cui logo, un omino bianco e nero, è diventato da tempo il simbolo del movimento ska. Più che un'etichetta la 2-Tone è un laboratorio dello ska, la musica nata dalla mistura tra la secca essenzialità del punk e la ritmica armonia delle musiche giamaicane. Per i giovani ribelli e antirazzisti delle metropoli britanniche la 2-Tone è l'emblema di un rinnovamento musicale capace di mescolare culture diverse. Nata dalla geniale e fertile inventiva di Jerry Dammers, il leader degli Specials, ha una struttura del tutto improbabile. Non c'è una vera e propria sala di registrazione. I primi nastri vengono praticamente registrati tutti, o quasi, nel suo appartamento a Coventry. Non c'è una programmazione né uno staff che si occupi del marketing. La principale e, per molto tempo, unica forma di promozione sono i concerti e il nutrito sottobosco di fanzine del movimento ska, fogli autoprodotti che passano di mano in mano. Soltanto l'anno prima gli Specials, pur di salvaguardare l'integrità artistica dell'etichetta, hanno rifiutato di firmare un ricco contratto proposto loro da Bernie Rhodes, il manager dei Clash. La 2-Tone non è soltanto Specials. Si può dire che tutti i principali gruppi del movimento ska partano dall'etichetta dell'omino bianco e nero «di sinistra e contro ogni razzismo». La lista è lunghissima e comprende dai Selecter ai Madness, dai Beat agli Swingin' Cats, alle Bodysnatchers, a Rico, un trombonista giamaicano onnipresente considerato una sorta di portafortuna. E quando la destra si scatena, da questo gruppo nasce l'idea della resistenza militante contro le violenze del National Front. Non tutti resisteranno per sempre alle lusinghe del mercato e anche la 2-Tone finirà. L'esperienza resterà però una delle pagine più belle della musica britannica.

27 luglio, 2020

27 luglio 1968 – Luglio, col bene che ti voglio...

Quando si pensa all'estate del sessantotto, cioè l'anno in cui anche in Italia inizia soffiare forte il vento di un cambiamento per molti versi epocale, si fa fatica a ricordare che una delle canzoni più cantate, ballate e vendute di quel periodo possa essere stata Luglio di Riccardo Del Turco. Eppure dopo aver vinto il concorso "Un disco per l'estate" la canzoncina indolente e sonnacchiosa proprio il 27 luglio 1968 arriva al vertice della classifica dei dischi più venduti in Italia. Il suo interprete, presentato come un debuttante, una sorta di barista prestato alla musica è in realtà un personaggio tutt'altro che sconosciuto agli addetti ai lavori. Negli anni Cinquanta, infatti, era stato il cantante dell'orchestra di Riccardo Rauchi. Il pigro Del Turco ha un rapporto contraddittorio con la musica e più d'una volta ha lasciato tutto per tornare dietro al banco del suo bar nel centro storico di Firenze. Conosce bene, però, i trucchi del mestiere. Incide tutta d'un fiato la canzoncina scritta insieme a Bigazzi nella casa di quest'ultimo a Punta Ala. Le parole non sono granché, ma l'insieme è accattivante e gradevole. Il risultato è uno straordinario successo di pubblico che continua anche quando il sole dell'estate ha lasciato il posto all'autunno. Il brano, infatti, vincerà anche la Gondola d'Oro alla Mostra Internazionale di Musica Leggera di Venezia, uno dei premi più prestigiosi di quel periodo, riservato alle canzoni dominatrici del mercato. Il successo di Luglio non si fermerà nei confini italiani. La canzone infatti conquisterà una posizione di rilievo anche nella classifica britannica. Artefici dell'exploit saranno quei Tremeloes che qualche anno prima erano stati preferiti ai Beatles dai cervelloni della Decca. La loro versione, intitolata I'm gonna try, porterà il brano di Riccardo Del Turco sul mercato anglosassone alimentando l'inspiegabile fascino di una canzone nata per essere consumata nel breve spazio di qualche settimana.


24 luglio, 2020

25 luglio 2003 - Patti, Carmen e Paola insieme a Napoli


Quello che si svolge il 25 luglio 2003 a Napoli non è il concerto dell’anno, ma gli assomiglia molto. In quella che dovrebbe essere, infatti, la serata conclusiva del Neapolis Festival, nella suggestiva cornice dell’ex Italsider di Bagnoli, il programma prevede l’esibizione tre cantautrici, tre “strani frutti” del rock che salgono una dopo l’altra su un palcoscenico rigorosamente al femminile. Le tre protagoniste hanno nomi nobili per chi pratica l’araldica musicale. Si chiamano, infatti, Patti Smith, Carmen Consoli e Paola Turci. Tre voci, tre mescole diverse tra musica e poesia, tre storie profondamente diverse. Apre la serata Paola Turci, impegnata a proporre i brani di “Questa parte di mondo”, l’album che ha segnato una nuova tappa nella sua carriera portandola definitivamente via dalle secche popperecce sulle quali rischiava di incagliarsi. Dopo di lei tocca a Carmen Consoli. La cantantessa si è dichiarata orgogliosa di poter dividere lo stesso palco con Patti Smith, uno dei suoi miti e, per molto tempo, l’inarrivabile esempio di un modo nuovo di concepire il rapporto tra musica e parole. Infine i riflettori sono tutti per lei, Patti Smith, la sacerdotessa del rock, che conduce il pubblico di Napoli in un viaggio musicale senza tempo, ripercorrendo i suoi successi di trent’anni di attività, sempre in bilico tra punk e new wave, songwriting e canzone di protesta.


23 luglio, 2020

24 luglio 1937 – Pierette, una stella italiana nella Marsiglia delle gang

Il 24 luglio 1937 nasce a Nichelino, in provincia di Torino, Piera Bensi, destinata a conquistare una grande popolarità in Francia con il nome d’arte di Pierette. La grande epopea degli chansonnier non sarebbe riuscita a superare i limiti del tempo e dello spazio se non avesse potuto contare su una lunga sequenza di interpreti capaci di innervarne le canzoni con nuovo vigore, nuovo slancio e nuovi stili. È stato scritto che qual grande periodo musicale è figlio anche della capacità della Francia di influenzare e inglobare artisti provenienti da paesi diversi come il danese Ulmer, l’armeno Aznavour, il belga Brel, il russo Gainsbourg, l’americana Josephine Baker, l’ebreo greco Georges Moustaki, gli italiani Montand, Reggiani, Rina Ketty e molti altri. Tutti francesi eppure tutti “stranieri”. È difficile per chi vive al di fuori dei confini francesi capire e assimilare i concetti di una cultura che è, insieme, nazionalista e aperta alle innovazioni e ai contributi esterni. Sembra un paradosso ma è la realtà. In parte una delle ragioni che stanno alla base di questo perenne laboratorio di cultura è la leggendaria ospitalità della Francia che, dalla rivoluzione in poi, non ha quasi mai negato un tetto e un posto dove rifugiarsi ai perseguitati di tutto il mondo. Grazie al “diritto d’asilo” arrivano nel “territorio libero” francese personaggi come la Baker, Moustaki, Aznavour o Montand. Altri invece vengono attratti dalla vivacità di un tessuto artistico che non alza muri ma si apre ai figli di tante culture aiutandoli a innestarsi sulla tradizione e a regalarle nuova linfa. Come è già stato scritto la Francia non è l’unico paese che nel corso della sua storia ha aperto le frontiere a profughi e popoli diversi, integrandoli e inserendoli nel proprio tessuto sociale, ma è l’unico la cui struttura culturale, soprattutto quella musicale, ha saputo attingere e innervarsi di nuove sfumature senza perdere contatto con le radici. In parte è accaduto negli Stati Uniti con il rock & roll, nato dalla fusione tra le musiche dei coloni bianchi e i ritmi degli schiavi neri, ma è stato un fenomeno per molti aspetti casuale e irripetibile. In Francia invece è proprio la struttura del sistema culturale che riesce ad attirare nuovi stimoli grazie alla sua duttilità inserendo nella schiera degli chansonnier i “nuovi francesi” provenienti da varie parti del mondo. Se oggi la polvere del tempo non è ancora riuscita a coprire e a cancellare brani scritti quasi un secolo fa il merito non è soltanto della straordinaria vivacità delle composizioni ma anche della capacità degli interpreti di mescolare il nuovo con l’antico, i ritmi moderni con la melodia della tradizione, realizzando una fusione che appare ogni volta miracolosa. Un’importanza fondamentale assumono anche le voci delle cantanti, les chanteuses, melodiose creatrici di emozioni capaci di filtrare le canzoni attraverso la loro sensibilità aggiornandole e adeguandole alle esigenze del pubblico e dello scorrere del tempo. A loro Jean Cocteau rivolge l’omaggio poetico più famoso dell’epoca degli chansonnier: «Parigi cesserebbe di essere Parigi se lo strascico notturno del suo lungo vestito/non fosse inghirlandato da queste meravigliose cantanti…/ragazze che ne interpretano l’anima poetica con grande amore e profondità». Sono proprio queste “meravigliose cantanti” a possedere il segreto e la magia di fermare il tempo. Sono le loro voci che rendono immortali i brani degli chansonnier riproponendoli a un pubblico di uomini e di donne che in qualche caso non erano neppure nati quando venivano composte. A loro va il merito di non aver rinchiuso in un museo le emozioni in musica di un periodo fantastico. Tra queste cantanti c’è Pierette, la voce che nei locali della turbolenta e affascinante Marsiglia degli anni Settanta ha ridato nuova vita e nuovo splendore a un repertorio che rischiava di essere cancellato dal delirio della disco-music. Come spesso accade la carriera artistica della giovane Piera inizia quasi per caso negli anni Cinquanta quando partecipa più per gioco che per convinzione a un concorso canoro per dilettanti e lo vince. Della giuria fanno parte alcuni personaggi di spicco del mondo musicale dell’epoca. Tra loro ci sono gli autori Giovanni D’Anzi, Carlo Alberto Rossi e Norberto Caviglia che hanno parole di elogio per la ragazza e le pronosticano un futuro luminoso in qualità di cantante: «Lei ha talento. Lo metta a frutto». Piera non se lo fa dire due volte. Tenace e determinata inizia non si sottrae alla fatica dello studio e dell’esercizio vocale. Tanto impegno dà subito i primi risultati e la ragazza vince il festival della canzone piemontese che si svolge a Torino al Teatro Alfieri. È il viatico definitivo per il mondo della canzone e Pierette diventa una delle cantanti più presenti sui cartelloni dei locali torinesi. Il suo repertorio attinge alla tradizione melodica di tutto il mondo e, in particolare, alle suggestioni che arrivano dalla Francia degli chansonnier. Nel 1961 mentre si esibisce al Moulin Rouge di Torino si accorge che tra il pubblico c’è Gilbert Bécaud, uno dei suoi autori preferiti. Pierette decide di cambiare la scaletta e anticipare un paio di brani composti dall’importante spettatore. Con un po’ di emozione intona le prime note e le prime parole di Le mur (Y a toujours un côté du mur à l'ombre/Mais jamais nous n'y dormirons ensemble/Faut s'aimer au soleil/Nus comme innocents/Se moquant des saintes âmes qui grondent nos vingt ans...) poi si rilassa e la sua voce diventa ferma, sicura e seducente come sempre. Al termine Bécaud l’applaude convinto. Lei ringrazia e si lancia in Croque mitoufle, un brano scritto da Bécaud nel 1958 e inserito nella colonna sonora del film omonimo diretto da Claude Barma nel quale il cantante recita al fianco di Michel Roux, Micheline Luccioni e Mireille Granelli. Al termine dell’esibizione Gilbert Bécaud si complimenta con lei e la invita ad andare a Parigi, ma la ragazza è costretta a declinare l’invito perchè i suoi impegni non glielo permettono. Il rifiuto opposto da Pierette all’invito di Bécaud per un’esibizione parigina non è frutto di spocchia o presunzione. La cantante, infatti in quel periodo ha già sottoscritto una serie di contratti che prevedono anche la sua esibizione di fronte a Mohammad Reza Pahlavi, l’ultimo Scià di Persia. A dividere gli impegni con lei ci sono anche personaggi di fama internazionale come Jacqueline François, la più famosa interprete di Mademoiselle de Paris, Harold Nicholas e altri. Pierette allaccia anche una fraterna amicizia con Farah Diba, la terza e ultima moglie del sovrano persiano. In quel periodo incontra poi il musicista Carlo Alessandri, un uomo che si rivela determinante per la sua carriera artistica e per la sua vita sentimentale. Pierette, infatti, entra a far parte della sua formazione orchestrale come voce solista e nel 1965 lo sposa. Proprio con l’ensemble di Alessandri si esibisce in moltissimi locali notturni di vari paesi europei. Negli anni Settanta, con un ritardo di una decina d’anni sull’invito di Bécaud arriva finalmente in Francia. Dopo una lunga serie di applaudite esibizioni al cabaret Le Rêve di Parigi si trasferisce sulle sponde del Mediterraneo diventando una delle stelle di prima grandezza delle notti musicali di Marsiglia. Il grande successo marsigliese di Pierette coincide con un periodo molto turbolento della città meridionale francese. Il clima che si vive nei locali è molto simile a quello portato sul grande schermo nel 1972 dal regista Josè Giovanni con il film “La scoumoune”, uscito in Italia con il titolo de “Il clan dei marsigliesi” e interpretato da Claudia Cardinale, Jean-Paul Belmondo e Michel Constantin. La malavita e le gang erano una componente stabile delle serate nei locali. «Erano i padroni della notte e c’era sempre un tavolo a loro riservato anche quando il locale era stracolmo di pubblico». Così ricorda quegli anni Pierette che si esibisce soprattutto al mitico Real Club di rue de Catalans. Negli anni Ottanta la sua attività diminuisce progressivamente fino al ritiro dalle scene. Oggi Pierette vive tra “le vieux port” di Marsiglia e la residenza della sua famiglia di origine a Rivanazzano, in provincia di Pavia.

22 luglio, 2020

22 luglio 1977 - Richie Kamuca, un talento precoce

Il 22 luglio 1977 alla vigilia del suo quarantasettesimo compleanno muore a Los Angeles, in California, il sassofonista Richie Kamuca, all’anagrafe Richard Kamuca. Nato a Philadelphia, in Pennsylvania, il 23 luglio 1930, è un talento precoce tanto che a soli vent’anni viene scritturato da Stan Kenton con il quale resta fino al 1953 in una delle più belle formazioni della sua orchestra che schiera musicisti come Conte Candoli, Maynard Ferguson, Frank Rosolino, Bill Russo, Lee Konitz, Bill Holman, Bob Gioga, Sal Salvador o Stan Levey. Dal 1954 al 1955 va con la band di Woody Herman dando vita, insieme a Bill Perkins, Arno Marsh e Phil Urso, a una sezione sax di notevole valore. Nel 1957 suona nelle formazioni di Chet Baker e di Maynard Ferguson e, sul finire dell'anno, come gran parte dei musicisti di Kenton e di Herman, entra nei Lighthouse All Stars di Howard Rumsey. La collaborazione con Rumsey prosegue anche nel 1958 e successivamente Kamuca suona nelle formazioni di Shorty Rogers e di Shelly Manne. Nel 1962 lascia la California e si trasferisce a New York dove viene ingaggiato da Gerry Mulligan per una big band che, tra alterne vicende, rimane in vita quasi quattro anni. Successivamente viene scritturato da Gary McFarland e poi forma un quintetto a suo nome che dirige insieme a Roy Eldridge pur senza mai cessare le collaborazioni, soprattutto in studio di registrazione, con Kenton, Lee Konitz, con Zoot Sims, Al Cohn e Jimmy Rushing. Nel 1972 torna a Los Angeles e ricomincia a lavorare nei circoli jazzistici della zona entrando anche a far parte della big band del trombettista Bill Berry senza rinunciare però a qualche esperienza in proprio. A partire dal 1975 la sua attività diminuisce progressivamente per i problemi creati da un tumore che lo porta alla morte.

21 luglio, 2020

21 luglio 1990 - Il muro di Roger Waters davanti al muro di Berlino

Sono almeno duecentomila gli spettatori che il 21 luglio 1990 assistono dal vivo alla messa in scena di “The wall” (Il muro) davanti a ciò che resta del muro di Berlino in Potzdamer Platz, di fronte alla Porta di Brandeburgo, in quella che fino a pochi mesi prima era terra di nessuno tra la parte occidentale e quella orientale della città. L’opera, un classico dei Pink Floyd, dovrebbe essere, nelle intenzioni degli organizzatori, più che una celebrazione della caduta del muro, uno spettacolare ponte di culture lanciato tra due parti d’Europa che si stanno riunendo. Non a caso le immagini più forti della rappresentazione sono quelle delle guerre che hanno insanguinato il nostro continente, viste come un orpello di un passato nato dalla stupidità degli uomini. La sua messa in scena, curata dallo stesso autore, l’ex Pink Floyd Roger Waters, è destinata a diventare un esempio di “concerto europeo” da contrapporre ai ridondanti e, spesso, leziosi quanto monocordi “eventi” di scuola statunitense. Nella stesura spettacolare non c’è solo il rock. Ci sono anche i cori e le orchestre dell’Armata Rossa e della Radio di Berlino Est, ad affiancare un cast eccezionale che comprende, tra gli altri, Bryan Adams, la Band (senza Robbie Robertson), James Galway, gli Hooters, Cyndi Lauper, Ute Lemper, Joni Mitchell, Van Morrison, Sinead O’Connor, gli Scorpions, Marianne Faithfull, l’ex chitarrista dei Thin Lizzy Snowy White e gli attori Tim Curry e Albert Finney. Europei sono anche gli evidenti richiami al mondo delle arti figurative della scenografia, i riferimenti al cabaret e anche le atmosfere musicali, alle quali collabora il direttore d’orchestra Michael Kamen. Oltre ai duecentomila convenuti a Berlino, sono più di due miliardi gli spettatori che assistono, in mondovisione, per più di due ore a uno spettacolo che non annoia grazie ai frequenti colpi di scena e a una tensione interna che si materializza nell’attesa prima della costruzione e poi della distruzione del muro.

17 luglio, 2020

17 luglio 1976 – A Montreal il primo boicottaggio di un'Olimpiade

Alla vigilia dell’apertura dei giochi olimpici di Montreal, prevista per il 17 luglio 1976, entra per la prima volta nel linguaggio sportivo un termine nuovo: boicottaggio. La prima nazione ad annunciare la sua rinuncia a partecipare ai giochi per protesta è Taiwan che, non potendo utilizzare dopo il riconoscimento della Cina Popolare la dizione "Repubblica di Cina" se ne va. Il comitato organizzatore non dà troppo peso al gesto e lascia fare senza tentare alcuna mediazione. Non ci si rende conto dell’importanza che i giochi stanno assumendo anche come formidabile cassa di risonanza per azioni clamorose e gesti propagandistici. L’inerzia e l’incomprensione fanno sì che nubi ben più nere inizino ad addensarsi sui giochi canadesi. La Tanzania chiede l'esclusione dalle gare della Nuova Zelanda, accusata di aver intrattenuto rapporti sportivi con il Sudafrica razzista, e, di fronte al rifiuto degli organizzatori se ne va. Con lei lasciano l'Olimpiade ventisei paesi africani, la Guyana e l'Iraq, ma l’elenco rischia d’allungarsi. Da più parti si chiede che vengano ridotti a quattro i cerchi olimpici che simboleggiano i cinque continenti, vista l'assenza dell'Africa. Iniziano febbrili quanto tardive trattative diplomatiche per salvare i giochi finché, in extremis, si riesce a garantire la presenza del Senegal e della Costa d'Avorio. Il quinto cerchio dell’Olimpiade è salvo.

15 luglio, 2020

16 luglio 1966 – Nascono i Cream

Il 16 luglio 1966, nella Londra deserta di mezza estate nascono i Cream, destinati a diventare il gruppo più famoso e più popolare della storia del blues revival. I loro componenti non sono novellini, ma tre protagonisti del circuito blues londinese sempre meno underground. Guidato dalla chitarra di Eric “Slowhand” Clapton, già con John Mayall e poi con gli Yardbirds, il trio schiera il polipercussionista Ginger Baker alla batteria e Jack Bruce l’ex bassista dei Bond e dell’Alex Korner Band. I Cream portano sui grandi palchi dei concerti rock le esperienze nei fumosi club londinesi, alzando il volume ai massimi livelli. Nel 1966 il loro primo album, Fresh Cream, ottiene un successo incredibile. Le distorsioni e il wah-wah di Clapton su una ritmica incalzante fanno il giro del mondo. L’anno dopo raddoppiano i risultati sul piano commerciale con Disraeli Gears, un album prodotto da Felix Pappalardi che ammorbidisce i suoni in chiave pop. La loro popolarità è supportata dalle devastanti esibizioni dal vivo che con le lunghe concessioni all’improvvisazione, aprono un nuovo mondo agli adolescenti ancora troppo costretti dalla rigida ripetitività del beat. I tre si integrano a meraviglia. Ciascuno porta sul palco una personalità diversa e insieme cambiano gli stereotipi della musica di consumo. Nel 1968 il doppio Wheels Of Fire metà registrato in studio e metà dal vivo, segna il punto più alto della loro carriera e, insieme, l’inizio della fine. Pochi mesi dopo l’album Goodbye dà il segno dell’imminente separazione. I tre, per evitare di restare prigionieri di una sorta di agonia autocelebrativa, decideranno di separarsi ufficialmente dopo un indimenticabile concerto d’addio.

13 luglio, 2020

13 luglio 1985 - L’ingombrante santificazione di Bob Geldof

“Un giorno Dio voleva trovare una soluzione al problema della carestia in Africa e, probabilmente per sbaglio, ha bussato alla porta di Bob Geldof. Quando questo irlandese trasandato ha aperto la porta, dopo qualche perplessità deve aver pensato: Oh, al diavolo, andrà bene anche lui!”. In questo modo singolare la rivista “Life” esprime il proprio ammirato stupore nei confronti dell’iniziativa di Bob Geldof, il cantante dei Bootown Rats, principale artefice della mobilitazione del rock a favore delle popolazioni africane colpite dalla carestia. Il 13 luglio 1985 sono un miliardo e mezzo i telespettatori di tutto il mondo che assistono al “Live Aid”, il più grande concerto benefico della storia della musica rock. E non è casuale che l’organizzatore sia proprio un artista non di primissimo piano e da tempo impegnato sui problemi sociali del suo paese. L’ambiente, infatti, è diffidente nei confronti dei grandi nomi, dopo le truffe e le vergognose speculazioni del “Concerto per il Bangladesh” organizzato anni prima da George Harrison e divenuto famoso perchè nessuno dei soldi raccolti era arrivato a destinazione. In molti ci provano, ma solo Geldof ce la fa e porta quasi in contemporanea su due palchi costruiti negli Stadi di Wembley e di Filadelfia in sedici ore del megaconcerto quasi tutti i vecchi e nuovi personaggi del rock e del pop mondiale. Il successo dell’evento provoca un effetto imitazione e nei mesi successivi una pioggia di dollari si riverserà sugli organismi internazionali impegnati nella lotta contro la carestia africana. Il Live Aid resta nella storia del rock ma rischia di cambiare per sempre la vita del suo ideatore. Bob Geldof, ribattezzato “Santo Bob” viene anche proposto per il Premio Nobel per la Pace e per qualche tempo non riesce più a trovare qualcuno che ne prenda sul serio le ambizioni e le qualità artistiche. L’immagine salvifica che lo accompagna finisce per pesare come un macigno sulla sua carriera di cantante, costringendolo a ripartire quasi da zero e finisce per farlo sempre più assomigliare a una tranquillizzante immaginetta.

10 luglio, 2020

10 luglio 1968 - I Nice bruciano la bandiera USA

Il 10 luglio 1968 nel corso di un loro partecipatissimo concerto alla Royal Albert Hall di Londra i Nice bruciano e calpestano la bandiera statunitense. Il gesto avviene durante l'esecuzione di una versione molto “psichedelica” di America, il brano di Leonard Bernstein tratto dal musical "West side story". La band, che in quel periodo è composta dal bassista Keith “Lee” Jackson, proveniente dai T.Bones come il tastierista Keith Emerson, dal chitarrista Dave O'List, già con gli Attack e dal batterista Brian "Blinky" Davison ex Mark Leeman Five, è solita eseguire il pezzo di Bernstein insieme a una serie di evoluzioni improvvisative intitolate Second emendment. In quel 10 luglio alla dissacrazione musicale viene aggiunta la provocazione visiva. Quella bandiera USA che brucia sul palco vuole essere, secondo quanto annunciato dallo stesso Keith Emerson “di un segno di protesta per l’ignobile guerra in Vietnam”. Il gesto che attira sui Nice molte simpatie da parte dei movimenti pacifisti finisce per costare caro sul piano professionale. La band, infatti, viene messa al bando dal locale, uno dei luoghi più prestigiosi per la musica dal vivo britannica.

09 luglio, 2020

9 luglio 2006 - Campioni del mondo!

Il 9 luglio 2006 l'Italia vince per la quarta volta il campionato del mondo di calcio. La finale, che si gioca all'Olympiastadion di Berlino, vede di fronte le rappresentative nazionali di Italia e Francia. Proprio i transalpini vanno in vantaggio a soli sei minuti dall’inizio con Zidane che mette a segno un calcio di rigore concesso per un fallo di Materazzi su Malouda. È poi lo stesso Materazzi a pareggiare il conto al 19' con un gran colpo di testa su corner di Pirlo. La partita si chiude sull'1-1. Si va ai tempi supplementari durante i quali Zidane viene espulso per aver colpito con testata al petto il difensore italiano Materazzi. Alla fine dei supplementari il risultato non cambia pertanto il titolo deve essere assegnato ai calci di rigore. Tocca all’Italia cominciare. Per primo calcia Pirlo e segna. Poi per la Francia c'è Wiltord che non sbaglia. Va a segno anche Materazzi con un sinistro rasoterra, mentre il francese Trezeguet calcia sulla traversa. Dopo quelli messi a segno da De Rossi e Del Piero per l’Italia e da Abidal e Sagnol per la Francia il rigore decisivo per gli azzurri è affidato ai piedi di Grosso che segna e consacra la vittoria della nazionale italiana. Al terzo posto si classifica la Germania battendo al Gottlieb-Daimler-Stadion di Stoccarda il Portogallo per 3-1.

07 luglio, 2020

8 luglio 1965 - Willie Dennis, tra melodia e violenza espressiva

L’8 luglio 1965 muore in un incidente stradale il trombonista Willie Dennis. William De Berardinis, questo è il suo vero nome, nasce a Philadelphia, in Pennsylvania, il 10 gennaio 1926 e i suoi primi passi con la musica li muove più seguendo l’istinto che le lezioni degli insegnanti. Per tutta la vita racconterà di aver imparato da solo i segreti del trombone. Negli anni Quaranta suona nelle orchestre di Elliott Lawrence, Claude Thornhill e Sam Donahue prima di suonare passare in quella di Benny Goodman per la tournée europea del 1958. Nello stesso anno se ne va anche in America Latina con Woody Herman. Insofferente ai legami troppo lunghi si diverte a suonare in piccole formazioni con gran parte dei grandi protagonisti del jazz di quel periodo, da Howard McGhee a Charlie Ventura, da Coleman Hawkins a Lennie Tristano a Kai Winding. Proprio con Winding dà vita al gruppo di quattro trombonisti (gli altri due sono J. J. Johnson e Benny Green) ideato da Charlie Mingus. Nel 1959 entra nel quintetto di Buddy Rich, con Phil Woods al sassofono contralto. All'inizio degli anni Sessanta fa parte della Concert Jazz Band di Gerry Mulligan. La morte improvvisa ne chiude la carriera. In possesso di una tecnica eccezionale, Dennis riusciva a fondere una grande sensibilità melodica con la violenza espressiva ricavata dal lungo contatto con Mingus.