25 settembre, 2020

25 settembre 1960 – Roberto Kunstler, il socio di Cammariere

Il 25 settembre 1960 nasce a Roma il cantautore Roberto Kunstler. A vent’anni inizia a esibirsi al Folkstudio e nel 1983 collabora con il gruppo Strada Aperta di Antonello Venditti. Nello stesso anno partecipa al tour di Mimmo Locasciulli. Nel 1984 pubblica il suo primo singolo con i brani Danzando con la notte e col vento e Piccola regina del varietà che vince il Premio Rino Gaetano. Nel 1985 partecipa al Festival di San Remo tra le nuove proposte con la canzone Saranno i giovani e pubblica il suo primo album Gente comune (BMG). Quattro anni dopo realizza il secondo album Mamma, Pilato non mi vuole più seguito nel 1991 da Eclettico Ecclesiastico. A partire dal 1992 inizia a collaborare con Sergio Cammariere. I due pubblicano nel 1993 l’album I ricordi e le persone che contiene la prima versione di Dalla pace del mare lontano e scrivono varie canzoni per altri interpreti. La collaborazione con Cammariere impegna gran parte dell’attività di Kunstler che, pur non rinunciando a esibirsi dal vivo in diverse occasioni evita di pubblicare nuovi dischi fino al 2005 quando, a undici anni dall’album precedente, realizza Kunstler. Nel 2014 torna in studioper registrare l'album Mentre.


23 settembre, 2020

23 settembre 1962 – “Ave Maria” a sorpresa per Miranda Martino

Il 23 settembre 1962 Miranda Martino, la "scandalosa" interprete di Meravigliose labbra, considerata una delle donne più sensuali della canzone italiana e protagonista delle cronache rosa dell’epoca, si sposa con il giornalista Ivano Davoli. Per l’occasione la chiesa viene presa d’assalto da giornalisti e fotografi. Tra la sorpresa generale, durante la cerimonia, accompagnata dalla musica dell’organo si alza chiara la voce di Luciano Tajoli sulle note dell’Ave Maria. Il contrasto tra il personaggio moderno e disinvolto della Martino e la presenza di un esponente della canzone melodica tradizionale come Tajoli non sfugge ai giornalisti presenti e suscita più di una curiosità. Al termine la cantante spiega di aver chiesto volutamente a Luciano, “che ho conosciuto bene al Cantagiro e che considero uno dei più grandi interpreti della musica italiana”, di cantare al suo matrimonio perché “la sua voce ha sfumature capaci di commuovermi”.


22 settembre, 2020

22 settembre 1919 - Rio Gregory, il pianista jazz di Zurigo

 

Il 22 settembre 1919 nasce a Zurigo, in Svizzera, Rio De Gregori, che, con il nome d'arte di Rio Gregory viene considerato uno dei migliori pianisti jazz europei degli anni Trenta e Quaranta. Spinto dai genitori inizia lo studio del pianoforte in età scolare ma lo fa talmente di malavoglia che dopo tre anni gli stessi genitori accettano la sua decisione di smettere. Quelle ore passate sui tasti bianchi e neri gli tornano alla mente molto tempo dopo quando, sedici anni, ascoltando alcuni dischi di Duke Ellington, decide di ritornare a suonare. Nel 1936, appena diciassettenne, inizia la sua carriera di jazzista con un trio, formato da pianoforte, violino e batteria. Nel 1937 conosce il batterista statunitense Mac Allen, che aveva suonato dieci anni prima a Berlino con Bechet, e con lui forma un duo destinato a durare per ben due anni. In seguito suona e incide con la maggior parte delle orchestre attive in quell'epoca in Svizzera, da quella di Jo Grandjean a quella di René Weiss, da quella di Fred Bohler, a quella di Philippe Brun, agli Original Teddies. Nel 1942 inizia a registrare con il suo nome in trio e l’anno successivo con un settetto comprendente Flavio Ambrosetti al vibrafono e Stuff Combe alla batteria. Nel dopoguerra forma una grande orchestra che mantiene unita per circa quattro anni. Nel 1949 sostituisce il pianista Don Gais, nell'orchestra di Eddie Brunner. Negli anni successivi, alterna l'attività di musicista di jazz con quella di pianista in varie orchestre di musica leggera. Muore il 22 maggio 1987 a Monaco.



21 settembre, 2020

21 settembre 1920 – Bandiera rossa trionferà…

Il 21 settembre 1920 le vetture tramviarie di Torino vengono tappezzate di volantini sui quali è scritto "Bandiera rossa trionferà/se il soldato la seguirà!". È uno dei tanti fenomeni che costellano i primi anni di vita di un brano destinato a entrare nella tradizione culturale del nostro paese. Bandiera rossa infatti è forse la più famosa e cantata canzone del movimento operaio italiano. Le sue origini si perdono nella nebbia e anche l'anno di nascita che comunemente viene preso per buono, cioè il 1908, è probabilmente da ritenersi una data indicativa. Il testo originale, quello della tradizione socialista, è stato scritto da Carlo Tuzzi, anche se la versione originale ha subito numerosi rimaneggiamenti. Quella che in genere si conosce oggi è la più diffusa versione comunista dell'inno, anche se neppure questa è scevra da varianti. La strofa «Dai campi al mare, alla miniera/dei proletari, l'immensa schiera/avanti é l'ora della riscossa/bandiera rossa trionferà» ha anche una versione che dice «Dai campi al mare, alla miniera/all'officina, chi soffre e spera/sia pronto, é l'ora della riscossa/bandiera rossa trionferà». La strofa successiva «O proletari, alla riscossa» diventa in altre versioni «O comunisti alla riscossa». Non è, però, il caso di scervellarsi perché nelle canzoni popolari, le variazioni sono un segno di vita e vivacità di un brano. È “L'Ordine Nuovo”, il giornale di Antonio Gramsci, a raccontare che il 21 settembre 1920 le vetture tramviarie di Torino vengono tappezzate di volantini sui quali è scritto «Bandiera rossa trionferà/se il soldato la seguirà!», a dimostrazione che la fantasia popolare non ha limiti. Più difficile è ricostruire l'origine della musica. Secondo Roberto Leydi essa deriverebbe dalla fusione di due arie popolari della tradizione lombarda: la strofa da Ciapa on saa, pica la porta (prendi un sasso, picchia la porta) e il ritornello dall'aria Ven chi Nineta sotto l'ombrelin (Vieni qui Ninetta sotto l'ombrellino). Ne esistono anche varie versioni in lingue diverse. Cesare Bermani scrive che di essa sono note anche una versione tedesca e una ucraina. A differenza di quanto accaduto con L'internazionale, Bandiera rossa è stata poco utilizzata nel rock, nonostante alcune pregevoli eccezioni. La più famosa "utilizzazione impropria" è quella degli Osanna che, in ossequio alla lezione di Jimi Hendrix, ne scandiscono le prime battute con il suono lancinante di una chitarra distorta come introduzione a Non sei vissuto mai un brano del loro primo album. Un'esperienza simile ripercorrono gli Area invertendone la collocazione. Soprattutto nelle esecuzioni dal vivo, infatti, la chitarra lancia le note di Bandiera rossa sulla chiusura della loro versione de L'Internazionale.



17 settembre, 2020

17 settembre 1958 – Herbie Fields l'incompreso

Il 17 settembre 1958 muore suicida a Miami, in Florida, il saxoclarinettista Herbert “Herbie” Fields. Nato a Elizabeth, nel New Jersey, il 24 maggio 1919, fra il 1936 e il 1938 ottiene il primo ingaggio professionale con l'orchestra di Fred Allen quando è ancora studente alla Juilliard School of Music di New York. Nel 1939 dirige un'orchestra insieme al pianista e arrangiatore George Handy e successivamente dopo un breve periodo con quella di Woody Herman, suona col trio di Leonard Ware e nel 1941 approda nella band di Raymond Scott. Nel periodo del servizio militare dirige la banda di Fort Dix e dopo il congedo, capeggiò un proprio gruppo che scioglie verso la fine del 1944. Nel dicembre di quell’anno entra nell'orchestra di Lionel Hampton con la quale rimane fino al febbraio del 1946. Chiusa l’esperienza con Hampton dà vita a una nuova formazione a suo nome nella quale suonano anche il trombettista Neal Hefti e il batterista Tiny Kahn. Negli anni Cinquanta, deluso dalla progressiva marginalizzazione cui viene sottoposto da parte dell’ambiente del jazz si rifugia in Florida dedicandosi quasi esclusivamente alla musica commerciale. Le difficoltà a trovare spazio lo portano a ricorrenti crisi depressive fino al 17 settembre 1958 quando muore dopo aver ingerito una dose massiccia di barbiturici.





15 settembre, 2020

15 settembre 1977 – Driftin' Slim, una leggenda se ne va

15 settembre 1977 muore a Los Angeles, in California, il leggendario bluesman Driftin’ Slim. Cantante, armonicista e chitarrista blues nasce ad Atlanta, in Georgia, il 24 febbraio 1919 e all’anagrafe è registrato con il nome di Elmon Mickle. Eccellente cantastorie è un leggendario “one man band” conosciuto anche con gli pseudonimi di Drifting Smith, Harmonica Harry e Model T Slim. Impara a suonare l'armonica da John Lee “Sonny Boy” Williamson, destinato a rimanere a lungo il suo maggior ispiratore e con lui lavora spesso durante i primi anni Quaranta nei locali di Little Rock, in Arkansas. Nel 1951 forma un proprio gruppo con i chitarristi Baby Face Turner, Junior Crippled, Red Brooks e con Bill Russell alla batteria. Con questa band incide per la Modern i suoi primi brani My Little Machine e Down South Blues. L'anno dopo registra con Ike Turner Good Morning Baby e My Sweet Woman per la RPM. Dopo la morte di Brooks inizia a esibirsi da solo come nell'area di Los Angeles. Nel 1959 registra alcuni dischi con il suo vero nome. All'inizio degli anni Settanta le sue cattive condizioni di salute lo costringono ad abbandonare la vita musicale attiva. La sua ultima esibizione pubblica avviene al Folk Music Festival di San Diego del 1971. Nel 1977 ci lascia per sempre.

14 settembre, 2020

14 settembre 1973 – La musicalità istintiva di Alessandro Canino

Il 14 settembre 1973 nasce a Firenze il cantante Alessandro Canino. Figlio di un musicista trova nel padre un alleato quando decide di avvicinarsi al mondo della musica, per il quale dimostra un precoce interesse e un grande talento. Il ragazzo studia con Walter Savelli e inizia prestissimo a esibirsi in vari locali di Firenze. Nel 1992 Alessandro debutta nella categoria “Nuove Proposte” del Festival di Sanremo con la canzone Brutta cui segue il suo primo album Alessandro Canino. Brutta diventa uno dei successi commerciali dell’anno e Canino vince il Telegatto come Miglior Artista Emergente decretato dal pubblico di “Vota la Voce”. Negli anni successivi torna ancora al Festival di Sanremo presentando nel 1993 Tu tu tu tu tu e nel 1994 Crescerai. Dotato di una musicalità istintiva si conferma successivamente come uno dei più promettenti cantautori del nuovo panorama pop italiano.



08 settembre, 2020

8 settembre 2001 – RE.SET, il primo festival italiano di dance ed elettronica

L'8 settembre 2001 il Campovolo di Reggio Emilia si trasforma nella capitale europea della musica dance ed elettronica. Nell'area, occupata dalla Festa Nazionale dell'Unità sbarca infatti RE.SET, il primo festival di dance ed elettronica italiana con una succulenta serie di artisti annunciati. L’iniziativa riempie un vuoto. Da tempo, infatti, in molti sottolineavano come alla scena dance ed elettronica italiana mancasse un grande appuntamento live, di ampio respiro, capace di misurarsi con i raduni di massa che costellano il panorama europeo. Dalla fin troppo citata Love Parade di Berlino, che in quell’anno dopo oltre un decennio mobilita oltre un milione di persone ai più modesti (si fa per dire) happening di Parigi con "soltanto" mezzo milione di persone o di Zurigo, che si attesta su trecentomila presenze, l'intera Europa vede lo svolgimento di grandi festival. L'Italia per lungo tempo ha guardato stupita, quasi distratta, ciò che avveniva negli altri paesi, pur con qualche lodevole eccezione. Mancanza d'interesse? Non sembra, visto che le attività nei club italiani e, soprattutto, nei Centri Sociali sono da tempo coronate da successo. A Milano, per esempio, l'attività del venerdì in Pergola è stata particolarmente attiva nei settori nu-jazz e drum'n'bass, mentre alcuni rave organizzati dal Leoncavallo, come quello con Goldie e Storm, hanno attirato migliaia di giovani entusiasti. Sempre per restare in Lombardia come dimenticare lo storico mercoledì dei Magazzini Generali che si ripete ormai da cinque anni? Ma la febbre non è soltanto nordica, visto che Roma dimostra un'effervescenza non inferiore alle altre capitali europee con serate come quella del venerdì all'Agatha, del sabato al Classico Village. Accanto all'ormai storico govedì del Goa, che ha ospitato, tra gli altri, Goldie, Darren Emerson e la Boutique di Fatboy Slim, non mancano nuove iniziative come l'apertura del Blue Cheese, un locale dedicato ai nuovi suoni del breakbeat e del drum'n'bass. Più orientate ai suoni tech-house appaiono, invece, Torino e Bologna, dove il Link resta il faro-guida della scena dance underground non soltanto locale. Insomma, il panorama italiano dell'elettronica mai come in quel periodo appare in forte crescita qualitativa e quantitativa. Per questa ragione l'appuntamento di Reggio Emilia diventa uno di quelli destinati a lasciare un segno. Non è un caso che proprio la cittadina emiliana si sia candidata a diventare, sia pure per un giorno la capitale della dance e dell'elettronica. Sul suo territorio l'anno prima è stata organizzata Clubspotting, una mostra di approfondimento sulla club culture che ha suscitato notevole interesse in tutto il mondo e di cui è prevista nel 2001 la seconda edizione. Sempre a Reggio c'è, poi, il Maffia Music Club, il cui Soundsystem funge da maestro di cerimonia nella lunga, lunghissima giornata del RE.SET. Il programma annunciato promette una rassegna unica nella pur lunga storia di questo genere musicale nel nostro paese. Tra le performance più attese c'è quella dei Transglobal Underground, il system che negli anni precedenti ha avuto nella propria line-up anche Natacha Atlas. Il loro suono capace di ardite contaminazioni tra tribalismo, rap arabo, campionamenti ipnotici e sonorità etniche, resta, a dieci anni dalla nascita dell'ensemble, un costante punto di riferimento per la scena del world groove. Ci sono anche Roni Size & Full Cycle, i quattro ragazzotti di Bristol vincitori di un Mercury Award e considerati tra i maggiori responsabili della diffusione nel mondo del drum’n’bass e i londinesi Pressure Drop con il loro suono radicale e antirazzista. L'orizzonte si allarga ancora con le esplorazioni del francese Frederic Galliano che mescolano musica elettronica, jazz e cultura africana e le tensioni sonore e ritmiche di Howie B. C'è anche Fabio, il dj esponente dell'ala più jazzy e musicale del drum'n'bass cui Matthew Collin ha dedicato un intero capitolo del suo libro "Stati di alterazione" che analizza la club culture inglese. Una sfida al razzismo e a favore dell'integrazione tra culture diverse è anche la presenza di Badmarsh & Shri esponenti di quell'Asian Underground che mescola funk, drum'n'bass, dub, musica indiana, London beat e jazz. Non manca neppure Wookie, considerato l'astro nascente del twostep garage britannico e neppure i suoni malfermi e uggiosi del breackbeat dei Freestylers. Non sono, infine, escluse presenze a sorpresa di artisti non annunciati. Il panorama italiano, oltre che dai Maffia Soundsystem è rappresentato dall'ex Aeroplanitaliani Alessio Bertallot, divenuto una sorta di profeta dell'elettronica che da qualche tempo, consapevole del suo ruolo, alterna evoluzioni ai piatti, rubriche radiofoniche e performance giornalistiche.

31 agosto, 2020

31 agosto 2000 – A Venezia dodici minuti di applausi per “I cento passi”

Il 31 agosto del 2000 alla Mostra del Cinema di Venezia viene proiettato per la prima volta “I cento passi”, il film di Marco Tullio Giordana dedicato alla vita e alla morte per mano della mafia del giovane Peppino Impastato. Quando si riaccendono le luci dalla sala che ospita pubblico e critica arrivano dodici minuti ininterrotti di applausi. È un successo inaspettato che premia la costanza di chi ha creduto in un progetto la cui storia parte da lontano. I primi in ordine di tempo a occuparsi della vicenda di Peppino Impastato sono Michele Mangiafico e Giuseppe Marrazzo che nel 1978 realizzano due servizi televisivi. L’anno dopo il regista Gillo Pontecorvo pensa di realizzare un film sulla vita del ragazzo, ma dopo un sopralluogo a Cinisi, non dà seguito all’intenzione. La vicenda di Peppino Impastato torna d’attualità nel 1993 quando Claudio Fava e il regista Marco Risi realizzano un servizio per la serie “Cinque delitti imperfetti” di Canale 5. Due anni dopo il regista Antonio Garella realizza un video per il programma televisivo “Mixer” mai andato in onda. Nel 1998 il regista Antonio Bellia con un video di una mezz’oretta intitolato Peppino Impastato: storia di un siciliano libero distribuito con il quotidiano “Il Manifesto”. Nello stesso periodo Claudio Fava e Monica Capelli cominciano a lavorare su una sceneggiatura che vince il Premio Solinas ottenendo così una parte dei fondi necessari per finanziare il film. La regia viene affidata a Marco Tullio Giordana, che all’epoca ha all’attivo film d’impegno come "Maledetti vi amerò" del 1980 e "Pasolini, un delitto italiano" del 1995. Trovati i fondi che mancano grazie anche al sostegno del giovane produttore Fabrizio Mosca Giordana riesce a concludere il lavoro in tempo per proiettarlo al Festival di Venezia dove la giuria gli assegna il premio per la miglior sceneggiatura. È il primo di una lunga serie di riconoscimenti tra i quali spiccano i quattro David di Donatello del 2001: a Claudio Fava, Monica Zappelli e Marco Tullio Giordana per la miglior sceneggiatura, a Luigi Lo Cascio per il migliore attore protagonista, a Tony Sperandeo per il miglior attore non protagonista e a Elisabetta Montaldo per i migliori costumi. Nello stesso anno il film vince anche il prestigioso premio David Scuola. Notevoli riscontri ottiene anche la ricca colonna sonora che attinge a generi diversi. Accanto a brani di Giovanni Sòllima, Arvo Pärt, John Williams, Gustav Mahler, si possono infatti ascoltare passaggi jazz del Quintette Hot Club de France, il leggendario gruppo di Django Reinhardt e Stéphane Grappelli, o Volare di Domenico Modugno. L’idea di Marco Tullio Giordana è quella di rendere un clima senza curarsi troppo della perfezione storica per questo si mescolano artisti nati in anni differenti come Sweet, Animals o Leonard Cohen. Emozionanti sono le note strozzate di Summertime nella versione di Janis Joplin nel momento dell’agguato finale e la scelta di far accompagnare i funerali dall’organo hammond dei Procol Harum in A whiter shade of pale.

30 agosto, 2020

30 agosto 1923 – Giacomo Rondinella, figlio d’arte

Il 30 agosto1923 nasce a Messina Giacomo Rondinella, figlio di un cantante famoso come Ciccillo Rondinella e dell’attrice-cantante Maria Sportelli, più conosciuta con il nome d’arte di Mary Mafalda. I genitori non vogliono che il ragazzo ripercorra le loro tracce. Per questa ragione lo fanno crescere lontano dalle scene e lo iscrivono alla scuola nautica per conseguire il diploma di capitano di lungo corso. Arruolato nel battaglione San Marco viene sorpreso dall’armistizio dell’8 settembre 1943 e costretto a rifugiarsi in casa di amici. Lasciata la divisa decide di entrare nel mondo dello spettacolo. All’inizio del 1944 debutta al circolo culturale Beato Angelico di Roma, accompagnato al pianoforte e alla chitarra da due giovani amici e subito dopo viene scritturato dalla compagnia Sportelli-Valori. Nel 1944 canta al cinema teatro Cola di Rienzo di Roma durante una festa di beneficenza e viene notato dal maestro Segurini che lo scrittura per cantare alla radio. Nel 1945 partecipa alla rivista “Imputato alzatevi”, di Michele Galdieri, con Totò, dove interpreta per la prima volta Munasterio ‘e Santa Chiara, destinata a diventare un successo mondiale. Lavora poi con le compagnie di Alberto Sordi, Rossano Brazzi, Anna Magnani, Macario, Carlo Dapporto e Renato Rascel. Tipico rappresentante della melodia partenopea, in breve tempo diventa popolarissimo vendendo migliaia di dischi. Nel 1954 presenta al Festival di Napoli Penzammoce con Achille Togliani e Pulecenella con Katyna Ranieri. Torna alla rassegna napoletana nel 1956 conquistando il secondo posto con Suspiranno 'na canzone in coppia con Aurelio Fierro e l'anno dopo è terzo insieme a Gloria Christian con 'Nnammurate dispettuse. Nel 1958 arriva ancora terzo con Giulietta e Romeo insieme a Nicla Di Bruno e nel 1961 è secondo con Palummella swing, in coppia con il duo Gino Latilla-Carla Boni. Nel 1960 è uno dei cantanti fissi di Canzonissima e nel 1962 partecipa al Festival di Sanremo con Il nostro amore insieme a Gesy Sebena. Nello stesso anno è ancora una volta secondo al Festival di Napoli con Serenata malandrina. Si trasferisce poi a Toronto dove gestisce un teatro di rivista, salvo tornare brevemente in Italia nel 1968 per partecipare al Festival di Napoli piazzandosi terzo con Guappetella. Tra le sue numerose pubblicazioni discografiche è da ricordare l'antologia di classici napoletani Napoli fonte perenne di melodia.

28 agosto, 2020

28 agosto 1920 - Giorgio Consolini, il primo interprete di “Luna rossa”

Il 28 agosto 1920 nasce a Bologna il cantante Giorgio Consolini, uno dei protagonisti della canzone italiana del secondo dopoguerra. Dopo aver mosso i primi passi come cantante nelle balere romagnole firma il suo primo contratto discografico nel 1945 e resta nella storia della canzone italiana per essere stato il primo interprete di Luna rossa, da lui presentata alla Piedigrotta del 1950 e divenuta poi un grande successo di Claudio Villa. Numerose sono anche le sue partecipazioni al Festival di Sanremo dove, sempre in coppia con Gino Latilla, nel 1953 conquista il terzo posto cantando Vecchio scarpone e nel 1954 vince con Tutte le mamme. Nel 1957 alla manifestazione sanremese, in coppia con Claudio Villa, presenta i brani Cancello tra le rose e Usignolo e vince la serata degli Autori Indipendenti con Ondamarina. Torna al Festival nel 1958 con Arsura, in coppia con Carla Boni, Campane di S. Lucia con Claudio Villa, È molto facile dirsi addio insieme a Marisa Del Frate e Se tornassi tu con Johnny Dorelli, nel 1960 con Amore, abisso dolce in coppia con Achille Togliani e Il mare con Sergio Bruni e nel 1962 con Vita, in coppia con Narciso Parigi. Negli anni Ottanta, sull’onda del revival nostalgico forma il gruppo “Quelli di Sanremo” con Nilla Pizzi, Carla Boni e Gino Latilla. Tra le sue interpretazioni più famose si ricordano anche Tamburino del reggimento, Vecchia villa comunale, Polvere, Giamaica e Rondinella forestiera. Muore nella sera del 28 aprile 2012 all'Ospedale Maggiore di Bologna all'età di 91 anni.

26 agosto, 2020

26 agosto 1959 – Arriva la Mini, l’auto della Swingin’ London

Il 26 agosto 1959 vede la luce la Mini, un’auto destinata a diventare, negli anni Sessanta il simbolo della rottura con le tradizioni, una sorta di trasposizione a quattro ruote del look moderno e aggressivo che accompagna la nascita e la crescita di un nuovo protagonismo giovanile. Non è un caso che proprio questa minuscola quattroruote, insieme alla minigonna, ai Beatles, ai variopinti abiti di Carnaby Street e alle musiche di derivazione rhythm and blues sia ancora oggi considerata una delle componenti fondamentali della Swingin’ London, la Londra capitale della gioventù d’Europa all’alba degli anni Sessanta. E pensare che quando nasce alla fine degli anni Cinquanta in molti arricciano il naso di fronte a un gioiellino che frantuma le regole auree del perfetto costruttore d’auto. Fino a quel momento, infatti, per i costruttori britannici d’automobili “piccolo” non poteva essere ancora associato a “bello”. L’idea di vettura di città era legata alle “bubble cars”, vetturette spesso con tre ruote, con i posti in tandem e accesso frontale all’abitacolo. La rottura avviene per opera di Alec Issigonis, un geniale progettista d’origine greco-turca che, su incarico di Leonard Lord, l’amministratore delegato della BMC (British Motor Corporation) realizza a tempo di record una vettura dalle caratteristiche costruttive rivoluzionarie: motore anteriore disposto trasversalmente, radiatore laterale, trazione anteriore e sospensioni indipendenti con elementi elastici in gomma. Queste ultime sono frutto dell’apporto creativo di un grande amico di Issigonis, Alex Moulton, una specie di genio dei sistemi di sospensione. Solo otto mesi dopo l’affidamento dell’incarico i primi prototipi cominciano a macinare chilometri sulle strade britanniche! Il primo nome della vetturetta progettata da Alec Issigonis è ADO 15, una fredda sigla d’officina per un prototipo tutto da inventare. L’involontaria artefice di un nome destinato a restare per sempre nell’immaginario collettivo è la moglie di un giovane ingegnere dello staff di Issigonis. La donna, infatti, recatasi per caso a trovare il marito al quartier generale dei progettisti in Longbridge, si trova di fronte per la prima volta il misterioso modello di cui fino a quel momento aveva soltanto sentito parlare e, sorpresa, esclama: «Com’è mini!». La frase, buttata lì di getto, colpisce il gruppo di progettisti perché il termine sintetizza efficacemente tutti i valori espressi dall’autovettura. L’ADO 15 diventa Mini e il 26 agosto 1959 viene presentata ufficialmente.. Il primo modello ha un motore da 848 cc in grado di erogare 34 cv e viene immesso sul mercato come Austin Mini Seven e come Morris Mini Minor. La sua commercializzazione, cioè, viene affidata ad Austin e Morris, due dei molti marchi che compongono la BMC. Nonostante l’ottimismo del grande capo Leonard Lord, un tipo il cui principio era «quando costruisci automobili terribilmente buone, l’ultima preoccupazione che hai è quella di venderle!», l’accoglienza del pubblico non è esaltante e, per qualche tempo il modello, nonostante il prezzo tutt’altro che inaccessibile, sembra destinato ad attrarre l’interesse della fascia medio-alta della popolazione britannica, numericamente poco interessante per chi pensava di conquistare il mercato della motorizzazione di massa. È soltanto una falsa partenza che non pregiudica più di tanto il progetto. In breve tempo la Mini si tramuta in un grande successo commerciale e di costume, diventando il simbolo della rivoluzione generazionale degli anni Sessanta. L’accordo tra la BMC e il costruttore di vetture da corsa per la formula 1 dà il via alla produzione delle Mini Cooper, vetturette aggressivamente sportive con cerchi in lega, rifiniture e accessori presi a prestito dalle versioni destinate alle competizioni. Le vittorie di questo modello a ben tre edizioni del Rallie di Montecarlo (1964, 1965 e 1967) e i risultati conseguiti in centinaia di gare su strada e in pista fanno entrare la Mini anche nella storia degli sport motoristici.

25 agosto, 2020

25 agosto 1973 – Gli Stories, un gran gruppo, non una cover band

Il 25 agosto 1973 al vertice della classifica dei dischi più venduti negli Stati Uniti c'è Brother Louie, un brano che ha già conosciuto un buon successo in Gran Bretagna nella versione degli Hot Chocolate. Il disco che sta dominando le classifiche statunitensi, pur simile a quello britannico, non è eseguito dalla stessa band. Artefici del successo negli States sono gli Stories, un gruppo di cui pochi, fino a quel momento, hanno sentito parlare. Per evitare i soliti sospetti di essere un "gruppo fantasma", i quattro Stories si cimentano in una lunga serie di concerti e di conferenze stampa. Tutti possono verificare così che la band esiste da poco più di un anno ed è stata fondata dal tastierista Michael Brown, già con Left Banke e i Montage. Suoi compagni d'avventura sono il cantante e bassista Ian Lloyd, il chitarrista Steve Love e il batterista Bryan Madey. Pochi mesi dopo la loro costituzione pubblicano il singolo I'm coming home e l'album Stories, passati inosservati, o quasi, ai più. All'inizio del 1973, quando gli Stories non hanno ancora compiuto un anno, Michael Brown, confermando la sua fama d'artista irrequieto, dichiara chiusa la storia del gruppo e se ne va. I suoi compagni non ci stanno. Lo sostituiscono con il tastierista Kenny Bichel e riprendono a darsi da fare. L'assenza del leader-fondatore li penalizza dal punto di vista creativo e per far fronte agli obblighi contrattuali con la loro etichetta decidono di interpretare un brano già conosciuto. La scelta cade su Brother Louie degli Hot Chocolate che, a sorpresa, diventa un successo. Il disco fortunato non cambia il loro destino. Nonostante i risultati saranno per sempre considerati niente di più di una buona "cover band". Persi per strada Love e Lloyd, sostituiti dal chitarrista Rich Ranno e dal bassista Kenny Aaronson pubblicheranno ancora qualche disco, tra cui Mamy Blue, versione del successo dei Pop Tops, e nel 1975 finiranno per separarsi definitivamente.


21 agosto, 2020

21 agosto 1964 - L’ultimo western italiano prima della rivoluzione di Leone


Il 21 agosto 1964 a Milano viene proiettato per la prima volta “Le pistole non discutono”. Il film, diretto da un abile artigiano delle pellicole d’avventura come Mario Caiano, è il secondo western dopo “Duello nel Texas” prodotto dalla Jolly Film di Arrigo Colombo e Giorgio Papi che hanno come partner la spagnola Trio Film e la tedesca Constantin. L’impegno economico è notevole. Il costo preventivato è di duecentoquaranta milioni di lire, trenta dei quali rappresentano il cachet concordato con il “vecchio” cow boy statunitense “prestato” da Hollywood Rod Cameron. Sono tanti soldi, ma la società di produzione romana pensa di poter ottimizzare l'investimento utilizzando le scene e i macchinari per girare un altro lungometraggio. Si tratta di un western a basso costo diretto da Sergio Leone il cui obiettivo principale è quello di arrotondare gli incassi della Jolly Film. In realtà il destino ha in serbo una sorpresa. Il film di Leone, uscito nelle sale circa un mese dopo il film di Caiano con il titolo “Per un pugno di dollari”, segna l’inizio del “western all’italiana”, un genere destinato a lasciare un segno importante nella storia del cinema. “Le pistole non discutono”, invece, resta nella memoria collettiva come “l’ultimo western prima di Leone”, cioè l’ultimo esempio di una produzione italiana di film western “d’imitazione americana”. Nonostante la fama che lo circonda “Le pistole non discutono”, è un film decisamente meno “americano” di quanto si possa ritenere. Non è poi così strano visto che nel cinema, come in ogni ambito culturale, nulla nasce all’improvviso e la genialità del singolo in genere accelera e sintetizza processi che sono già in atto. Il western all’italiana non fa eccezione. Se Sergio Leone può essere considerato il primo a definire in modo compiuto i “codici di genere”, altri in quegli stessi mesi concorrono a fissarne contorni e ambiti, come Sergio Bergonzelli con “Jim, il primo” o Sergio Corbucci con il suo “Minnesota Clay”. In questo quadro il film diretto da Mario Caiano nonostante il suo impianto decisamente tradizionale come il protagonista anziano alla John Wayne o l’arrivo della cavalleria nel finale dovrebbe essere rivalutato. Anch’esso, infatti, contiene innovazioni che in qualche modo anticipano alcune caratteristiche del western all’italiana. È il caso, per esempio, della figura di Billy, il bandito paranoico che legge la Bibbia, più vicino ai cattivi senza sfumature degli “attori di parola” del cinema mitologico italiano cui si sono ispirati Leone e i suoi epigoni che ai complicati cattivi hollywoodiani. Decisamente più in linea con il western all’italiana che con la tradizione “americana” appare poi l’ostentazione delle ferite, con il sangue rosso vivido, nelle sequenze della morte di Billy colpito dal coltello di Santero o della cauterizzazione della ferita di George. In linea con questa impostazione appare anche la violenza esibita nel massacro finale dei banditi messicani.

18 agosto, 2020

18 agosto 1977 - Addio per sempre, Elvis

Gli esperti della polizia calcolano in più di settantacinquemila il numero dei fans che il 18 agosto 1977, giorno dei funerali di Elvis Presley, circondano Graceland, la favolosa villa di Memphis nella quale il re del rock and roll ha vissuto fino agli ultimi giorni della sua vita in una situazione di alienante, pur se dorata, solitudine. Quella che è accorsa a dargli l’ultimo saluto è una folla disperata e piangente, non aliena da gesti di isteria, che mette in difficoltà anche il nutritissimo servizio d’ordine. A parte i soliti contusi e gli innumerevoli svenimenti, il bollettino della giornata contempla anche due morti, due ragazze travolte da un’automobile sbucata da chissà dove e piombata improvvisamente sulla folla. Tutta questa gente preme sui cordoni di sicurezza. Non capisce perché non può partecipare ai funerali. È costretta a viverli a distanza di sicurezza, ai margini della cerimonia ufficiale, cui sono stati ammesse solo centocinquanta sceltissime persone. La salma di Elvis Presley viene inumata nel cimitero di Forest Hill a Memphis. Il quarantaduenne re del rock and roll è morto due giorni prima, all’alba del 16 agosto, stroncato da un collasso cardiaco dopo essere stato trovato dalla sua compagna Ginger Alden privo di sensi e con il viso affondato nella moquette del corridoio che porta in bagno. Immediatamente trasportato al Baptist Memorial Hospital di Memphis è spirato intorno all’una e mezza del pomeriggio. Con lui se ne va uno dei simboli della grande rivoluzione musicale degli anni Cinquanta, nata con l’esplosione del rock and roll. Il Presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter, esprimendo il suo cordoglio per la scomparsa, dichiara «La morte di Elvis Presley priva il nostro paese di una parte importante della sua cultura. Egli è stato unico ed irripetibile... La sua musica e la sua personalità hanno saputo fondere il country dei bianchi con il blues dei neri cambiando per sempre la cultura del popolo americano».

15 agosto, 2020

15 agosto 1927 - Katyna Ranieri, la voce italiana della notte degli Oscar

Il 15 agosto 1927 nasce a Follonica, in provincia di Grosseto, Caterina Ranieri destinata a diventare, con il nome d’arte di Katina Ranieri, una delle cantanti italiane più popolari al di fuori dei nostri confini. Muove i primi passi nel mondo della musica nei primi anni del dopoguerra esibendosi con varie orchestre delle Forze Armate Americane e nel teatro di rivista. Nel 1953 partecipa al Festival di Sanremo con cinque canzoni: Acque amare, No Pierrot, Domandatelo, La pianola stonata e Il passerotto. L’anno dopo torna alla rassegna sanremese con Rose, Sotto l’ombrello in duo con Giorgio Consolini e Canzone da due soldi che si piazza al secondo posto. Sempre nel 1954 partecipa al Festival di Napoli presentando cinque brani: Serenata embè, Speranza, Canta cu me, Pulecenella e Mannaggia ‘o soricillo. Anche il cinema si accorge di lei e la scrittura per un paio di film musicali. L’unione con il maestro Ritz Ortolani nell’Italia bigotta dell’epoca le procura l’accusa di bigamia e una serie di guai professionali e giudiziari. Si trasferisce pertanto negli Stati Uniti dove, nel 1964, diventa la prima e, per ora, unica cantante italiana a esibirsi nella notte degli Oscar. Nel 1974 registra dal vivo l'album Lui lui lui, che contiene brani di colonne sonore composte da suo marito Ritz Ortolani e nel 1980 partecipa al festival dei Due Mondi di Spoleto con un recital dedicato alle canzoni di Kurt Weill. Tra le sue interpretazioni di maggior successo ci sono, oltre a quelle citate, canzoni come More, L'amore è una cosa meravigliosa, ’A frangesa, Scapricciatiello, Lily Kangy, Je m’en fous, Hello happiness e Mi vida. Muore a Roma il 2 settembre 2018.

13 agosto, 2020

13 agosto 1914 - Ivon Debie, il pianista di Django Reinhardt

Il 13 agosto 1914 a St. Jans-Molenbeek, nei pressi di Bruxelles, nasce Ivon Debie, l'unico pianista del mondo a suonare in assolo con Django Reinhardt. Dopo aver studiato privatamente il pianoforte per cinque anni, all'età di diciassette dà vita alla sua prima orchestra con un gruppo di appassionati. L’esperienza lo stimola a continuare su quella strada anche se non gli dà ancora la possibilità di guadagnare a sufficienza. Dal 1937 al 1940 di giorno lavora come contabile mentre di notte dirige una band che pian piano si conquista una discreta popolarità tanto da diventare l’orchestra di Fud Candrix tornato a casa dopo aver partecipato all’inutile tentativo di resistere allo strapotere delle truppe tedesche nei primi mesi di quella che sarebbe poi passata alla storia come la Seconda Guerra Mondiale. Nel 1941 Debie inizia anche a frequentare il conservatorio di Bruxelles mentre gli occupanti tedeschi offrono ai componenti dell'orchestra Candrix due alternative: o lavorare nelle fabbriche in Germania o suonare con l'orchestra a Berlino. Trascorsi a Berlino alcuni mesi, l'orchestra Candrix torna a Bruxelles dove incide quattro dischi con Django Reinhardt. Il 16 aprile 1942 Debie accompagna Django Reinhardt in quattro “a solo” di violino e chitarra (Vous et Moi, Distraction, Studio 24, Blues en mineur) e poi forma una sua orchestra, suonando saltuariamente anche con Stan Brenders. Dopo la guerra forma vari gruppi, da un piccolo combo con Toots Thielemans nel 1946, a una grande orchestra di diciotto elementi che suona per l'esercito americano. Nel 1958 diventa direttore artistico della RCA del Belgio, dove lavorerà fino all’agosto 1979 quando si ritira definitivamente dalle scene musicali.

10 agosto, 2020

10 agosto 1957 – Pasquale Jovino, il cantante e chitarrista che ha entusiasmato il mondo muore in miseria

Il 10 agosto 1957 al Morvillo, l’ospedale dei poveri di Napoli muore a quasi novantadue anni, in miseria e dimenticato, da tutti il cantante e chitarrista Pasquale Jovino. Popolarissimo in Europa all'inizio del secolo nell'ambiente musicale napoletano è conosciuto anche con il soprannome di Pasquale ‘O Piattaro. Prima di dedicarsi a tempo pieno alla musica, infatti, lavora come garzone in una bottega dove si decorano piatti. Un giorno, sorpreso dalle sue qualità vocali, il maestro Vergine decide di dargli i primi rudimenti di musica e tecnica vocale. Nei pomeriggi in casa del celebre maestro gli è compagno di studi un altro giovane di belle speranze che risponde al nome di Enrico Caruso. Pasquale non termina il corso. Scritturato da un gruppo folcloristico se ne va in Germania. Finita la tournée non torna a Napoli, ma resta a Berlino dove per quattro anni sbarca il lunario cantando canzoni napoletane in vari locali. Sono i primi anni del Novecento e il suo spirito curioso e vagabondo si lascia trasportare dalle varie compagnie teatrali. La sua voce risuona in Russia, in Ungheria e nelle due Americhe. Tornato in Europa ricomincia da capo accettando scritture nelle bettole di Marsiglia. Ancora una volta, però, la fortuna lo assiste. Notato da un impresario viene scritturato per una rivista che resta per sei mesi in cartellone alle Folies Bergère di Parigi. Nel 1910, a quarantacinque anni, decide di tornare a casa. Da quel momento la sua voce diventa il sottofondo musicale dei migliori caffè concerto e ristoranti di Napoli e Posillipo. Leggendaria resta la sua interpretazione di un classico come 'O guarracino, eseguito ogni volta con l'aggiunta di un finale diverso ispirato dal momento, dall'ambiente o dagli interlocutori. Si ritira dalle scene nel 1945, ormai settantacinquenne. Stanco, malato e senza una lira il cantante che ha fatto impazzire il pubblico di due continenti vive i suoi ultimi dodici anni tra gli stenti e la miseria più nera.

03 agosto, 2020

3 agosto 1963 – L’ultima volta dei Beatles al Cavern

Il 3 agosto 1963, in una confusione indescrivibile di corpi sudati e con l'accompagnamento continuo delle urla assordanti dei ragazzi che accompagnano ogni loro brano, i Beatles si esibiscono nel locale che li ha visti nascere, crescere e diventare grandi: il Cavern Club di Liverpool. «Con questa fanno duecentosettantaquattro!» urla Paul McCartney aprendo le danze. I quattro ragazzi sono ormai popolarissimi in tutto il Regno Unito e la loro fama si sta allargando a macchia d’olio anche fuori dai confini britannici. A corroborare il loro buon umore c’è anche la notizia, arrivata poche ore prima dell’esibizione al Cavern del primo, timido, ingresso della loro From me to you nella classifica statunitense. Una folla indescrivibile li aspetta dalle prime ore del pomeriggio. Si può dire che tutta la popolazione di Liverpool al di sotto dei vent’anni occupi da ore le vie che portano al locale. L’affollamento crea non pochi problemi ai responsabili dell’ordine pubblico che temono incidenti e malori, anche perché il Cavern può contenere al massimo delle sua capienza reale, poco più di un centinaio di persone. In realtà la manifestazione di massa è molto diversa da quelle che stanno caratterizzando le esibizioni dei Beatles in tutto il territorio britannico. Più che uno dei tanti episodi di “Beatlemania”, in questo caso si può parlare di un entusiastico omaggio da parte dei giovani di Liverpool a quattro ragazzi come loro che ce l’hanno fatta a diventare famosi. Lo si vede fin dall’arrivo di George, Ringo, John e Paul. La folla li riconosce, li chiama per nome, scambia impressioni, ma non li soffoca. La stretta del pubblico è amichevole, rispettosa e affettuosa al tempo stesso, piena di ricordi e, per molti, di episodi di vita vissuta. Quando i Beatles iniziano a suonare tutti sanno di assistere a un evento che non si ripeterà più: troppo piccolo il Cavern per i quattro, troppo pericoloso sfidare oltre la sorte. Quello che si compie sotto gli occhi dei pochi fortunati che sono riusciti a entrare nel locale è una sorta di rito. I Beatles tornano per l’ultima volta nel locale da cui è partita la loro storia e i giovani della loro città li salutano per l'ultima volta perché sanno che le vicende dei quattro sono destinate a portarli lontano per sempre. È una cerimonia di ringraziamento e, insieme, di commiato, quella che si svolge al Cavern Club il 3 agosto 1963. Se ne rendono conto tutti, primi fra tutti i Beatles che, al termine della loro esibizione non sprecano tante parole. Si inchinano e salutano: «Ciao ragazzi. Ci vediamo!»

01 agosto, 2020

1° agosto 1987 - Il ritorno al vertice di Bob Seger

Il 1 agosto 1987 Shakedown, tema conduttore del film "Beverly Hills Cop II" riporta al vertice della classifica il quarantaduenne Bob Seger, uno dei più grandi talenti del rock statunitense. L'exploit è del tutto casuale. Il brano, infatti, è stato scritto per Glenn Frey che, però, colpito da una laringite, si è fatto sostituire dal vecchio leone, reduce dal buon successo dell'album Like a rock. Il primo posto in classifica, al di là del valore reale del brano, premia un artista spesso messo ai margini del music business per le sue idee politiche radicali e per l'eccessiva passione per l'alcool e sostanze varie. Fin da giovanissimo inizia a frequentare l'ambiente del rock and roll con garage-bands come i Town ed i Decibel, diventando poi il tastierista degli Omens di Doug Brown. Il suo primo exploit risale alla metà degli anni Sessanta quando con lo pseudonimo di Beach Bumps regala agli hippie una dissacrante versione del brano militarista Ballad of the green berets. Forma quindi i Last Heard con gli ex componenti degli Omens, impegnandosi a fondo nel movimento pacifista. In questo, che è il periodo più fertile e interessante della sua carriera, pubblica brani come la famosa 2+2, una canzone contro la guerra del Vietnam, e Ramblin' gamblin' man, entrambe inserite nel suo primo album. Considerato uno scomodo e poco manovrabile rompiscatole fatica a trovare spazio sulla scena musicale. Più volte decide di abbandonare la musica, ma fortunatamente si fa sempre convincere a tornare sui suoi passi. Negli anni Settanta vive il periodo smagliante con la Silver Bullet Band, testimoniato da splendidi album come Live Bullet, Night moves e Stranger in town. Nel 1980 pubblica Against the wind, probabilmente il suo miglior album in assoluto. Tra alti e bassi resiste al passare del tempo anche grazie alla stima di artisti come Bruce Springsteen che gli danno una mano a sopravvivere. Il successo di Shakedown lo aiuta a continuare.