L'11 maggio 1981 al Cedars Of Lebanon Hospital di Miami, in Florida, chiude per sempre gli occhi Bob Marley o, meglio, Berhane Selassiè, come si è ribattezzato sei mesi prima al momento della sua ammissione ufficiale tra i fedeli della Chiesa Ortodossa d’Etiopia. Si conclude così un lungo calvario di cure, preghiere, delusioni e speranze iniziato il 21 settembre dell'anno prima a New York dopo un concerto al Madison Square Garden. Quel giorno, come ogni mattina, la moglie Rita chiede a Bob di accompagnarla alla funzione nella Chiesa Ortodossa d’Etiopia della città, ma il cantante risponde di non sentirsi troppo bene. Deciso a scuotersi dallo strano torpore se ne va con alcuni amici nei viali del Central Park per fare un po’ di jogging. Dopo qualche minuto di corsa, però, cade a terra privo di sensi. Soccorso, si riprende velocemente ma resta turbato e si lamenta di aver il collo irrigidito in una posizione innaturale. L’équipe medica che lo visita gli diagnostica quello che probabilmente Bob intuiva già da tempo: il suo cervello è stato aggredito da una massa tumorale, la speranza massima di vita è di tre settimane. Il cantante decide di partire ugualmente per Pittsburg dove ha in programma un concerto. Invano Rita e gli amici cercano di impedire l’esibizione. Nonostante il dolore Bob resta sul palco per novanta minuti. Quando si ritira nel suo camerino è in un bagno di sudore e fatica a deglutire l’acqua che gli viene offerta. Pochi minuti dopo viene diffuso un comunicato stampa che annuncia la sospensione del tour per un non ben definito “stato d’esaurimento” di Bob Marley. Da quel momento inizia la sua solitaria battaglia contro la morte, ma la sua volontà e le sue risorse interiori non basteranno a combattere la malattia che lo divora. Smentisce le previsioni dei medici che gli avevano dato solo tre settimane di vita, ma non può fermare il suo destino. L’11 maggio 1981 muore al Cedars Of Lebanon Hospital di Miami senza riuscire a ritornare, come aveva sperato, nella natìa Giamaica. L'isola gli riserverà onori degni di un Capo di Stato con una camera ardente allestita nella National Arena di Kingston, uno degli spazi più grandi della città che si rivela, però, inadeguato a contenere l'impressionante afflusso di gente venuta a rendere l'ultimo saluto al profeta del reggae.
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