09 ottobre, 2020

9 ottobre 1978 - Jacques Brel, ribelle fino alla fine

Il 9 ottobre 1978 muore Jacques Brel. «Io non porto messaggi, lo lascio fare ai postini». Accompagnata da un sorriso sarcastico la frase di Jacques Brel arriva come una frustata a chi tenta di stanarlo sulle questioni politiche. Nascosto dietro quell’aria un po’ indolente, con la sigaretta sempre accesa e le dita gialle di nicotina, lo chansonnier belga trattato dai parigini come se fosse uno di casa non sopporta chi tenta di ficcare il naso nelle sue cose siano esse opinioni, idee o anche soltanto canzoni. L’uomo non è poi tanto differente da quello che sembra ascoltando le sue composizioni. In lui essere e apparire coincidono o, meglio, l’apparenza non esiste proprio. Franco e diretto nel modo di rapportarsi con gli interlocutori assomiglia più di quello che vorrebbe al suo grande amico Brassens soprattutto nella sua istintiva imprevedibilità e nella sua ostinata attenzione a non farsi strumentalizzare. Il pubblico italiano conosce la sua faccia prima delle sue canzoni. Il suo volto diventa popolare alla fine degli anni Sessanta attraverso il cinema ma per la voce ci vuole più tempo e il grande pubblico si accorge della bellezza delle sue canzoni solo grazie all'impegno di un pugno di infaticabili e appassionati divulgatori guidati da Gino Paoli, Duilio Del Prete ed Herbert Pagani. I giovani contestatori del Sessantotto fanno di alcuni suoi personaggi cinematografici una sorta di culto come accade quando scappano per le vie della città con la polizia alle calcagna si sentono un po’ emuli della Banda Bonnot. Negli anni Sessanta, quando il mondo si accorge di lui, Jacques Brel non è più un ragazzino. È nato, infatti, a Schaerbeek, nei dintorni di Bruxelles, l'8 aprile 1929 da una mescola etnica di cui andrà fiero nel futuro. Suo padre è fiammingo ma francofono mentre nelle vene della madre secondo i racconti dello stesso Jacques scorrerebbe sangue francese con abbondanti tracce di sangue spagnolo lasciato in dote ai cittadini di quelle terre dal dominio castigliano del XVI e XVII secolo. Questa storia delle radici iberiche lo solletica e lo affascina al punto che nei suoi brani le atmosfere spagnoleggianti sono tutt’altro che rare così come i riferimenti alla figura di Don Chisciotte. Mescole di sangue a parte, la sua famiglia è del tutto normale, simile a tante altre. Suo padre è un piccolo industriale che produce cartoni e il giovane Brel sembra destinato a seguirne le orme visto che ancora adolescente lascia gli studi e comincia a lavorare come impiegato. Giocando con i termini, dirà che in quel periodo si sentiva "encartonné", chiuso in una gabbia di cartone. Appena possibile cerca di percorrere una strada diversa cominciando a comporre canzoni e a cantarle in giro nelle bettole di Bruxelles e dovunque sia possibile. Sono brani che mescolano l'amore e i sentimenti con l’impegno sociale, che fanno incontrare la poesia con il desiderio di ribellione e la vita con i sogni. Non sono canzoni facili ma si fanno notare e negli anni che vanno dal 1948 al 1953 il buon Jacques si costruisce un piccola ma solida fama nella sua città natale. La popolarità nei bar e nei locali della sua città natale non gli bastano. Vorrebbe andarsene e tentare la strada di una popolarità più ampia ma non è facile puntare a qualcosa di così difficile per uno che canta la vita da un angolo di visuale critico e radicato nella realtà. Forse per questo il suo primo disco arriva relativamente tardi, nel febbraio del 1953, dopo ottantadue provini falliti. È un 78 giri e nelle due facciate ci sono le canzoni La foire e Il y a. Il disco, pubblicato dalla Philips, vende la non straordinaria cifra di duecento copie, ma la soddisfazione per essere finalmente arrivato in sala di registrazione lo aiuta a non arrendersi. Nel frattempo anche la fortuna ha deciso di dargli finalmente una mano. Il disco arriva quasi per caso nelle mani di Jacques Canetti uno dei più infallibili e ascoltati scopritori di talenti della scena parigina che si entusiasma per questo sconosciuto chansonnier belga, lo contatta e lo convince a seguirlo a Parigi. Brel, un po’ confuso dalla svolta imprevista, si lascia alle spalle la famiglia, Bruxelles, i club e gli amici che fino a quel momento lo hanno sostenuto e se ne nella capitale francese. Il debutto avviene nel Trois Baudets, il locale gestito dallo stesso Canetti nel quale qualche tempo prima un altro debuttante dal nome di Georges Bassens aveva infiammato e deliziato il pubblico. Jacques Brel non infiamma ma piace e finisce per tornarci ancora altra volte nei cinque anni seguenti. Non è ancora il successo, ma lo chansonnier venuto da Bruxelles riesce a restare a Parigi alzando le spalle quando le critiche si fanno feroci, sopportando con pazienza le offensive storielle sui belgi, mangiando pane e formaggio e accettando di suonare in tutti i locali dove è possibile accettando qualunque compenso. Nel 1954 suona anche in sette locali in una notte cantando canzoni per spettatori non sempre attenti dalle otto di sera alle prime luci dell’alba. In questo periodo di fatica, sudore e fame trova il modo di registrare il suo primo album Grand Jacques. La fatica non è inutile. Lo stralunato chansonnier comincia a trovare nuovi ammiratori tra i protagonisti della scena musicale francese di quel periodo, da Dario Moréno a Catherine Sauvage, da Maurice Chevalier a Michel Legrand, a Serge Gainsburg ad Aznavour e Zizi Jeanmarie. Un’artista in particolare si rivela decisiva per la sua carriera. Si chiama Juliette Gréco, ed è considerata una sorta di dea dalle parti di Saint-Germain-des-Prés e dai protagonisti della corrente esistenzialistica. Proprio lei decide di inserire nel suo repertorio e nella sua produzione discografica un brano di Brel intitolato Le diable. L'incontro con la Gréco si rivela fondamentale per lo chansonnier arrivato da Bruxelles che, oltre a moltiplicare le entrate in diritti d’autore e le richieste d’esibizione inizia una collaborazione preziosa con Gérard Jouannest, pianista e compagno della cantante, e con l'arrangiatore François Rauber. Il rapporto con i due segna un’evoluzione decisiva nella qualità compositiva di Brel. Le sue melodie escono dalla secca essenzialità per mettere al servizio delle parole un nuovo, variegato cromatismo. È il successo. Parigi lo adotta e ne fa un protagonista della scena musicale al punto che nel 1961 il patron dell’Olympia Bruno Coquatrix lo vuole per sostituire Marlene Dietrch che ha dato improvvisamente forfait. Il successo non cambia Jacques Brel. Lo chansonnier resta un ribelle nella vita come nelle canzoni. Nel 1965, incurante della guerra fredda e delle tensioni internazionali accetta di andare in URSS, oltre che in Canada e negli Stati Uniti. Più volte annuncia la sua intenzione di non cantare più in pubblico e altrettante volte si smentisce da solo, mentre anche il cinema inizia a utilizzare la sua faccia e la recitazione fredda e tagliente come un coltello. Dopo "La Banda Bonnot" di Fourastié interpreta più di un pugno di film con registi come Cayatte, Molinaro, Carné, Lelouch. Nel 1968 mette in scena "L'uomo della Mancia", una sua versione del musical "The Man of the Mancha", ma i medici gli dicono che un tumore ha iniziato a mangiargli un polmone. Compra una barca a vela e, dopo un intervento chirurgico, se ne va in giro per il mondo. Si ferma a Hiva-Oa, nell'arcipelago delle Isole Marchesi che, di fatto, diventa la sua nuova patria. Mort Shuman, suo grande ammiratore, gli dedica un lavoro teatrale il cui titolo sembra una beffa del destino: "Jacques Brel is alive and well and living in Paris" (Jaques Brel è vivo, sta bene e vive a Parigi). Nel 1977, quando sente che la fine s'avvicina, registra il suo ultimo disco (due milioni di copie di prenotazioni) e destina il 90% dei proventi alla ricerca sul cancro. Non rinuncia alla poesia neppure di fronte alla propria morte, raccontando che gli abitanti della "sua" isola la trovano un evento del tutto naturale e che parlano «della morte/come si parla d’un frutto». Pochi mesi dopo, il 9 ottobre 1978, muore all'ospedale di Bobigny, un sobborgo di Parigi. Ha quarantanove anni e viene seppellito sulla adorata isola Hiva-Oa.

 

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